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rivista semestrale

anno XXXV - terza serie

numero 88

luglio/dicembre 2023

Mark Fisher, Realismo capitalista

[ trad. it. di V. Mattioli, Produzioni Nero, Roma 2017 ]

«Senza il nuovo quanto può durare una cultura?» (p. 28). Dal massimalismo di questa domanda prende forma questo libro di Fisher, uscito nel 2009 in Gran Bretagna, pubblicato quasi dieci anni dopo in Italia. Il «realismo capitalista» del titolo fa riferimento a una idea che, secondo l’autore, è stata ormai introiettata nell’inconscio culturale: non si riesce, oggi, ad immaginare nessuna alternativa alla forma di vita del capitalismo globale. Dalle produzioni culturali e dai discorsi sociali in cui siamo immersi emana, secondo Fisher, una diffusa sensazione di scacco politico e sterilità immaginativa.

L’assunto da cui parte il libro è, dunque, lo stesso di altre teorie che, negli ultimi venti anni, hanno letto il presente secondo le categorie dell’esaurimento e della fine. Fine della storia, dell’utopia moderna, dell’avanguardia: i tópoi culturali delle teorie del postmoderno si possono ritrovare qui quasi tutti, messi in fila. Uno dei nomi più ricorrenti nel libro è, infatti, quello di Jameson. Fisher riconosce l’efficacia dell’analisi del ’91 sulla «logica culturale del tardo capitalismo» ma rivendica la scelta del termine realismo capitalista invece di quello di postmoderno proprio in ragione di un presente visto come un opprimente vicolo cieco («quando Jameson avanzò le sue tesi, al capitalismo c’erano ancora delle alternative, almeno a parole. Quello che invece stiamo affrontando adesso è un più profondo e pervasivo senso di esaurimento, di sterilità culturale e politica», p. 35).

Le posizioni del libro sono vicine, in molti punti, alle visioni apocalittiche di autori come Fukuyama, che non a caso compare in alcuni passaggi. Nel discorso di Fisher, viene molto ridimensionata la pretesa totalizzante delle varie tesi sulla fine della storia. Viene dedicata, invece, una attenzione inedita alla dimensione esistenziale e psichica del presente. Ed è qui, forse, la vera cifra di Realismo capitalista: si prendano i passaggi in cui si discute della depoliticizzazione del disturbo mentale e della negazione di ogni origine sociale della malattia.

Il libro è, nella forma e forse anche nelle intenzioni, un pamphlet. Alla sistematicità argomentativa delle grandi storicizzazioni preferisce l’assertività che dà per buona una idea iniziale. L’etica del get real e della guerra di tutti contro tutti nel gangsta rap e nel neo-noir (Ellroy, Miller), la fine della cultura rave e il riuso di suoni ed estetiche del passato secondo i meccanismi della retromania descritta da Simon Reynolds in un famoso saggio: il terreno privilegiato dell’analisi di Fisher, critico musicale di formazione, è costituito dalla cultura di massa. L’idea, anch’essa debitrice di autori come Jameson, è che anche quei testi che più frontalmente mostrano una critica o addirittura una possibile fine del capitalismo siano permeati da una atmosfera di inesorabilità politica: «è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo» (p. 26). Su questo versante, il libro di Fisher dà un contributo, tutto sommato poco originale, al dibattito sull’estetica del presente. Il metodo è una combinazione di modi e forme proprie degli studi culturali anglosassoni con categorie neo-marxiste ampie (neoliberismo, fordismo, postfordismo), spesso ripetute con una frequenza che rischia di svuotarle di senso. I pregi del libro, però, sono altrove.

Da un lato, la chiarezza linguistica e argomentativa del libro sintetizza – meglio: rende accessibili – cambiamenti sociali e storici decisivi per una analisi possibile del presente. Dall’altro lato, i casi di studio più interessanti riportati da Fisher sono quelli meno vicini alla produzione culturale: fanno parte, invece, di quella burocrazia razionalizzante già studiata da Weber. La delirante inefficienza dei call center, la logica cannibalesca dei sistemi di valutazione nel settore dell’educazione e della ricerca, la pervasività delle relazioni pubbliche sono, oggi, il sintomo di una ontologia aziendale che si è pericolosamente fusa con il culto del mercato e ha modificato in profondità la nostra vita quotidiana.

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