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rivista semestrale

anno XXXV - terza serie

numero 87

gennaio/giugno 2023

Giulio Iacoli, La dignità di un mondo buffo. Intorno all’opera di Gianni Celati

[Quodlibet, Macerata 2011]

La scrittura di Celati è come il cinema di cui parlava André Bazin: un’arte impura. Luogo privilegiato della «memoria disfatta», incapace di definirsi se non per sottrazione, essa tende ad esplicitare il proprio andamento interno, attraverso l’impiego che suggerisce di materiali diegetici preesistenti. Lungi dall’alimentare una semplice rete di richiami intertestuali, questi ultimi sono tenuti a rendere conto, non soltanto della posizione che occupano in seno ad un discorso estraneo – se non addirittura antitetico – rispetto a quello d’origine, ma anche e soprattutto del processo di rifunzionalizzazione critica messo in atto, spesso e volentieri a fini parodici. A ben guardare, proprio la declinazione in senso parodico di motivi desunti, per esempio, dalla tradizione modernista, rappresenterebbe una chiave d’accesso privilegiata all’intelligibilità dell’intera produzione autoriale – variopinta e poliprospettica, certo, ma tutta tesa a giocare con le forme altrui, per non prendersi gioco di se stessa.

Tale è l’ipotesi avanzata da Giulio Iacoli, che nel suo ultimo libro insiste sulla necessità d’intendere questa ed altre più complesse isotopie tematiche, sia come delle soluzioni di continuità – volte a far sì che i diversi tasselli di un percorso in fieri riescano ad organizzarsi e “fare sistema” –, sia come dei paradigmi indiziali, studiati apposta perché il lettore, decifrandone le ragioni, debba infine coglierne la portata semantica e macrostrutturale. A sostegno della sua posizione – e per mettere in evidenza le specificità di una prosa che sembra configurarsi sempre in maniera analoga, indipendentemente dagli ambiti editoriali a cui si rivolge – Iacoli ricorre ad esempi tratti da romanzi, saggi o contributi teorici, quasi a voler sottolineare – anche nella pratica – fino a che punto l’attraversamento di generi è necessario, qualora ci si sforzi di evitare il già detto, auspicando ragionamenti di ampio respiro.

La tecnica è quella, ben nota, dell’analisi a campione. Quanto alla scelta dei passi citati e discussi, si vede bene che è stata ponderata, affinché «la specie dei celatiani incalliti» possa riconoscervi degli spunti di riflessione inediti.Ciò detto – bisogna ricordarlo – si tratta di una scelta effettuata ad hoc per soddisfare lo specialista tanto quanto il curioso, ovviando abilmente – e come già in Atlante delle derive (2002) e La percezione narrativa dello spazio (2008) – ad ogni sorta di autoreferenzialità.

Sì, perché se è vero che La dignità di un mondo buffo è una delle prime monografie esaustive su Celati, è altrettanto vero che gli interventi che vi sono confluiti – testimoniando di una ricerca condotta in un arco di tempo superiore ai dieci anni – lasciano trapelare la volontà di condividere con un pubblico vasto ed eterogeneo un chiaro interesse di natura scientifica tanto quanto la passione per un intellettuale «anticlassico», «fuori dai canoni», e tuttavia destinato, suo malgrado, a «divenire canonico». Del valore affettivo che ha per Iacoli questo volume – articolato in sette capitoli distribuiti quasi equamente in due sezioni distinte, la cui asimmetria sembra pronosticare qualche approfondimento a venire –, portano un segno tangibile la nota introduttiva – redatta in uno stile più personale, a tratti diaristico – e le pagine dedicate – non senza ironia – al Celati eroticus. Significativamente collocate in chiusura, esse ambiscono ad affrontare la dimensione corporea – non per forza sessuale – di finzioni abitate da una fitta galleria di tardo-adolescenti inquieti, alle prese con pulsioni di vario genere, spesso «lesive dell’ordine sociale costituito».

Accompagnate da un apparato di note più dettagliato, ma meno erudito che altrove, le divagazioni che vi si trovano espresse servono – è ovvio – ad esplorare un terreno d’indagine finora un po’ trascurato, ma anche a lasciar indovinare – fra le righe – l’ammirazione ed il rispetto provati dal critico nei confronti dell’uomo – non esclusivamente dello scrittore –, in virtù della sua creatività disinibita, diversamente orientata a seconda dei propositi.

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