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rivista semestrale

anno XXXV - terza serie

numero 87

gennaio/giugno 2023

Stefano Dal Bianco, Prove di libertà

[Mondadori, Milano 2012]

Un modo per accedere al nuovo libro di Dal Bianco è percorrerlo à rebours, partendo cioè dalla nota finale: «Questo libro è stato scritto fra il 2001 e il 2011». Difficile immaginare qualcosa di più essenziale, specialmente in confronto agli autocommenti densi e allusivi che integrano molte opere poetiche novecentesche. Sennonché, l’essenzialità non va confusa con il minimalismo (negativamente connotato); gli estremi cronologici indicano che Prove di libertà è stato composto nell’arco di un decennio: nessuna semplice occasione biografica né facile ripetizione del già scritto. È vero che anche il libro precedente, Ritorno a Planaval (2001), si concludeva con una nota cronologica ed era diviso in sette parti principali, come Prove di libertà . Ma si tratta di coincidenze esteriori.

È solo prendendo le distanze dal libro del 2001 – esempio eccellente di una vague poetica che raggiungeva l’apice in quegli anni – che si può capire meglio Prove di libertà e apprezzarne la sostanziale estraneità (e originalità) rispetto a un’altra linea che si è precisata e affermata più di recente, quella su cui si trovano poeti dalla mano sicura come Guido Mazzoni e Massimo Gezzi: una linea che si basa sulla posizione di un io osservatore straniante di sé stesso, che proietta l’esperienza contro la più vasta geografia del presente (parola-chiave di questa “famiglia” poetica è l’aggettivo «occidentale», che ricorre nei versi di quegli autori segnandone la prospettiva esistenziale e conoscitiva).

Dal Bianco s’interdice l’assunzione anche di quella fragile autorità sul reale («Io non conosco | responsabilità della scrittura»), per seguire piuttosto un itinerario attraversato da influenze gnostiche e incarnato in un’esperienza tutta umanamente personale. Di qui l’equivoco minimalista in cui è caduta una parte della critica, alimentato anche dal tono colloquiale di questi versi, la cui bassa temperatura lessicale è però bilanciata dall’articolazione sintattica, dalle ricorrenze ritmiche e dalla dissimulazione metrica che sono la vera sostanza dello stile di Dal Bianco.

L’ordine quasi modernista della struttura (le sette parti maggiori si susseguono all’insegna delle note musicali, con due sezioni minori: un intermezzo e la conclusione) non basta a controllare una materia sfuggente, che oscilla tra l’effusività dei versi per il figlio e la meditazione sul senso «di ciò che per brevità, di ciò che per errore, | di ciò che per dissennatezza vera | e abitudine mortale | avevamo incominciato a chiamare | avevamo chiamato io». Anche nei passi in cui prevale l’istanza ragionativa (qui più eloquente che in Planaval), il soggetto non si chiude in una bolla sapienziale, ma localizza la conoscenza, tratta la verità («vero» è parola ricorrente) con una mitezza prossima all’azzeramento. Affiora a tratti una stanchezza per la stessa scrittura («In balìa di una grande occasione d’angoscia […] la peggiore delle cose è farne, | per salvarsi, un argomento di scrittura») che negli animi ricorda l’ultimo Sereni e che non c’era nel libro precedente di Dal Bianco. Ma l’opzione di fondo è vitale, anche se è una vitalità in sottrazione: di ciò che resta dopo le ammissioni più spietate (penso a Età della vita, tra le poesie più belle del libro), come il barlume che resiste oltre la stessa esistenza (I morti, una delle poesie importanti di questi anni).

Lo spazio concesso alle cose, anche piccole e umili, non costringe l’io dentro un habitat crepuscolare: «Penso che non sia utile […] ricercare i bottoni del cappotto | perduti in giro in casa da chissà quanti anni |[…] Penso che invece per la nostra vita qui |[…] sia bene uscire sempre sotto il cielo». In questi versi – quasi una palinodia dello splendido Vetrino di Planaval – si colgono forse anche il senso e la perplessa, dolorosa energia del titolo Prove di libertà. Libertà dall’invadenza del reale (c’è a volte un disamore, come un’indifferenza perfino per il paesaggio, che commuoveva l’io di Planaval), dai propri gesti e dal passato che affatica: «Per carità, per amore» così finisce il libro «fermiamoci, entriamo di notte nel bosco e ascoltiamo».

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