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rivista semestrale

anno XXXV - terza serie

numero 88

luglio/dicembre 2023

Giorgio Diritti, L’uomo che verrà

[Italia 2009]

Inverno 1943. Martina ha otto anni, abita alle pendici di Monte Sole ed è l’unica figlia di una coppia di contadini che, come tante, fatica a sopravvivere. Tempo prima ha perso un fratellino appena nato e da allora ha smesso di parlare. Nel mese di dicembre, la mamma rimane di nuovo incinta. I giorni passano e ciascuno si prepara come può ad accogliere il piccolo. Chiusa in ritmi di vita tradizionali, che si modellano sul ritorno ciclico delle stagioni, l’intera comunità trasforma l’attesa in speranza, opponendo all’insensatezza e ai soprusi della guerra una resistenza che è innanzitutto rigore morale, rivolta interiore contro ogni forma di prevaricazione, di “violenza eretta a sistema”. Nella notte fra il 28 e il 29 settembre 1944, il bambino viene finalmente dato alla luce. Quasi contemporaneamente i tedeschi, già incalzati dall’esercito anglo-americano, scatenano una rappresaglia senza precedenti.

Circa ottocento persone vengono massacrate, nel tentativo, da un lato, di punire il sostegno offerto dagli agricoltori alla brigata partigiana Stella Rossa, dall’altro, di reclamare con la forza l’occupazione di un’area strategicamente importante, quella compresa fra il torrente Setta e il fiume Reno, a una trentina di chilometri a sud di Bologna. L’eccidio verrà ricordato, dalla gente e nei libri di scuola, come “la strage di Marzabotto”, dal nome del comune più colpito e a cui appartengono grossomodo i due terzi del territorio. Reduce della popolarità ottenuta con Il vento fa il suo giro (2005), Giorgio Diritti dedica il suo secondo lungometraggio alla memoria di quanti hanno saputo difendersi dalla paura e dalle offese dei potenti, non soltanto per mezzo dell’impegno armato, ma anche e in particolar modo sforzandosi di mettere in valore, nella ripetizione dei gesti quotidiani, un rapporto non mediato con le cose e le persone intorno.

In questo senso, sebbene se ne sia parlato come di un semplice “affresco storico”, il film ambisce a fare delle vicende narrate un possibile spunto di riflessione per analisi di più ampio respiro, che, come nel caso del discorso sulle lotte di classe, pur muovendo dalla specificità del contesto preso in esame, esulano da ogni considerazione di tipo esclusivamente documentario. Per questa ragione – e a discapito di qualche possibile anacronia – il lavoro di messa in scena tende a conciliare la ricostruzione scrupolosa e debitamente dettagliata delle location con l’impiego di una recitazione solo in apparenza naturalistica, che malgrado il ricorso fin troppo esibito al dialetto emiliano, non rinuncia a concessioni di natura estetica, qualora si tratti di ovviare al carattere potenzialmente retorico dell’enunciato.

È quanto traspare, oltre che dalle sequenze ad alto contenuto dialogico, anche da un certo numero di scelte formali, adoperate al fine di assicurare il coinvolgimento dello spettatore, andando ad incidere sulla componente patemica – benché mai ricattatoria – dell’impianto corale. A questo proposito, si ricordino almeno le semi-soggettive a lunga e media distanza e gli assidui movimenti di macchina a spalla, valide alternative al più facile realismo delle immagini sgranate, ottenute attraverso un tradizionale processo di alterazione termica della pellicola. Come ha osservato Becattini, dietro alle tante nuche che affiorano dai margini delle inquadrature fino ad occludere la visibilità degli scontri, c’è il progetto di una personificazione intradiegetica dello sguardo, l’idea secondo la quale, per descrivere una collettività, qualunque essa sia, non si possa prescindere in alcun modo dal mistero che si cela nelle vite di ognuno.

Ricostruite con l’ausilio delle testimonianze dirette e di seconda generazione, quest’ultime rappresentano infatti la chiave di lettura più autentica per la comprensione dei cambiamenti in atto. È attraverso di esse che ci è dato di cogliere, negli interstizi della storia ufficiale, le vicissitudini di uomini e donne che dopotutto ci assomigliano, pur se costretti, per ragioni che nessuna narrazione riuscirà mai a dibattere fino in fondo, a rivendicare il diritto di esistere, di “potersi ancora comportare”.

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