allegoriaonline.it

rivista semestrale

anno XXXV - terza serie

numero 88

luglio/dicembre 2023

Emanuele Trevi, Il popolo di legno

[Einaudi, Torino 2015]

L’ultimo romanzo di Emanuele Trevi narra una storia apparentemente molto semplice. A Palmi, in Calabria, grazie all’aiuto di un vecchio amico (il Delinquente) che gestisce una piccola emittente radio (Tele Radio Sirena) per conto della ’ndrangheta (gli Zii), un ex prete (il Topo) dà inizio a un programma a puntate in cui riflette sul carattere del popolo calabrese attraverso una rilettura di Pinocchio (il titolo della trasmissione è: Le avventure di Pinocchio il calabrese). La ’ndrangheta tenta di accrescere il successo del programma (come di consueto: per approfittarne) ma finisce nel mirino della stampa nazionale che denuncia il contenuto regressivo della trasmissione e la gestione malavitosa dell’emittente radiofonica: decide allora e infine di farla pagare brutalmente al Topo e al Delinquente. La storia è tuttavia molto più ambigua e complessa della sua trama, in ragione della prospettiva straniante con cui viene narrata. Se il meccanismo con cui si attua lo straniamento è proprio di ogni romanzo allegorico – dove al registro della realtà si mescola un secondo registro con cui si allude a una diversa realtà, più ambigua e informe – nel Popolo di legno esso è anzitutto l’effetto della simbiosi che si instaura tra la voce dell’autore e la figura del protagonista, il Topo. Oltre a esercitare un fascino irresistibile su tutti gli altri personaggi che lo circondano (sul Delinquente – innamorato di lui fin dall’infanzia – sulla troupe di Radio Sirena, gli ascoltatori, il Vescovo, Rosa – la moglie – e persino su una delle più alte figure della famiglia ’ndranghetista, la Nonna) e nonostante i suoi scarsi ideali e la sua misera condizione esistenziale, il Topo agisce infatti come un «pensatore allenatissimo» (p. 6) sempre pronto a dubitare delle opinioni e delle apparenze proprie e altrui. Per lunghi tratti la sua è una voce imprestata, impreziosita, che dice cose sensate e intelligenti e che registra la profondità dei fenomeni che osserva: l’amicizia con il Delinquente, l’incontro con il Vescovo, l’amore per Rosa, l’inganno della ’ndrangheta e così via sono tutte occasioni per riflettere lucidamente sui rapporti umani, sulle svolte del destino, sulla vita dei mortali: «il puro e semplice scorrere del tempo unito all’impercettibile, inarrestabile deteriorarsi di tutto ciò che si ripete, sempre più marcio ma identico a se stesso» (p. 37). Il valore del romanzo di Trevi consiste allora, precisamente, nella sua capacità di contestare una visione conciliante della realtà. Contrariamente a quanto potrebbe sembrare, infatti, il Topo non è soltanto, come recita indignata il «pezzo da novanta» della stampa italiana, «l’anti Saviano» (p. 166). Nel suo mantra radiofonico come nei moti della sua coscienza (soggetta a frequenti epifanie) si aggira una verità controfattuale: «chi si chiude nella superiorità morale, pensò il Topo, si chiude in una di quelle celle imbottite dei manicomi, e del mondo conosce solo i rumori che filtrano e fatica in quelle spesse pareti, rumori così distorti ed irriconoscibili che il povero pazzo non può che giudicarli, non sapendo mai di cosa si tratta, aggrappandosi all’eterna consolazione dei dementi, che è sempre stata quella di considerarsi migliori di ciò che capita a tiro della loro attenzione morbosa» (p. 168). Le avventure di Pinocchio il calabrese lasciano affiorare il doppio registro di verità del romanzo: la celebrazione del burattino di legno e dunque, con un’evidente eco pasoliniana, l’elogio di un popolo che rifiuta fino in fondo di credere a quella «valanga di parole che intende farci credere […] di sapere meglio di noi chi siamo, quali sono i nostri desideri, cosa è meglio per noi» (p. 61), non si lascia leggere soltanto come elogio di «un mondo fondato sull’omertà, la misoginia, la feroce opposizione ad ogni forma di progresso» (p. 167). Esprime anche un’altra verità: il burattino di legno – come del resto la Fata – allude anche al dovere di contraddire il «verso giusto, che è sempre stato il verso dell’inganno» (p. 159); al dovere, in altre parole, di problematizzare il nostro giudizio sul mondo.

 

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