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rivista semestrale

anno XXXV - terza serie

numero 87

gennaio/giugno 2023

Hans Henny Jahnn, 13 storie inospitali

[Lavieri, S. Angelo in Formis 2010]

«Uno dei maestri segreti della prosa del Novecento » lo definisce Domenico Pinto, che cura l’edizione di queste 13 storie inospitali nonché la coraggiosa collana «Arno» che le ospita presso Lavieri. Espressionista della prima ora, fondatore negli anni Venti di un’utopica comunità di artisti, costruttore d’organi a canne, prosecutore in lingua tedesca della rivoluzione joyciana con il romanzo Perrudja (1929), Hans Henny Jahnn (al secolo Hans Henry Jahn), dove Henny è il diminutivo di Henriette, nato ad Amburgo nel 1894 e scomparso nel 1956, benché assai poco conosciuto anche in Germania ha in effetti affascinato una quantità di scrittori, da Mann a Döblin, da Heiner Müller a Botho Strauss, passando per Peter Weiss e Rolf Dieter Brinkmann.

Questo monstrum delle lettere tedesche si forma nel clima dell’irrazionalismo primonovecentesco, tra l’eredità di Nietzsche e le Lebensphilosophien, senza tuttavia approdare al nichilismo di un Benn o di uno Jünger. Lasciando sullo sfondo le sue contraddizioni ideologiche (benché bollato come «pornografo e comunista» Jahnn non fu mai espulso dalla Camera degli scrittori del Reich) è possibile oggi, lasciateci alle spalle le dicotomie del Novecento, prendere sul serio la sua straordinaria indagine sulla natura umana. Su questo terreno, infatti, va misurata la sua scrittura, lo stesso sul quale da noi si sono mossi (beninteso: con risultati diversissimi) autori altrettanto recalcitranti a farsi arruolare nelle opposte schiere del progresso e della reazione: il Leopardi dispregiatore delle «magnifiche sorti e progressive» e il Pasolini studioso della «rivoluzione antropologica».

Nelle 13 storie inospitali, resecate dalle sue opere maggiori e nel 1954 assemblate in questa autoantologia, gli esseri umani si annusano come bestie, in un lussureggiare di sangue, sudore, seme, di ossa, muscoli e afrori. Solo attraverso rituali, per lo più assurdi e dunque immediatamente smascherati come tali, il nudo, ingovernabile materiale umano si dà provvisoriamente un ordine, un senso: rituali di preparazione alla morte (Kebad Kenya), di assoggettamento a un padrone (La storia dello schiavo, Un signore sceglie il suo servo), di dedizione amorosa (Ragna e Nils, Il tuffatore). Gli uomini non sono rappresentati come individui – concetto cardine della civiltà occidentale – ma come sede provvisoria di un’energia che li trascende e che è destinata a fluire altrove: nelle duemila pagine della trilogia Fluß ohne Ufer [Fiume senza rive, 1949-50], Jahnn si proponeva del resto nientemeno che di inaugurare un nuovo principio di rappresentazione romanzesca, costruendo i personaggi non sulla base di un “carattere” ma come contraddittoria manifestazione di una natura in primo luogo fisiologica, come «risultato di un’attività secretiva».

Su quest’idea è plasmato il suo particolarissimo stile, che Elisa Perotti restituisce in italiano con esiti di pagina in pagina più persuasivi: ciascuna frase tende, con ogni possibile strategia, a tradurre l’astratto in concreto, la parola in esperienza per i sensi. Il suo realismo assume ad oggetto di studio e rappresentazione non i rapporti sociali ma gli impulsi primari dell’essere umano: allo scrittore non interessa costruire un ordinamento migliore bensì «allargare l’anima umana», consapevole che il nudo essere, ad avere il coraggio di osservarlo, consiste nel «divorare ed essere divorati»; che l’uomo «è capace di tutto»; che la vita «è come è, ed è terribile ». Muovendosi fuori dalla Storia, Jahnn mostra il magma informe su cui sono gettate le fondamenta della civiltà. Fa riemergere ciò che la modernizzazione capitalistica (il mondo delle macchine) e la civiltà contemporanea (la riduzione delle potenzialità umane alla ragione strumentale) rimuovono e distruggono. Le sue storie sono inospitali, scomode: in tedesco nicht geheuer. Recita il coro dell’Antigone di Sofocle: «Tra quante cose esistono terribili» (ungeheuer, nella traduzione di Hölderlin) «nessuna è più terribile dell’uomo».

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