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rivista semestrale

anno XXXV - terza serie

numero 88

luglio/dicembre 2023

Elsa Morante, La vita nel suo movimento. Recensioni cinematografiche 1950-1951

[a cura di G. Fofi, Einaudi, Torino 2017]

Subito dopo la guerra Elsa Morante fa delle espe­rienze che cambiano profondamente la sua esisten­za: col marito si trasferisce in via dell’Oca; s’impela­ga nell’irrequieta relazione con Visconti; pubblica Menzogna e sortilegio (1948) che vincerà il premio Viareggio e che qualche tempo dopo Lukacs defini­rà «il più grande romanzo italiano moderno» (1967); scrive per «Il Mondo» di Pannunzio; collabora con la RAI con una rubrica di critica cinematografica. Quest’ultimo è un incarico che dura per quasi due anni e in cui consegna 47 veline dedicate, via via che uscivano, ai films (sic) italiani e americani. L’ultima è quella in cui, insensibile alle pressioni della dirigen­za, stronca il film di De Felice, Senza Bandiera. Lo speaker non legge la scheda e s’interrompe la coo­perazione. Tanta coerenza onora Morante e serve da canone a chi pratica la critica.
Ora Einaudi pubblica un volume che mette insieme queste riflessioni e pone in appendice la lettera di dimissioni e altri scritti sul tema. S’intitola La vita nel suo movimento. Recensioni cinematografiche 1950-1951 e porta l’introduzione di Goffredo Fofi, che informa bene sul rapporto tra Morante e il vi­vace milieu del cinema ed è un documento prezio­so sull’amicizia tra i due. Manca invece un appara­to che dia notizia della schedatura degli autografi (depositati alla Nazionale) – ripresa dall’ottimo stu­dio di Marco Bardini (Elsa Morante e il cinema, 2014), ingenerosamente appena menzionato in nota. Si è inoltre trascurata una, pur breve, analisi storica e stilistica che mettesse in relazione que­sto “secondo mestiere” con le altre attività di pub­blicista, e che confrontasse questa scrittura di ser­vizio con quella creativa.
I giudizi che Morante esprime sono argomentati ma saldi e rigorosi: bocciati Welles, che è eccessi­vamente barocco, e la Madame Bovary di Minnelli; promossi Clouzot, Powell e Pressburger; bene Gi­rotti, Chaplin ed Eduardo, male Totò; ok il western e le produzioni per i “ragazzini” ma niente gialli; ridicolizza le commedie sentimentali; è offesa da certa comicità spiccia; s’indigna dell’industria hol­lywoodiana.
Il libro è importante per motivi contestuali e testua­li. In primo luogo perché dimostra come si sia irro­bustito il prestigio di Morante all’interno del côté romano. È ormai pari a quegli altri letterati che, com’era allora consuetudine, avevano una pagina per commentare le novità in sala. Tra questi, ben spartiti tra rossi e democristiani, Brancati, Flaiano, Palazzeschi, Pratolini e Moravia, che scriveva di ci­nema già dal ’44. In secondo luogo perché in un pa­io di testi riesce ad appagare la sua ambizione d’es­sere “leggera”, parlando, ad esempio, di moda, o quand’afferma che una donna a un professore col­to preferisca le «virtù» d’uno sportivo (p. 22). Infine e soprattutto perché questi saggi, insieme agli altri pochi raccolti in Pro o contro la bomba atomica e altri scritti (1987) indicano, senza mediazione, la poetica dell’autore, incentrata sul realismo. Moran­te «Ai films, come ai libri, come alla pittura, come a ogni altra espressione umana,[ … ] chied[e] la real­tà, e cioè un impegno assoluto e disinteressato verso la vita» (p. 116). Presa per buona questa pre­messa, si comprendono le perplessità verso il neo­realismo, di cui lamenta il materialismo in Ladri di biciclette e il sentimentalismo in Roma città aperta. Esempi d’un realismo giudizioso e poetico sono semmai Pasolini e La terra trema di Visconti (ma di rimando elogia anche l’amato Verga), perché guar­da «alla realtà umana, e solo alla realtà, con l’animo libero e attento di chi la guardasse per la prima vol­ta» (p. 120). Una sincerità che Morante riscontra con più facilità nel dialetto di Belli che non tra i po­veri di De Sica.
La «realtà» è dunque il criterio per valutare un ar­tefatto ma è pure il principio che applicò con in­transigenza per le sue “menzogne”. È in tanta se­verità di metodo che coincidono il critico e lo scrit­tore. 

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