allegoriaonline.it

rivista semestrale

anno XXXV - terza serie

numero 87

gennaio/giugno 2023

Emmanuel Carrère, Io sono vivo, voi siete morti

[ trad. it. di F. e L. Di Lella, Adelphi, Milano 2016 ]

Benché sia detestabile, abbiamo una sola vita da vivere, impossibilitati per sempre a uscirne e a essere altro anche per un momento. Questo soffocamento è la radice della scrittura di Carrère, autore di varietà sorprendente negli argomenti e negli approcci. Si può individuare la sua costante proprio guardando a quali personaggi, veri e di finzione, è rimasto fedele: uomini distrutti, in un esercizio pirandelliano spinto all’estremo, dal divario fra l’auto-percezione e l’opinione altrui (Baffi, 1986); bambini che creano una finzione spionistica per nascondere un abisso di orrore familiare e, non troppo inconsapevolmente, finiscono per precipitarvi con più rapidità (Nicolas in La settimana bianca, 1995); persone comuni che si danno un’identità fittizia più affascinante, fino a chiudersi nella propria doppiezza e uccidere moglie, figli, genitori (L’avversario, 2000), o fino a fondersi con la propria epopea criminaloide ed estetizzante (Limonov, 2011). Pochi scrittori meglio di Dick hanno espresso l’insofferenza verso l’impossibilità di sperimentare altre esistenze: la creazione di «mondi distorti e privati, spesso abitati da una sola persona» (così Dick li definì in un convegno del 1977 a Metz) riassume il sospetto, terrorizzato e desiderante al tempo stesso, di abitare un infimo cosmo di cartapesta in balia di qualche padrone confuso: forarne le pareti è impossibile, ma altrettanto lo è ritornare alla propria ignoranza – Dick è uno scrittore platonico fuori tempo massimo, di fedeltà eccessiva e talvolta didascalica ai suoi miti.

Nella sua biografia (prima edizione 1993) Carrère ci mostra i meccanismi di una lunga opera ben più paranoica che meravigliosa, concedendosi eccellenti sinossi dei suoi testi maggiori, da Ubik a La svastica sul sole (e aggirandone la non rara sciatteria: del biografato non vengono quasi mai riportati brani), e tratta spesso il suo oggetto di studio come un narratore onnisciente tratta un suo personaggio. Entra nei suoi pensieri, camuffa in una narrazione analitica, troppo incline a sparpagliarsi, un ingente lavoro su documenti e testimonianze, e mentre si concede licenze interpretative che uno storiografo non si permetterebbe, abbandona l’onniscienza quando è funzionale all’economia del suo discorso: così, l’agonia del protagonista viene osservata dall’esterno. Altrettanto sospeso è lo sguardo di Carrère verso la religiosità sincretica di Dick, il suo carattere più inattuale per noi e quello che più ci resiste e ci sfida. Spogliata di ogni elemento sociale e storico, la vocazione trascendente di Dick si acuisce dopo una conversione allucinatoria del 1974 e diventa un confronto perdente con la propria finitudine: la possibilità di rinascere altrove, teorizzata quasi ovunque a partire dall’abnorme Esegesi, ha creato l’affinità più intensa con Carrère, che, i lettori del Regno (2014) lo ricordano, nei primi anni Novanta attraversava una crisi religiosa finita con l’abbandono del cattolicesimo a favore di un ateismo ironico, senza asprezze. Ecco dunque che il confronto con Dick, oltre a essere un esempio di come una biografia riuscita dovrebbe essere (in Italia, purtroppo, si conferma un genere giornalistico o, nei casi peggiori, propagandistico), è anche un rispecchiamento imperfetto, il segno di un congedo. In trappola fuori dalla caverna, Dick condensa nella sua opera l’orrore per la realtà così com’è, e non riesce a parlare d’altro che di evaderne, non diversamente da quanto fece Lovecraft secondo il saggio H.P. Lovecraft. Contro il mondo, contro la vita di Houellebecq (1991); Carrère si distanzia dal suo autore-feticcio per trasformarsi un romanziere assolutamente veridico, per cui non c’è altro di raccontabile che le vite degli altri, in bilico sulla loro insensatezza. Compito dello scrittore non è scappare, ma farsene carico e perdere l’onnipotenza virtuale della fiction.

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