allegoriaonline.it

rivista semestrale

anno XXXV - terza serie

numero 87

gennaio/giugno 2023

Aleksandar Hemon, Il libro delle mie vite

[trad. it. di M. Balmelli, Einaudi, Torino 2013]

Sradicamento e integrazione. Noi e loro. Sono queste le dorsali tematiche che percorrono la produzione letteraria dello scrittore bosniaco di lingua inglese Aleksandar Hemon, e che ritroviamo nel suo ultimo lavoro, Il libro delle mie vite. Da Spie di Dio (Einaudi, 2000) a Il progetto Lazarus (Einaudi, 2010), ciò che accomuna questi testi è il tema dell’immigrazione, dello sradicamento e della difficoltà implicita nel vivere sospesi tra due lingue, due continenti e due identità («Il punto non è dove ti senti a casa, il punto è quale casa senti tua» scrive Hemon, pp. 92-93).

Se in Il progetto Lazarus questi temi s’intrecciano alla storia vera di un immigrato ucciso dalla polizia di Chicago all’inizio del Novecento, Il libro delle mie vite narra, in un sapiente gioco tra fiction e non-fiction, la vicenda del personaggio-autore Hemon dalla Sarajevo degli anni Settanta – in cui la vita sociale dei ragazzini ruotava attorno al concetto gerarchico di raja –, a una vacanza in Italia nell’anno della vittoria dei Mondiali; dall’adolescenza trascorsa a distrarre la noia, alla promiscuità sessuale dovuta all’«euforia da catastrofe» (p. 54) nei primi mesi di guerra; dall’ingenuità politica degli anni giovanili alla morte della figlia; dall’espatrio in Illinois, Chicago, all’acquisizione coatta di una lingua altra, dunque di un’altra identità.

Pur nella sua specificità, quella narrata da Hemon è una traiettoria di vita consueta, la stessa percorsa oggi dagli immigrati del sud del mondo attraverso le acque del Mediterraneo; se diverso è il punto di partenza come quello di arrivo, comune è il destino di sradicamento e il tentativo di riaffermazione della propria identità, altrove. Jugoslavia 1991: mentre i carri dell’Armata popolare jugoslava entravano a Belgrado per soffocare le proteste anti-Miloševic´, in Bosnia-Erzegovina, scrive Hemon «la struttura delle nostre vite si reggeva sulla continuità routinaria di quella che testardamente percepivamo come normalità» (p. 53).

Un anno dopo, a Sarajevo, quella normalità sarebbe stata interrotta; i cecchini di Karadžic ´ sparano su una folla di manifestanti uccidendo due persone e dando così avvio al «più lungo assedio della storia moderna» (p. 63). Pochi mesi prima dell’inizio del conflitto, Hemon vince una borsa di studio negli Stati Uniti: non è dunque la guerra a farlo partire, ma sarà la guerra a non farlo tornare. Da questo momento lo statuto di Hemon si declina in un duplice sradicamento: quello burocratico, dovuto all’essere straniero («come bosniaco a Chicago avevo sperimentato una certa forma di sradicamento », p. 86) e quello interiore di chi, abbandonato il luogo d’origine, devastato da una guerra atroce e sanguinaria, facendovi ritorno non lo riconosce e non si riconosce.

Lo sradicamento non è soltanto una condizione materiale, ma una deriva interiore, che coinvolge la sfera identitaria intaccandola e modificandola profondamente: «l’immigrazione è una crisi ontologica perché sei costretto a negoziare le condizioni della tua individualità all’interno di una situazione in costante mutamento. La persona sradicata si batte per una stabilità narrativa» (p. 15). Di qui gli interrogativi ripetuti: “Chi siamo noi?”, “Chi sono loro?”. Lo sradicamento porta in sé i tratti dell’alterità, segna i confini, denota i limiti tra le soggettività, talvolta le avvicina – come nel caso della comunità multietnica che si crea attorno a un campo di calcio –, e diventa narrazione.

Se da un lato viene meno il terreno comune sul quale misurare la distanza o la prossimità tra il sé e gli altri, dall’altro lo sradicamento esprime l’esigenza di raccontare e dire la propria storia. Narrare, per Hemon, diventa un gesto di riappropriazione: solo nella lingua e nel «coagulo di vari altri» (p. 20) l’io si riconcilia con se stesso e ritrova, attraverso una prosa lucida e ironica, la propria identità.

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