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rivista semestrale

anno XXXV - terza serie

numero 88

luglio/dicembre 2023

Laurent Jenny, Je suis la révolution. Histoire d’une métaphore (1830-1975)

[Belin, Paris 2008]

A un quarto di secolo dalla pubblicazione di La Terreur et les signes. Poétiques de la rupture (1982), Laurent Jenny torna a riflettere sulla possibilità di interpretare la letteratura francese moderna e contemporanea attraverso lo spettro delle relazioni che intrattengono, a livello semantico, i due termini del binomio innovazione/rivoluzione. Debitore della teoria di Jean Paulhan, in base alla quale, negli anni successivi alla caduta dell’Ancien Régime, al più generico affanno della lingua nel tradurre la complessità del pensiero, verrebbero ad aggiungersi le difficoltà della retorica a dare conto del processo di emancipazione ideologica in atto, il saggio ambisce ad argomentare in maniera definitiva l’assunto secondo cui «assimilare la libertà intellettuale all’esito delle riforme politiche non sia altro che un luogo comune».

Ancora una volta, gli autori che fanno l’oggetto di quest’ampia parabola di tipo storico-filosofico appartengono quasi tutti ad un arco di tempo compreso fra il 1830 e il 1975. Per quanto possa sembrare inedita, questa periodizzazione, difficilmente interpretabile al di fuori del contesto nazionale con cui l’indagine di Jenny si misura, trova una prima e più superficiale giustificazione nel tentativo di circoscrivere il graduale affermarsi della “metafora rivoluzionaria” in campo umanistico. Sancita dall’uso che ne fa Antoine Jay nel suo La Conversion d’un romantique (1830), quest’ultima pare aver continuato a diffondersi, secondo modalità e con accezioni di significato profondamente diverse, dall’epoca romantica fino all’indomani delle nuove avanguardie, quando i presupposti di ogni ulteriore impiego paiono infine venir meno, a discapito delle ragioni che li avevano prodotti. Ma non è tutto.

Scegliere di aprire i lavori con una veloce panoramica sull’attività teatrale di Victor Hugo, per poi andare a chiudere con due importanti capitoli interamente dedicati a Barthes e all’esperienza di «Tel Quel», vuol dire anche concedersi di dare voce ad alcuni degli esponenti più rappresentativi della scena culturale francese degli ultimi centocinquant’anni, in quello che tende ad assomigliare, nel tono e nella démarche, ad una sorta di lungo dialogo a distanza. È quanto si osserva, sul piano della forma, nel frequente ricorso alla giustapposizione delle fonti prese in esame: artificio per mezzo del quale «garantire l’eventualità di un confronto, quand’anche non fosse plausibile il suo effettivo realizzarsi».

Già evidente nella prima metà del libro, un simile procedere si fa addirittura irrinunciabile nella seconda, dove all’intento di ricostruire la genealogia di un’idea, si sommano il bisogno e la voglia di assumere un’opinione autonoma, relativamente all’esame dei contributi più recenti. A questo proposito, meritano di essere ricordate le considerazioni espresse in prima persona, in coda alle sette sezioni attraverso cui si articola, cronologicamente e per nuclei tematici, l’organizzazione dell’intero volume.

In queste pagine, lungi dal contestare le tesi di quanti si ostinano a difendere il carattere potenzialmente sovversivo della scrittura, Jenny si riserva di concludere che l’abbandono di una concezione sostanzialmente «terrorista e terrorizzante» delle parole potrebbe rappresentare, se non la garanzia, quantomeno il segnale di una «riconciliazione avverabile tra noi stessi e l’uso che facciamo dei nostri discorsi». Confortata da un certo numero di analisi “a campione”, una tale ipotesi chiede di essere intesa non soltanto sulla scorta delle argomentazioni che la precedono, ma anche e in particolar modo alla luce del dibattito epistemologico attuale.

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