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rivista semestrale

anno XXXV - terza serie

numero 88

luglio/dicembre 2023

Angelo Ferracuti, Addio. Il romanzo della fine del lavoro

[ Chiarelettere, Milano 2016 ]

Addio non è un romanzo: è un reportage in cui l’autore fa da raccordo tra alcuni dati – fonti storiche, statistiche, report giornalistici, documentari, opere letterarie etc. – e le voci delle persone che ha deciso di ascoltare durante i suoi viaggi nel Sulcis-Iglesiente, a Sassari, a Parma e in Islanda. Non racconta una storia, non c’è un protagonista e non c’è mai, o quasi mai, fiction. «Il reportage» – scrive Ferracuti – «contrariamente alla narrativa di finzione […] ha una dimensione comunitaria e democratica» e «i narratori incontrati lungo la strada sono stati molti» (p. 241). Molti narratori, è vero, ma nessun personaggio: rappresentate superficialmente e in maniera per lo più paternalistica, descritte senza alcun serio interesse per la loro vita interiore e dunque per la loro ambiguità, le persone che l’autore chiama in causa sono voci funzionali, non personaggi. L’autore stesso, del resto, rinuncia intenzionalmente allo stile: anche a prescindere dai discorsi diretti, Ferracuti adotta un registro colloquiale e un lessico scarno in cui dominano espressioni convenzionali e gergali. Non si basa su storie o personaggi, non accede al reale invisibile, non si concentra sull’esperienza dell’incontro o del viaggio e non investe sullo stile: l’architrave narrativo di Addio sta altrove e consiste nella focalizzazione fissa imposta al reportage dall’orizzonte tematico del libro, il lavoro. Il tema del lavoro condensa ogni spinta narrativa e riflessiva del libro: si pone infatti come il problema centrale della vita umana e planetaria. In questa prospettiva Addio è un libro importante perché la storia del Sulcis-Iglesiente – «la provincia più povera d’Europa coi suoi 30.000 disoccupati su 130.000 abitanti» (p. 20) – incarna un processo storico-economico che interessa tutto il mondo industrializzato; perché tra la produzione d’alluminio di Portovesme e quella avviata dalla stessa multinazionale americana – l’Alcoa – in Arabia Saudita, Norvegia e Islanda c’è una somiglianza decisiva (l’ultimo capitolo, ambientato in Islanda, funziona da questo punto di vista come il resto del libro: le fonti, le riflessioni e gli incontri – con il militante Sigurðsson e con lo scrittore Magnason – convergono verso lo stesso obiettivo). Addio intercetta due interrogativi del giuslavorismo moderno: la questione del senso del lavoro da un lato – attività che conduce l’uomo nel regno della libertà oppure, al contrario, in quello della necessità – e il problema del «conflitto tra lavoro e salute» (p. 193) dall’altro lato. Nelle prime due parti (Terra del carbone e Musi neri), il lavoro nelle miniere del Sulcis-Iglesiente è narrato ambiguamente: è feroce e distruttivo – «è una storia di dura fatica, di irriducibili lotte sindacali e di morte» (p. 38) – ma nello stesso tempo traccia «un modello antropologico, di lavoratore e di uomo» (p. 81). Come recita L’ultimo minatore, Sandro Mereu, «la miniera è come il mare, devi stare attento, una cosa bella ma anche molto pericolosa» (p. 82). Al lavoro come processo identitario e come esperienza di emancipazione e di solidarietà (alla nostalgia per la classe) si contrappone l’equazione tra lavoro e morte: «la miniera non sa scherzare, esagera sempre» (p. 76) scrive Ferracuti citando il romanzo di Manlio Massole (Stefanino nacque ricco, 2008), il maestro elementare che ha deciso di «rileggere l’umanità non da intellettuale, nel caldo delle biblioteche, ma sottoterra, nel fango delle gallerie, da servo» (p. 74). La terza parte del libro (Crisi nera) contrappone lavoro e salute: tra l’inquinamento (l’entomologa Ilaria Negri «ha fatto uno studio sull’inquinamento del Sulcis utilizzando le api», p. 207) e la fine del lavoro, tra «il bacino dei fanghi rossi e degli scarti chimici» (p. 99) di Portovesme e il tasso di disoccupazione giovanile di CarboniaIglesias, «il 73,9 per cento» (p. 143) sembra esserci un nesso strettissimo. C’è, e tuttavia, scrive Ferracuti, piuttosto che fisiologica al sistema industriale, «questa violenza sulla natura e sull’uomo è quella di un capitalismo selvaggio» (p. 240).

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