Presentazione numero 87
Valeria Marino e Salvatore Spampinato presentano il TEMA del numero 87 di Allegoria “Prendere la parola: scrittori e scrittrici in democrazia“.
Valeria Marino e Salvatore Spampinato presentano il TEMA del numero 87 di Allegoria “Prendere la parola: scrittori e scrittrici in democrazia“.
[Einaudi, Torino 2022]
Dopo Piazza Fontana. Il processo impossibile (2019), Benedetta Tobagi torna a pubblicare un libro nella collana «Frontiere» di Einaudi, caratterizzata dall’incrocio tra scrittura saggistica e narrativa, dove erano già apparsi Come mi batte forte il tuo cuore. Storia di mio padre (2009) e Una stella coronata di buio. Storia di una strage impunita (2013: è la strage di piazza della Loggia). Rispetto a questi primi due libri nella Resistenza delle donne l’io della ricercatrice affiora con minore frequenza: entra in scena in rapidi incisi e solo nel finale la sua biografia familiare assume un andamento più disteso. Il libro è però punteggiato da capitoli in corsivo senza titolo dove la voce narrante si concede la libertà dal documento, si permette di fantasticare e ri-immaginare la fonte testimoniale. Come avrei vissuto, sembra chiedersi, come avrei raccontato quello che stavo vivendo? In questi brevi capitoli la narratrice si spinge a un’immersione identificativa nell’esperienza delle donne che hanno fatto la Resistenza, mentre nei capitoli titolati la affabula e documenta, citando la voce delle protagoniste e delle storiche che a partire dagli anni Settanta hanno cominciato a prestare ascolto e a contestualizzare quelle vicende.
La successione dei capitoli e dei loro titoli disegna la trama di un percorso ideal-tipico all’interno del quale una tappa fondante è la decisione di far parte della Resistenza: una scelta etica, politica e di vita tanto più autentica di quella degli uomini, che il bando Graziani costringeva a combattere per una parte o per l’altra, oppure all’esclusione dalla lotta in prigionia o in clandestinità. Le donne sono le vere «volontarie della libertà»: «nulla preme a forzare la loro scelta. Potrebbero restare alla finestra, in attesa che la tempesta finisca. Anzi, dovrebbero fare così […] fare altrimenti è una vergogna e una provocazione, prima che un pericolo» (pp. 49-50). Benché scelta di poche (come minoritaria è stata in generale l’opposizione al fascismo), la Resistenza ha costituito un evento storico decisivo, in quanto è stata la prima entrata in scena di un protagonismo femminile interclassista e di massa. La Resistenza diventa così una straordinaria esperienza di libertà dai confini di ciò che era lecito o socialmente accettato: «La grande guerra di Liberazione s’intreccia […] con una miriade di minuscole – ma per loro gigantesche – lotte di liberazione personale (dai limiti imposti dalla famiglia, dalle condizioni sociali, dall’essere donna, dai propri demoni personali) che, tutte insieme, danno vita a una grande, inedita, guerra di liberazione delle donne» (pp. 64-65).
Le miriadi di storie che costellano il libro, attinte alle testimonianze di chi ha saputo scrivere la propria o frutto del lavoro delle storiche che hanno saputo far parlare chi non aveva accesso al privilegio della scrittura, spaziano dalle vicende di donne che hanno avuto rilievo nella vita pubblica, come le madri costituenti, alle esperienze di donne comunissime, dalle studentesse di buona famiglia alle più umili lavoratrici, dalle suore alle seduttrici, dalle infermiere alle militanti di fabbrica, dalle staffette alle dinamitarde; dalle storie di donne che rifunzionalizzano per la Resistenza antichi e tradizionali comportamenti di cura e protezione alle donne che violano un’altrettanto antica divisione del lavoro tra i generi, osano prendere le armi e comandare gli uomini, fino alle donne che invece rifiutano le armi come presa di posizione politica.
Il libro si chiude sulla storia straziante del processo sociale e collettivo che richiude negli antichi confini di genere la maggior parte delle donne che avevano sperimentato per qualche mese inediti spazi di libertà e la responsabilità che vi si accompagna. Anche grazie a questo libro le piccole storie di liberazione cancellate dalla grande storia della guerra di liberazione possono tornare a far parte della nostra memoria collettiva.
Marianna Marrucci introduce il suo articolo, presente nella sezione “insegnare letteratura“, nel numero 86 di Allegoria.
[a cura di Giuseppe Carrara e Silvia Cucchi, Mucchi, Modena, 2022]
di Federica Condipodero e Agnese Pieri
Il volume Erotismo e letteratura. Antologia di scritti militanti (1960-1976) raccoglie interventi di scrittrici, scrittori e intellettuali italiane su questioni che vanno dalla censura all’aborto all’omosessualità. È stato curato da Silvia Cucchi e Giuseppe Carrara ed è uscito a maggio del 2022 per Mucchi editore nella collana diretta da Luigi Weber “Lettere Persiane”. In oltre 400 pagine di contributi, l’antologia racconta attraverso la lente polimorfa dell’erotismo la contaminazione che si determina a partire dagli anni Sessanta tra cultura, movimenti, politica e mercato. Nella sua declinazione culturale questa contaminazione avviene in tre modi: 1) nelle riviste e nei quotidiani, dove intellettuali più o meno engagés discutono del progressivo cambiamento dei costumi sessuali e delle istanze sollevate dai movimenti femminista e omosessuale (divorzio, aborto, contestazione del nucleo famigliare patriarcale); 2) grazie a operazioni editoriali ideologicamente posizionate – come, ad esempio, La poesia femminista (1974) o Poesia femminista italiana (1978) – e alla nascita delle prime Case e Librerie delle donne; 3) nella disseminazione di immagini erotiche nei film, nei libri e in uno spazio urbano che viene lentamente modificato dall’esposizione pubblicitaria di corpi femminili e dove, dopo la legge n. 355 del 1975, i prodotti pornografici si possono acquistare in edicola.
Il volume ha quindi poco a che fare con la letteratura erotica propriamente detta e molto con la critica di stampo freudo-marxista che innerva il dibattito culturale negli anni Sessanta e Settanta e che agisce anche in campo letterario come innesco della produzione di nuovi significati e funzioni da attribuire al tema sessuale. Secondo la linea di pensiero critico che da Freud passa a Reich fino ad arrivare a Eros e civiltà di Marcuse, sono infatti la sessualità e la sua intelaiatura coercitiva all’interno della famiglia tradizionale le chiavi con cui forzare l’apertura di nuove possibilità di liberazione della donna e dell’uomo al di là delle strutture capitalistiche. A partire dagli anni Settanta, questa prospettiva critica viene aggiornata dall’azione dei movimenti femminista e omosessuale e dal terreno di scontro politico il discorso sulla sessualità dilaga e filtra altrove, nell’estetica come nella critica letteraria: si combatte la censura; si traccia o rinnega il confine tra erotismo (arte) e pornografia (oscenità); si sviluppa la ricerca di nuove prospettive critiche, svincolate sempre di più da uno sguardo giudicato prettamente maschile; si osservano le modalità di rappresentazione letteraria dell’atto sessuale e dei personaggi femminili e «cresce l’esigenza» – scrive Vittorio Spinazzola nel 1976 su «L’Unità» – «di fronte alla marea di opere letterarie, artistiche, cinematografiche dedicate al fatto sessuale […] di criteri valutativi che consentano di distinguere le cose serie dalla paccottiglia»1, ossia i prodotti mistificanti da quelli in grado di creare nuove forme autentiche per pensare e immaginare l’amore.
Scorrendo l’indice confonde, almeno in un primo momento, la diversità dei contributi antologizzati. Ci si chiede come stiano insieme, sotto il titolo Erotismo e letteratura, l’articolo di Pasolini sull’aborto, le accezioni di ‘erotismo’ secondo Norberto Bobbio, la prefazione di Moravia a «Simona» di Georges Bataille e l’analisi marxiana di Spinella sulle conseguenze della liberazione sessuale nei paesi a capitalismo avanzato. Il sottotitolo arriva però in funzione correttiva: se la categoria di «erotismo» è intesa, come abbiamo visto, nella sua accezione più opaca ma inclusiva di discorso e rappresentazione attorno a e della sessualità, quella di «letteratura» lo è tanto da comprendere anche il cinema o il Manifesto di Rivolta femminile affisso sui muri di Roma nel 1970. Da qui il senso degli scritti militanti selezionati da Cucchi e Carrara in tre anni di ricerche e che spaziano tra articoli, inchieste, lettere aperte, recensioni, manifesti e prefazioni di autori e autrici più o meno famosi, non tutte appartenenti al canone e in alcuni casi neanche noti come scrittori (insieme a Ginzburg, Moravia, Morante sono presenti, ad esempio, la regista Liliana Cavani, la critica d’arte femminista Carla Lonzi e lo psichiatra Marco Lombardo-Radice). Il criterio adottato dai curatori per organizzare il materiale è cronologico e non tematico, per cui i contributi si susseguono senza soluzione di continuità e sta ai lettori e alle lettrici l’individuazione di coordinate che aiutino a districarsi nel fitto insieme di voci, posizioni e argomenti.
Pur lavorando su un materiale molto esteso, vario e difficile da selezionare, i curatori riescono a restituire la panoramica di un discorso che investe termini intra- ed extra-letterari: ricostruiscono un clima culturale complesso e rendono conto delle diverse sfaccettature che il tema erotico assume quando la sessualità smette di essere un fatto privato per assumere importanza politica. Cominciando dalle inchieste, strumento all’inizio privilegiato e sede di una riflessione prevalentemente estetica sull’eros nell’arte2, e passando per le teorizzazioni dell’erotico come linguaggio ormai logoro3, si arriva a una postura ricorrente soprattutto dai primi anni Settanta, che vede nella liberazione sessuale una forza solo apparente che in realtà finisce per fare i giochi del potere capitalista e fondare una nuova repressione4. Accanto a queste posizioni, un posizionamento militante, che parte dal sesso e dal corpo per incidere sulla società e anima un dibattito multiforme da cui emerge a tratti la difficoltà di «distinguere nettamente la preoccupazione letteraria da quella politica»5.
Gli scritti più politici – il Manifesto di Rivolta femminile; Donna clitoridea e donna vaginale di Carla Lonzi incluso in Sputiamo su Hegel; Per una critica della questione omosessuale di Mario Mieli, analisi dei legami tra liberazione sessuale e capitalismo, e quindi tra omosessualità e proletariato – escono quasi in contemporanea a esperienze e iniziative che investono anche il piano letterario e culturale. In questo periodo nascono infatti le prime Librerie delle donne: a Milano nel 1975 viene fondata la sede storica di via Dogana – frequentata anche da Carla Lonzi, Carla Accardi ed Elvira Banotti – e a Roma, un anno dopo, le femministe occupano un palazzo abbandonato in via del Governo Vecchio trasformandolo nella prima Casa delle donne. Personale e politico si intrecciano al letterario e se il piacere clitorideo mette in discussione il dominio etero-patriarcale e la rigida divisione maschile-femminile (anche se un brano come Femministe con le ali, trascrizione di una seduta di autocoscienza, mostra tutta la difficoltà ad abbandonare la creazione di ruoli), svincolarsi dall’egemonia fallocentrica diventa un’esigenza anche artistica. Liberarsi dalla voce dell’uomo porta al separatismo e ai gruppi di autocoscienza e mutuo ascolto, nei quali riconoscersi per ritrovare la propria voce a partire da e grazie a quell’assenza. Uno dei possibili percorsi di lettura del volume potrebbe seguire il discorso che si sviluppa attorno all’emersione delle donne nello spazio extradomestico e comprendere gli scritti seguenti: Lettera sul matrimonio di Fausta Cialente, La mamma lavora di Anna Banti, il Manifesto di Rivolta femminile, Essere donne di Natalia Ginzburg, Donne e cultura di Biancamaria Frabotta e la prefazione di Gabriella Parca a I padri della fallocultura. Il filo rosso che unisce questi testi è la riflessione condotta da prospettive e con strumenti diversi (quelli della scrittura giornalistica, militante, della critica letteraria) sulle condizioni e sulla rappresentazione della donna nella società e nella letteratura. Le questioni affrontate vanno dall’educazione sessuale al rapporto tra femminismi e lotta di classe, dal posizionamento delle scrittrici nel mondo del lavoro culturale alla possibilità e utilità, o meno, di individuare una specificità di forme e contenuti della scrittura delle donne.
Cialente, lucida e in anticipo sui tempi (1962), riconosce come uno dei punti di partenza imprescindibili per la trasformazione della famiglia tradizionale la «rivoluzione completa della educazione sessuale della donna, ivi compresa l’assistenza medica autorizzata da uno stato moderno per i figli che non si vogliono avere»; Ginzburg, dieci anni dopo (1973), critica il femminismo come «atteggiamento dello spirito» e afferma che «poiché sono le donne a generare i figli, il peso di accudirli e crescerli tocca soprattutto alle donne»; Anna Banti (1963) riflette sulle sue protagoniste, che si trovano in uno stato di «inferiorità femminile nei confronti della famiglia e della società», costruite in questo modo per spingere l’uomo e la società verso una riflessione su famiglia e maternità6. Nella conclusione di Donne e cultura, Frabotta circoscrive alcuni dei problemi che nei decenni successivi avrebbero ampliato i confini della critica letteraria: «che rapporto esiste tra il prodotto letterario di una determinata epoca e le condizioni della donna? Quali sono i contenuti più tipici e le scelte formali predilette dalla letteratura femminile? Si può parlare, anche per il passato, di letteratura femminile in senso non deteriore, ma di originalità e autonomia?». Sono questi i termini di un dibattito che si colloca all’incrocio tra critica letteraria e femminismo militante e che inizia a delinearsi soprattutto a partire dal Sessantotto in poi, quando la contaminazione diffusa tra politica e cultura si realizzava per le scrittrici militanti in un’epica di progressiva conquista dello spazio pubblico: «spazio non concesso […] bensì conquistato palmo a palmo, non solo per noi ma per tante, per tutte, e per la defallocratizzazione della cultura, per la sua inter-sessualizzazione, ossia perché la cultura (e la poesia) sia fecondamente investita da problemi, da temi, da tecniche, da ricerche, da moduli di espressività finalmente diversi, divergenti»7.
Un esperimento in questa direzione è rappresentato da quello che sembra il primo tentativo di critica femminista in Italia e su cui è istruttivo soffermarsi: I padri della fallocultura di Bibi Tomasi e Liliana Caruso uscito nel 1974 all’interno di Fatti e misfatti di SugarCo, una collana dedicata a titoli su società e costume con prospettive – più o meno – sovversive. Il modello del libro si ravvisa nel testo di Kate Millett pubblicato nel 1970, La politica del sesso, sulla scia del quale Tomasi e Caruso leggono le opere dei grandi della letteratura italiana (il sottotitolo del libro è infatti La donna vista da Moravia, Brancati, Pavese, Cassola, Sciascia, Berto, Buzzati e altri narratori italiani d’oggi) non solo secondo criteri estetici, ma anche in chiave politica e sociale, «in base ad un’analisi psico-sociologica dei loro personaggi maschili e femminili»8. Dalla prefazione, scritta da Gabriella Parca e inserita da Carrara e Cucchi nella silloge, si evincono gli elementi più rilevanti della critica portata avanti dalle due autrici, che sottolineano come i personaggi femminili costruiti dai narratori italiani siano, dietro l’apparenza di diversità, tutti riconducibili a un unico modello plasmato dalla cultura patriarcale. Lo spazio letterario riproduce, almeno in parte, lo spazio sociale: se questo è fatto dagli uomini per gli uomini, allora anche nelle finzioni del libro la donna esiste non in autonomia, ma in funzione del maschio. In un momento di rivendicazioni politiche e ricerca di nuove infrastrutture sociali, la letteratura si presenta come una forza conservativa, dato che gli scrittori presi in esame sembrano ignorare tutto ciò, senza porsi «il problema di chi è la donna, cosa vuole, cosa cerca»9. Quella che sembra ignoranza si rivela essere una posizione strenuamente patriarcale, come dimostrano le risposte di alcuni dei padri fallocratici, raccolte da Sergio Maldini in un’intervista uscita su «La Fiera Letteraria» nello stesso 1974: a difendersi troviamo Berto, Castellaneta, Patti, Parise, Soldati e Moravia10. Scorrendo le difese degli autori ci si imbatte in una prevalente delegittimazione del lavoro di Tomasi e Caruso e del movimento femminista in generale. Ritorna spesso l’assunto di memoria freudiana secondo cui le donne, e le femministe in particolare, siano castrate («donne chimicamente sbagliate»; «uomini mancati»; «vogliono sostituirsi a noi») e, di conseguenza, soffrano per la mancanza del fallo, ossia per il desiderio di potere. Altro argomento ricorrente è il realismo: si rappresentano le donne per quello che sono, per come si mostrano nella vita vera, che deve essere descritta quasi con puntiglio naturalista. Emerge la misoginia degli intervistati, alcuni dei quali sostengono persino che le donne non possano avere più di quanto hanno già: si ricordi che era il 1974 e la patria potestà sarebbe stata eliminata l’anno successivo, mentre il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza sarebbe stato ottenuto solo nel 1978.
In ultima analisi, Erotismo e letteratura ci sembra utile per due motivi. Immaginando una sua possibile inclusione all’interno della bibliografia di corsi universitari di letteratura italiana contemporanea, il libro si presenta come uno strumento storico-critico utile perché mette a disposizione di chi legge un novero di testi altrimenti dispersi e dimenticati, ai quali non è facile avere accesso: si tratta infatti di interventi occasionali, usciti magari solo su quotidiani o in rivista e che, nel caso siano di scrittori famosi come Ginzburg o Moravia, non sono noti per il loro minor valore letterario rispetto ai romanzi; oppure, ad esempio, gli scritti di teoria femminista di Carla Lonzi, quali Sputiamo su Hegel, Taci, anzi parla, Vai pure, Autoritratto, ripubblicati tra il 2010 e il 2013 da Et al. Edizioni e di fatto introvabili. Collocando alcuni nomi del canone sullo sfondo extra-letterario ridefinito dal cambiamento dei costumi sessuali e dei rapporti tra i generi, si mette a disposizione dello studente una lente diversa dal solito per guardare alla produzione letteraria: cosa pensava Ginzburg del femminismo e del diritto all’aborto? C’è una relazione e, se sì, di che tipo tra la condizione femminile e il modo in cui Ginzburg parla di sé nei suoi scritti? L’antologia permette quindi di farsi un’idea della posizione assunta da alcuni dei nostri scrittori più importanti sulle questioni politiche e sociali su cui si sono pronunciati e di conoscerne un lato, quello più strettamente legato all’attualità, che resta in ombra durante un normale percorso scolastico e universitario. Il secondo motivo è che, nello stesso tempo, il volume fornisce anche un’immagine complessiva del dibattito in corso in quegli anni proprio per la varietà delle posizioni accolte e ha, in tal senso, il pregio di ampliare i confini di un discorso altrimenti monopolizzato dalle voci più note. Per esempio, si cita spesso l’articolo di Pasolini contro l’aborto (gennaio 1975), e poco i brani di altre/i intellettuali che intervenivano sulla questione da posizioni diverse (in certi casi rispondendo direttamente a Pasolini): Vanna Vannuccini, Un antifemminista al mese; Dacia Maraini, Tra morale e realtà; Giorgio Manganelli, Risposta a Pasolini; Leonardo Sciascia, Sciascia su Pasolini, non dileggiare i cattolici.
La prospettiva orizzontale e contaminante dell’antologia, che non traccia distinzioni preventive tra tipologie di testi, contenuti e autori, riproduce la pluralità delle riflessioni e delle forme di intervento nel dibattito pubblico sulla sessualità. L’operazione di Cucchi e Carrara assume valore anche in considerazione dell’ampiezza tematica coperta dagli interventi antologizzati. Infatti, nonostante la vastità del campo da circoscrivere, la selezione dei testi non è scontata e testimonia sia la politicizzazione progressiva del dibattito critico sia la pluralità degli argomenti intorno cui si strutturava e delle sedi dove si svolgeva. Tuttavia, proprio perché l’operazione è un lavoro di scavo su un sapere sommerso, pensiamo che un grado di inclusività così alto avrebbe richiesto da parte dei curatori una mediazione più profonda della breve panoramica sugli anni Sessanta e Settanta a introduzione del volume: per dare effettivo valore a molto del materiale recuperato avrebbe aiutato un’introduzione ai testi, anche solo storico-filologica, in grado di bilanciare lo scarto effettivo tra voci che non godono della stessa fama (pensiamo a un Pasolini rispetto a un Mario Mieli) e di collocare i singoli contributi all’interno dell’attività letteraria, culturale e/o politica degli autori. Un esempio: con la Lettera uscita su «L’Unità» nel 1962, Fausta Cialente risponde a un articolo di Maria Antonietta Macciocchi – scrittrice, giornalista, femminista militante prima del PCI e poi del Partito Radicale e direttrice nella prima metà degli anni Cinquanta del settimanale Noi donne – su due film che parlano della «donna italiana», la Notte di Antonioni e Divorzio all’italiana di Germi. Un’introduzione che riassumesse il contenuto dell’intervento di Macciocchi avrebbe permesso, oltre a chiarire alcuni riferimenti presenti nella Lettera di Cialente, di tracciare i profili di due figure attive nel panorama politico e culturale italiano del secondo Novecento poco o per niente note tra i lettori più giovani. Lo stesso vale, a prescindere dal contenuto specifico dei loro interventi, per altre figure estranee ed esterne ai manuali di storia della letteratura italiana come Mario Spinella, Marco Lombardo-Radice e Ugo Marzuoli, oppure presenti ma meno note rispetto a Ginzburg, Moravia o Montale, come ad esempio Anna Banti o Biancamaria Frabotta.
Ciò comunque non diminuisce il valore di Erotismo e letteratura, che riteniamo uno strumento efficace per storicizzare la discussione intorno alla sessualità e, ancora prima, per farla conoscere a un pubblico di lettori e lettrici giovani in un presente dove «l’orizzonte in origine ben definito (femminile) acquista complessità man mano che le identità marginali (o presunte tali)»11 agiscono per una sua ridefinizione e dove alcune delle questioni sorte nel passaggio cruciale e complesso dagli anni Sessanta agli anni Settanta non sono ancora esaurite: se la polemica contro la famiglia tradizionale o contro la censura di contenuti sessualmente espliciti ci sembra il cimelio di un tempo lontanissimo, la reazione è diversa di fronte agli articoli sul diritto all’aborto, per il quale il piano politico della discussione resta quello centrale. Infine, la riscoperta e la valorizzazione critica di autrici e saggi di critica femminista al di fuori di corsi di studio specifici (Gender Studies; Storia delle donne e di genere ecc.) e all’interno dei corsi di letteratura italiana ci sembrano il primo passo 1) per far sì che approcci di lettura dei testi che adottino (anche) una prospettiva femminista siano riconosciuti non solo come pienamente legittimi rispetto ad altri più consolidati, ma soprattutto che con questi si integrino e dialoghino e 2) che emergano sempre di più nomi e figure di critiche, scrittrici e teoriche geograficamente e culturalmente ai margini rispetto al centro di una tradizione di studi di matrice prevalentemente anglo-americana.
1 Vittorio Spinazzola, Erotismo e pornografia, in Erotismo e letteratura, p. 445.
2 Sesso e letteratura, inchiesta a cura di Luigi Capelli; Otto domande su erotismo e letteratura, L’erotismo nel cinema, inchiesta a cura di Luigi De Marchi.
3 «Un tedio mortale allunga la sua ombra sulla stessa parola “erotismo”», Calvino, Otto domande su Erotismo e letteratura, p. 64.
4 È l’opinione di Fortini, Cases e Pasolini, solo per citarne alcuni. In un certo senso, anche se da premesse diverse, arriva a conclusioni simili anche Marco Lombardo Radice, che registrava la rapidità del passaggio «da una prassi brutalmente repressiva a una (relativa) tolleranza», Sesso e repressione sessuale, p. 432.
5 Introduzione, in Erotismo e letteratura, p. 24.
6 Erotismo e letteratura, p. 142, 313, 146.
7 Mariella Bettarini, Le donne e la poesia, in Poesia femminista italiana, a c. di Laura di Nola, Savelli, Roma 1978, p. 162.
8 Gabriella Parca, Prefazione a I padri della fallocultura, in Erotismo e letteratura, p. 329.
9 Ibidem, p. 335.
10 È interessante come quest’ultimo, qualificato da Tomasi e Caruso come «il padre dei padri della fallocultura» (Risposte a I padri della fallocultura, in Erotismo e letteratura, p. 345), sia al contrario oggetto di verifica positiva nella «radiografia di un femminista» condotta da Carla Ravaioli in un libro da cui Carrara e Cucchi traggono l’introduzione e l’epilogo (Carla Ravaioli, La mutazione femminile: conversazione con Alberto Moravia sulla donna, Bompiani, Milano 1975).
11 Nicoletta Vallorani, Femminismi e sguardi queer, in Teoria della letteratura. Campi, problemi e strumenti a cura di Laura Neri e Giuseppe Carrara, Carocci, Roma 2022, p. 311.
Annie Ernaux (1940)
In occasione del premio Nobel per la Letteratura conferito nell’ottobre del 2022 ad Annie Ernaux, «allegoria» ha deciso di raggruppare in questo Spazio Aperto le pagine che negli anni ha dedicato alla scrittrice francese, a partire dalla sezione del Canone contemporaneo intitolata al suo libro maggiore, Les Années, cui seguono molte recensioni alle edizioni delle traduzioni italiane.
La nostra redattrice Francesca Lorandini ha inoltre intervistato Lorenzo Flabbi, editore e traduttore di Ernaux, ripercorrendo con lui l’opera della scrittrice. Flabbi ha tradotto tutti i libri di Ernaux pubblicati dall’Orma, la casa editrice che ha fondato nel 2012 con Marco Federici Solari.
Poco dopo l’uscita della sua traduzione italiana (Gli anni, L’Orma 2015), il Canone contemporaneo del numero 76 ha dedicato un’intera sezione all’opera maggiore di Ernaux, Les Années (2008), con due saggi firmati da Romano Luperini (https://www.allegoriaonline.it/PDF/1053.pdf) e Raffaele Donnarumma (https://www.allegoriaonline.it/PDF/1054.pdf).
Michele Sisto recensisce nel numero 69-70 la traduzione italiana di La Place (1983), a cura di Lorenzo Flabbi e pubblicata dall’Orma nel 2014: https://www.allegoriaonline.it/803-annie-ernaux-il-posto
Romano Luperini recensisce nel numero 74 la traduzione italiana di L’Autre fille (2011), a cura di Lorenzo Flabbi e pubblicata dall’Orma nel 2016: https://www.allegoriaonline.it/949-annie-ernaux-l-altra-figlia
Francesca Lorandini recensisce nel numero 77 la traduzione italiana di: Mémoire de fille (2016), a cura di Lorenzo Flabbi e pubblicata dall’Orma nel 2017: https://www.allegoriaonline.it/1090-annie-ernaux-memoria-di-ragazza
Francesca Lorandini recensisce nel numero 80 la traduzione italiana di Une femme (1987), a cura di Lorenzo Flabbi e pubblicata dall’Orma nel 2018: https://www.allegoriaonline.it/1219-annie-ernaux-una-donna
Barbara Julieta Bellini in un saggio uscito nel numero 81 – Tradurre l’extrême contemporain: il romanzo francese in Italia (2005-2015) – si sofferma, tra le altre cose, sull’operazione editoriale compiuta dall’Orma per re-introdurre in Italia l’opera di Ernaux: https://www.allegoriaonline.it/1247-barbara-julieta-bellini-tradurre-l-extreme-contemporain-il-romanzo-francese-in-italia-2005-2015
Valentino Baldi, Pietro Cataldi ed Emanuele Zinato presentano il numero 85 (gennaio-giugno 2022, Anno XXXIV)
Con questa conversazione presentiamo e discutiamo un saggio di Filippo Pennacchio, uscito per Mimesis nel 2020: Eccessi d’autore. Retoriche della voce nel romanzo italiano di oggi.
Occupandosi di alcuni dei testi più importanti e rappresentativi dell’ultimo decennio (2010-2019), il libro cerca di tenere insieme e trovare un denominatore comune a molti dei più discussi fenomeni della letteratura contemporanea.
Giovedì 12 e venerdì 13 maggio 2022, il Collegio Ghislieri e l’Associazione “Zefiro” di Monza hanno dedicato due giornate di studio alle scrittrici italiane, dal Novecento a oggi.
Tiziana de Rogatis e Katrin Wehling-Giorgi discutono sull’articolo pubblicato all’interno del n. 83
Martina Mengoni presenta il numero 84 (luglio-dicembre 2021, Anno XXXIII)
Pietro Cataldi, Università per Stranieri di Siena, introduce il nuovo sito web della rivista Allegoria.
Valeria Cavalloro e Filippo Gobbo presentano il numero 83 (gennaio-giugno 2021, Anno XXXIII)
[ Bompiani, Milano 2020 ]
A trentacinque anni dalla prima – Dino Campana. Biografia di un poeta (Marcos y Marcos 1985 e 1989, quindi Feltrinelli 2003) – Gianni Turchetta pubblica una nuova edizione della biografia di Campana. Non è solo un aggiornamento della precedente: Turchetta tiene conto della massa di ricerche che si sono sviluppate in questo lasso di tempo. Si tratta di una massa in primo luogo documentaria e biografica, ma ovviamente anche interpretativa. Sebbene produca esiti paradossali: Campana è forse lo scrittore di cui, per alcune fasi della sua vita, conosciamo i minimi dettagli; con una quantità di testimonianze che per altri difettano. E tuttavia l’eccesso di informazioni lascia la visione sfocata e la biografia rimane avvolta in una spessa rete mitologica. Come la gestazione delle opere. Alimentando la costruzione mitobiografica del «povero diavolo» reietto, che lo stesso Campana ha contribuito ad alimentare, nel momento in cui le sue testimonianze epistolari cominciano a infittirsi, dal 1914, ma soprattutto dal 1915-16, quando indubbiamente una struttura della personalità in cui il vittimismo incrocia la paranoia persecutoria comincia a mostrare i segni di un vero cedimento.
Uno degli impegni che Turchetta si è assunto – meritoriamente – è ridimensionare il mito del maledetto, dell’ontologicamente «sperso per il mondo», per il quale la poesia finisce per coincidere con la follia, restituendo la dimensione storica alla vicenda di Campana, scandita nelle sue diverse stagioni, senza appiattirla sulla follia o sull’eccezionalità, tantomeno sul conflitto permanente con l’ambiente che lo circonda. Non è una lotta contro il mito di Campana e nemmeno il tentativo di normalizzare gli aspetti irrisolti del personaggio, ma lo sforzo di collocare nella giusta prospettiva le testimonianze. Spesso discutendole come ipotesi inverificate. Nella convinzione che nella biografia come nell’opera non si assista ad un processo di falsificazione, ma i dati concreti siano sempre riesposti attraverso molteplici filtri. In una interferenza costante di vissuto, cultura e letteratura.
Il lavoro di Turchetta è dunque l’occasione per fare il punto di numerose indagini e nuovi documenti, mettendoli in forma di racconto biografico. Ne deriva una storia articolata, non certo quella di un personaggio regolare e integrato nelle istituzioni sociali come culturali. Ma nemmeno di uno scrittore nativo, al contrario coltissimo e aggiornato, se dalla Svizzera nel maggio del 1915 può proporre Freud a Soffici. A maggior ragione il profilo di Campana non è quello di un isolato, malgrado il suo patologico autolesionismo: i Canti Orfici sono subito recensiti, e sono recensioni di peso. Nemmeno il rapporto con i suoi concittadini lo vede davvero disprezzato e respinto. In questa prospettiva la ricostruzione della travagliata relazione con Sibilla diventa cruciale. Intrecciando con acume e grande capacità narrativa i documenti emersi negli anni, e che avevano trovato parziale sistemazione nel lavoro di Cacho Millet, Turchetta delinea la trama di relazioni, tra Firenze e il Nord Italia, in cui Campana è immerso; coinvolta nell’impresa di attenuare il trauma della separazione di fronte al declino di Campana. Non è che una delle vicende esemplari, che esce in questo modo dal mito e diventa storia.
Quello che forse meriterebbe maggiore attenzione è il rapporto con i fiorentini, e con Soffici, in particolare. Suona come un campanello d’allarme che una delle ultime lettere di Campana – 16 dicembre 1917 – sia indirizzata a lui: «tu sei bastato per rendermi la fede nel destino di noi tutti e del nostro paese». Sono espressioni forti, che collimano con la lunga citazione dalla rubrica Giornale di bordo che apre Il più lungo giorno, con La fantasia su un quadro di Ardengo Soffici inserita nei Canti Orfici, e ancora con la lettera-testamento del 27 ottobre 1914 in cui Soffici è «un’anima moderna». E si potrebbe continuare. Ora, proprio per i molti pieni che la biografia di Turchetta ci offre, questo resta il vuoto da colmare, malgrado l’antipatia che riesce a suscitare Soffici.
È in particolare la prospettiva europea e mondiale adottata da Anne-Marie Thiesse a conferire originalità e importanza al suo ultimo libro, La fabbrica dello scrittore nazionale. Rispetto ai lavori precedenti dell’autrice, ma anche rispetto ad altri lavori che trattano della relazione fra nazione e letteratura, Thiesse propone qui una storia più ambiziosa: se la Francia continua a occupare un ruolo di rilievo nella sua analisi, si dà però anche ampio spazio ad altre letterature europee e non europee, mostrando come la circolazione internazionale dei prodotti artistici e culturali si trovi al cuore del processo di formazione di tutte le nazioni moderne. Quest’ultime sono definite non solo da frontiere geografiche, ma anche, e soprattutto, da frontiere «spirituali» che giustificano e danno forma alle prime. Ed è precisamente nella costruzione delle frontiere spirituali, considerate come proprie dell’«essenza» di un popolo, che la letteratura interviene per legittimare e sacralizzare. In questo contesto, lo scrittore è il sacerdote di un culto laico, e i generi letterari, primo fra tutti il romanzo, sono «forme simboliche» che incarnano lo spirito nazionale. Lo studio di Thiesse mette in luce, attraverso un percorso storico ricchissimo, il ruolo giocato dalla letteratura al servizio del potere politico, come soft power (termine coniato da Joseph Nye nel 1990) cruciale nelle relazioni internazionali. Lo scrittore nazionale è studiato come figura centrale nella costruzione non solo delle nazioni europee, ma anche dell’impresa coloniale e dell’ideologia che ha promosso per secoli l’idea di una superiorità europea sul resto del mondo.
Come i dibattiti contemporanei su immigrazione e identità mostrano chiaramente, se ce ne fosse ancora bisogno, le nazioni moderne si fondano sull’esclusione. La fabbrica dello scrittore nazionale, avendo come obiettivo quello di raccontarne lo sviluppo, dà poco spazio a coloro che si trovano ai loro margini (anche se questa non era necessariamente una scelta obbligata e costituisce, ai nostri occhi, l’unico difetto di questo brillante studio).
Così, fra i grandi assenti di questa storia ci sono le donne, perché, a parte rarissime eccezioni, non si dà l’esistenza di una «grande scrittrice nazionale». Le donne sono certo essenziali alla nazione, ma solo i loro corpi, non le loro produzioni intellettuali. Del resto, però, le scrittrici sono in buona compagnia, poiché la definizione di quello che è nazionale è molto limitata e l’opera letteraria «nazionale» si presenta come portatrice di valori universali, che rappresentano in realtà un universale maschile, bianco ed europeo.
Ripercorrendo la genesi e lo sviluppo della categoria di scrittore nazionale si capisce quindi come sia difficile, oggi, continuare a usarla di fronte a una letteratura fatta sempre più da scrittori e scrittrici, che scrivono in più lingue, che abitano più paesi e che sommano identità diverse, complicando le categorie critiche basate invece sulla sottrazione. Lo scrittore nazionale appare insomma oggi come una figura datata, e il paradigma nazionale sempre più come uno strumento insoddisfacente per descrivere i fenomeni culturali contemporanei. Al tempo stesso, come mostra Thiesse in un capitolo dedicato alle letterature africane, c’è una grande difficoltà a liberarsi completamente di questo paradigma, perché la costituzione di una letteratura nazionale è diventata una tappa essenziale per esistere a livello mondiale. Siamo sicuramente in un periodo di transizione e revisione rispetto a questi dibattiti, che richiede un ripensamento profondo dei nostri strumenti critici: il libro di Anne-Marie Thiesse contribuisce pienamente a quest’impresa attuale.
[ Quodlibet, Macerata 2020 ]
Le iniziative che riguardano la diffusione dell’opera di Orlando procedono da diversi anni ed è possibile distinguere due tipi di proposte: le pubblicazioni di libri d’autore; le proposte critiche, a loro volta da discernere in ricerche che si fondano sulle teorie orlandiane, e in opere dedicate alla divulgazione del suo pensiero. Figure dell’invenzione di Valentina Sturli rappresenta un compromesso di queste direttive: è un libro che propone materiali inediti a firma di Orlando; è una ricostruzione della sua opera critica e teorica; ed è una proposta critica originale, nata sotto il segno di Orlando, ma densa di sviluppi personali di cui il lettore può trovare tracce suggestive. Si tratta di un libro importante, sistematico e ben scritto: la ricostruzione della ricerca dedicata all’inventio è fondata su registrazioni audio dell’ultimo corso universitario tenuto a Pisa e sui quaderni di appunti, ma diventa il punto di partenza per una riflessione sull’opera, sull’eredità e sull’attualità di Orlando.
Dopo un confronto con la categoria di “invenzione”, sia in termini storico-teorici generali che in prospettiva orlandiana, Sturli si dedica a una lettura della figuralità in chiave psicoanalitica matteblanchiana e, infine, alla ricerca sulle figure di invenzione vera e propria, a cui sono dedicati gli ultimi tre capitoli. Una preziosa appendice che raccoglie una sinossi estesa del corso universitario e gli appunti inediti rende questo volume un concentrato eclettico di ricerca e ricostruzione. Vorrei indicare tre aspetti che non solo mi paiono rilevanti, ma anche meritori di dibattito e verifica.
Per primo, il riconoscimento e la definizione di alcune costanti di lunga durata presenti nei maggiori libri di Orlando: Sturli riesce a dispiegare la continuità entro la diversità delle pubblicazioni e dei filoni di ricerca, mettendo in evidenza come da Infanzia, memoria e storia, al ciclo freudiano e agli Oggetti desueti (ma anche al Soprannaturale letterario e, appunto, alla ricerca sulle figure dell’invenzione) Orlando sia stato in grado di variare senza stravolgere i propri interessi e riferimenti. La ricerca sulle figure dell’invenzione si pone, dunque, nei termini del riepilogo e anche in quelli del superamento. Auerbach e Curtius, Freud e Matte Blanco, e poi Praz, Todorov, Starobinski sono interlocutori di una conversazione continua, e vengono a comporre una prospettiva simbolica attiva sulla letteratura e sul referente.
Il secondo aspetto riguarda la psicoanalisi, soprattutto impiegata in accordo con la retorica. Qui il libro di Sturli è in grado di mettere in evidenza due aspetti essenziali: il primo è quel procedere parallelo tra ciclo freudiano ed elaborazione del pensiero matteblanchiano, che poi convergerà con la pubblicazione dell’Inconscio come insiemi infiniti; il secondo è il chiarimento dell’apporto che Matte Blanco può dare alle categorie freudiane impiegate in termini di critica letteraria, e alla retorica, tra comunicazione e psicoanalisi: «il modello di repressione su represso può essere tradotto in termini matteblanchiani se si pensa che il diniego è par excellence un’espressione della reversibilità della logica simmetrica: i discorsi di Fedra sono interamente costruiti sulla compresenza di negazione e affermazione del desiderio. Così, Orlando può mettere in luce relazioni tra elementi che sono chiaramente collegati, ma che solo il riferimento alle classi logiche e alle funzioni proposizionali permette di illuminare» (p. 86).
L’ultimo aspetto è l’enorme passo avanti rappresentato da una esposizione ricca e chiara della ricerca sulle figure di invenzione. Una ricerca dalle potenzialità enormi e dai caratteri audaci e visionari, che ambisce a tenere assieme il testo, il lettore e il mondo: «Del resto, i paradigmi testuali non traggono senso solo dal reticolo di somiglianze, opposizioni e rapporti che instaurano tra loro nel testo, ma interagiscono con le competenze pregresse del lettore, la sua conoscenza dei referenti di realtà e la sua esperienza del mondo» (p. 188)
[ trad. it. di R. Prezzo, a cura di F. Barale, Jaca Book, Milano 2020 ]
A cominciare dal 2008, il Fonds Ricoeur pubblica presso Seuil i volumi di Écrits et conférences che, raccogliendo testi per lo più già editi, ma spesso di difficile reperibilità, seguono i principali interessi di studio di Ricoeur: psicoanalisi (primo volume), ermeneutica (secondo), antropologia filosofica (terzo), politica, economia e società (quarto). A questi si aggiunge anche il volume Entretiens et dialogues, che presenta interviste sugli stessi temi.
Con Attorno alla psicoanalisi, Jaca Book inizia la traduzione di queste pubblicazioni, ma il libro non è solo la riproposizione del primo volume di Écrits et conférences (Autour de la psychanalyse). L’ampia raccolta, curata da Francesco Barale, con la collaborazione di Vinicio Busacchi e Giuseppe Martini, è divisa in due parti e vi si trovano, nella prima, gli studi ricompresi nel volume a cura del Fonds Ricoeur e, nella seconda, un’antologia di testi che non compaiono nella silloge francese, coprendo un arco di tempo che va dal 1954 al 2003. Busacchi e Martini firmano due postfazioni, mentre Barale, nella sua prefazione, traccia le tappe del pensiero sulla psicoanalisi del filosofo francese: il primo incontro sui banchi del liceo, grazie alla mediazione di Dalbiez; il doloroso scontro con la parte lacaniana a seguito della pubblicazione di Della interpretazione; l’emergere dei paradigmi della narrazione e della traduzione come accesso privilegiato alla sfera del mentale. Le riflessioni presentate nel volume intrecciano fenomenologia, ermeneutica, linguistica, riflessione morale ed estetica a un’analisi attenta e rispettosa della disciplina e della clinica freudiana, arricchendo la prospettiva già fornita in Della interpretazione e in Il conflitto delle interpretazioni di precisazioni e approfondimenti importanti.
Anche se il libro non accoglie testi inediti, risulta utile poter ritrovare accostati articoli di non facile reperibilità, alcuni dei quali particolarmente significativi ai fini degli studi letterari, come Psicoanalisi e cultura (1965), saggio di natura metodologica che si incentra sulla ricerca di uno «strumento di pensiero » (p. 347) adatto a esplorare il campo di confine in cui diverse discipline, tra cui la psicoanalisi, possono incontrarsi a partire dal comune interesse per i testi letterari. Altrettanto importanti, da questo punto di vista, sono due studi rispettivamente del 1986 e del 1988, La vita: un racconto in cerca di narratore e Il racconto: il suo posto in psicoanalisi. Sono saggi i cui temi si intrecciano con quelli presenti in L’identità narrativa e in Sé come un altro. La comprensione di noi stessi, scrive Ricoeur nel primo dei due, presenta tratti affini alla comprensione di un’opera letteraria, l’identità narrativa «ci costituisce » (p. 242) con il suo gioco di sedimentazione e innovazione. La dimensione narrativa sostituisce a un Io narcisistico un Sé «istruito dai simboli culturali » e in dialogo con le «voci narranti che costituiscono la sinfonia delle grandi opere come le epopee, le tragedie, i drammi, i romanzi» (p. 243). Nel secondo scritto, non si chiama la psicoanalisi a interpretare i testi narrativi, ma è il paradigma narrativo a dare ragione della dottrina freudiana: «la psicoanalisi è un’ermeneutica nel senso che l’uomo è un essere che comprende sé stesso interpretandosi, e il modo con cui si interpreta è il modo narrativo» (p. 251).
L’intero volume, con la sua ricchezza di prospettive, ci consegna, come annota il curatore, «un vertice della riflessione del Novecento sulla psicoanalisi » che non è soltanto sguardo storico ma anche prospettiva, «récit aperto» e «matrice di riflessione» (p. 49). Rileggere oggi questi saggi ci mette nella condizione di ricevere e rilanciare la duplice sfida che Ricoeur riconosce come tratto distintivo dell’esperienza analitica freudiana (più che del semplice «freudismo» inteso come dottrina metapsicologica): la sfida della narrazione e quella della traduzione, bisogno di costruire il senso all’incrocio tra la storia che racconto di me stesso e la possibilità, sempre presente, di dirmi altrimenti.
[ Unicopli, Milano 2019 ]
Romanzi e romanzieri nell’Italia di fine Ottocento di Valentina Perozzo è il libro più importante sulla narrativa italiana postunitaria pubblicato dopo I colori del vero di Roberto Bigazzi (1969). Quella di Perozzo è la prima ricerca di storia quantitativa che mappi la produzione di romanzi italiani nell’ultimo quarto dell’Ottocento. E Perozzo ha costruito e reso accessibile in rete la prima banca dati completa delle informazioni biografiche e bibliografiche essenziali dei circa 2500 romanzi pubblicati fra il 1870 e il 1899 e dei loro circa 1000 autrici e autori (http://www.romanziottocento.altervista.org/).
Questa banca dati è il risultato di una complessa ricerca condotta su cataloghi cartacei e digitali e sulle riviste dell’epoca. Basta riflettere su un dato per capire quanto si può imparare da una ricerca quantitativa di questo tipo. Negli anni Ottanta dell’Ottocento vengono pubblicati 789 romanzi inediti in Italia (p. 27), cioè circa poco più di un decimo di quanti ne sono pubblicati in Francia nello stesso periodo. Questo dato dà un senso della relativa importanza del romanzo italiano e di quello francese. Il romanzo francese domina infatti il mercato italiano sia sul piano letterario sia su quello commerciale. I romanzi francesi circolano e vengono consumati dal pubblico italiano in lingua originale o in traduzione e le romanziere e i romanzieri italiani li prendono a modello nella loro produzione letteraria; e anche i romanzi provenienti da altre letterature come quelle inglese, russa e tedesca arrivano sul mercato italiano tramite le traduzioni e la ricezione francesi (pp. 116-117). Queste osservazioni non sono nuove; ma il punto è che il lavoro di Perozzo sostituisce una conoscenza basata su dati empirici a impressioni aneddotiche. E l’interpretazione di Perozzo dei dati quantitativi è sempre guidata dalla sua conoscenza estesa della rete di relazioni fra autrici e autori, riviste, case editrici e l’insieme di condizioni che modella la letteratura italiana di fine Ottocento. I dati quantitativi servono infatti a poco o possono essere addirittura fuorvianti se non si conosce bene il fenomeno studiato.
Fra le numerose conclusioni che si possono trarre dalla ricerca di Perozzo vorrei ricordare quella più importante. Nel suo libro Perozzo ricostruisce l’emergere dell’istituzione letteraria così come la conosciamo oggi. Siamo abituati a pensare alla nascita delle letterature nazionali come al risultato dei cambiamenti politici e culturali prodotti dal nazionalismo romantico. E però nella prima metà dell’Ottocento la letteratura è ancora un gioco sociale riservato alle classi colte al potere e i letterati scrivono anzitutto per i loro pari (p. 9). È solo nella seconda metà dell’Ottocento che scrittrici e scrittori iniziano a fare della letteratura un mestiere e a scrivere pensando a un pubblico anonimo per cui il consumo di opere letterarie è una forma di intrattenimento che può avere anche uno scopo educativo (p. 18). E l’ambizione di guadagnarsi da vivere scrivendo letteratura spiega perché figure come Giovanni Verga o Gabriele D’Annunzio siano attente al denaro, ai termini dei contratti firmati con le case editrici, al rispetto del diritto d’autore e ai rapporti con chi recensisce i libri sulle riviste. Alla fine dell’Ottocento chi riesce a vivere di letteratura è un’esigua minoranza e chi scrive proviene dalle classi medio-alte; il suo pubblico è poi ristretto in un paese dove più di due terzi della popolazione è analfabeta. E tuttavia negli anni Settanta dell’Ottocento sono già presenti molte delle condizioni di mercato che renderanno possibile l’emergere della letteratura come prodotto di consumo accessibile a un pubblico vasto. Nel libro di Perozzo mancano tabelle, grafici e mappe che permettano di visualizzare i dati; e la stessa banca dati ha una utilità limitata, perché non è scaricabile e non ha funzionalità interattive. L’importanza del lavoro fatto da Perozzo merita un sito dedicato alla raccolta, alla visualizzazione e all’uso dei dati per poterne proseguire la ricerca.
[ University of Toronto Press, Toronto 2020 ]
Nel volume Italian Neorealism Leavitt analizza il clima culturale che ha accompagnato il neorealismo negli anni a cavallo tra fascismo e dopoguerra; lo fa ricostruendo le conversazioni tra intellettuali e artisti protagonisti dei diversi tentativi di offrire una formula che abbracciasse il movimento in maniera transdisciplinare – dalla letteratura al cinema, dalle arti visive al teatro. In ciascuno dei capitoli in cui è suddiviso il testo, Leavitt si occupa di una crux ermeneutica degli studi sul neorealismo, sovrapponendo dibattito culturale e analisi di opere canoniche.
L’autore ricostruisce la storia concettuale del neorealismo nel primo capitolo, tracciandone l’evoluzione come termine nel dibattito culturale – dai post-naturalisti francesi di fine ‘800 alla letteratura russa degli anni ’20, dalla Neue Sachlichkeit alla ricezione del modernismo letterario come iperrealismo nella critica italiana, per arrivare alle pagine di «Cinema» in cui negli anni ’30-’40 vengono formulate le riflessioni che porteranno il cinema italiano verso il neorealismo. Concludendo il capitolo con l’analisi di Uomini e no e La terra trema, Leavitt ricollega i dibattiti critici dei decenni precedenti a due delle opere più rappresentative, dimostrando come in esse convergano gran parte delle influenze culturali che generarono le diverse definizioni di neorealismo.
Nel secondo capitolo viene affrontata l’annosa questione della periodizzazione del neorealismo: Leavitt approccia il tema rievocando il cambiamento di paradigma che, a partire dagli anni ’90, ha portato a una maggiore enfasi critica sulle continuità tra cultura del periodo fascista e dopoguerra. L’autore propone un riesame di tale bilancio, offrendo una valutazione basata sugli standard riformisti politici, sociali e culturali che caratterizzarono il periodo della ricostruzione. Attorno alle analisi di Caccia tragica di De Santis e Il sentiero dei nidi di ragno di Calvino, l’autore costruisce un convincente bilanciamento tra continuità col passato fascista e spinte innovatrici postbelliche: la sua conclusione propone un neorealismo che, a partire dalla riconsiderazione (e non rifiuto) delle proprie origini fasciste, immagina la trasformazione culturale del paese futuro.
La caratteristica rappresentazione della Storia propria delle opere neorealiste occupa il terzo capitolo: Leavitt indaga gli strumenti concettuali attraverso i quali il neorealismo, in lavori come Cronaca di L. Trieste e Ladri di biciclette, si propone di sovrapporre esperienza individuale e senso storico. Tra cronaca e tragedia, e passando dal particolare all’universale, gli autori neorealisti tentarono di andare oltre gli imperativi crociani – non riuscendo tuttavia a districarne le strutture storicistiche. La conversazione culturale ricostruita nel capitolo permette di rivalutare il vocabolario teorico impiegato dai maggiori protagonisti del momento neorealista: Vittorini, Bo, Calvino, Zavattini, vengono letti da Leavitt alla luce di un dibattito che, a distanza di oltre 70 anni, risulta poliedrico sebbene inconclusivo.
Nel quarto e ultimo capitolo a essere sottoposto a un’esaustiva analisi è il concetto di “coralità” che avvolse l’aspirazione al riscatto nazionale nel periodo post-Liberazione. I lavori di Alfonso Gatto ed Aldo Vergano vengono esaminati alla luce delle loro ambizioni politiche e sociali: il tenore di tali rivendicazioni artistiche permette a Leavitt di interpretare il neorealismo come una reazione a una crisi culturale, nelle parole di De Sica «un vasto movimento collettivo, di tutti». La funzione sociale del neorealismo diventa quindi la naturale conseguenza della rappresentazione della storia analizzata nel capitolo precedente.
Il meticoloso lavoro di ricerca svolto da Leavitt fa del testo un caposaldo della letteratura critica sul neorealismo: la ricostruzione del dibattito culturale che accompagnò lo sviluppo dei vari neorealismi artistici offre un approccio nuovo e stimolante, che non mancherà di generare riletture critiche di opere fondamentali per il Novecento italiano.
[ Carocci, Roma 2020 ]
A partire dalla Premessa, Claudio Gigante indica con nettezza l’obiettivo di Una coscienza europea: adottare una prospettiva letteraria, considerando la psicoanalisi un «sussidio per la macchina narrativa della Coscienza», e ripensare l’idea secondo la quale, attraverso Zeno, «Svevo si sarebbe preso gioco della psicoanalisi e dei suoi cultori» (p. 11). La tesi del libro è sostenuta da una rigorosa analisi che coniuga la priorità letteraria a riflessioni di più ampio raggio culturale. Gigante mostra infatti come nella Coscienza venga traghettata la cultura ottocentesca dell’autore e nota che «i nuovi stimoli culturali si fondono agli antichi senza sostituirli» (p. 12). La figura di Zeno è inserita in un sistema di relazioni che include filosofi (Schopenhauer, Nietzsche), autori canonici (Flaubert, Joyce, Huysmans, Mann, Pirandello, Tozzi, Zola), e libri più legati al momento (romanzi di Daudet, Bourget, France, Ojetti, Benco), delineando il senso di un’evoluzione che riguarda l’opera di Svevo e il romanzo moderno nel suo complesso.
Gigante individua i luoghi della Coscienza in cui il ricorso a principi psicoanalitici fornisce a Svevo gli strumenti per riformulare in chiave moderna nuclei tematici centrali da Flaubert in poi. Freud guida Svevo nella rappresentazione di «un personaggio talmente messo a nudo dalla psicoanalisi da dover attivare continui meccanismi di difesa» (p. 33). Evidenziando che «l’unico filtro cui dispone il lettore è la coscienza stessa del protagonista, che riorganizza e riscrive i ricordi, alterandoli e rendendoli sopportabili » (p. 50), Gigante nota come l’inattendibilità di Zeno costituisca uno dei punti chiave per l’interpretazione del romanzo: il «primato della coscienza creatrice sulla presunta realtà oggettiva» (p. 93) rende impossibile attuare una distinzione tra quello che è vero e ciò che non lo è. Questo aspetto, che nell’ambito della psicoanalisi si rivela produttivo nella misura in cui anche omettendo e mentendo il paziente rivela qualcosa di vero, nei circuiti del romanzo anima il racconto dell’istanza modernista che esaspera e preclude l’individuazione del senso.
Altrettanto ambigua la relazione tra Zeno e gli altri personaggi. Il rapporto con il padre va spiegato in virtù del complesso edipico che influenza, rifunzionalizzandola, la ricostruzione che Zeno compie del suo passato. Per comprendere le tensioni rivolte a Guido non basta ricorrere alle dinamiche del desiderio mediato (come è sufficiente, ad esempio, per Le disciple di Bourget), ma occorre aderire alla logica dell’inconscio che, eludendo il principio di non contraddizione, accetta la coesistenza di sentimenti d’affetto e desiderio di sopraffazione.
Gigante, attraverso un dialogo continuo tra Svevo e i «libri di qualche rilievo per la costruzione dei suoi romanzi », mostra come in Zeno si riassorbano le velleità intellettuali e le profondità filosofiche delle figure fin de siècle (come il Lazare di La Joie di vivre di Zola) e il tratto generazionale che accomuna gli inetti ottocenteschi (come Thomas dei Buddenbrook, nel romanzo di Mann, o Oblomov nel romanzo omonino di Goncarov).
Con la Coscienza il concetto stesso di malattia subisce una normalizzazione: Zeno è «un uomo qualunque in bilico tra disfatte ordinarie e riscatti impensati» (p. 200). Il finale apocalittico del romanzo non risolve il tratto di provvisorietà del senso: dopo il trionfo economico, per il quale Zeno crede di essere guarito, la condanna all’umanità; e dopo la deflagrazione cosmica, nelle Continuazioni, uno Zeno ricaduto nell’inettitudine. Gigante ricollega infine la rappresentazione di Zeno a un’idea di malattia «con cui alla fine la vita si identifica», concezione oltre alla quale, ancora «per noi un secolo dopo, non pare esservi più nulla» (p. 219).
Lo studio di Gigante, svolto in termini culturali e tematici, e puntellato da notazioni intertestuali, ricostruisce un orizzonte evolutivo entro cui la Coscienza accoglie le prerogative dei nuovi stimoli culturali (in primis la psicoanalisi) innestandole nel «fondo comune», di matrice ottocentesca, dell’opera di Svevo.
[ Rubbettino, Soveria Mannelli 2020 ]
Lo studio di Teresa Franco contribuisce a delineare un quadro sempre più chiaro della pratica traduttiva, così fortemente implicata con le ragioni della sua poesia, di uno dei massimi poeti italiani del secondo Novecento, Giovanni Giudici. In particolare, esso dialoga implicitamente con un altro studio recente (di Sara Cerneaz, L’«Onegin» di Giovanni Giudici, 2018) da una prospettiva complementare: non un taglio strettamente metrico e filologico, finalizzato all’interpretazione di una singola opera, ma un approccio insieme storico e poetologico, che però non disdegna la lettura ravvicinata dei testi. Il volume si propone infatti come una storia delle traduzioni poetiche dall’inglese realizzate da Giudici nel ventennio che va dalla metà degli anni Cinquanta alla metà dei Settanta – lo stesso periodo nel quale si definiscono le coordinate del suo lavoro poetico –, anche se il rovello correttorio del traduttore comporta numerosi sconfinamenti in avanti. Dopo due incontri fondativi (Eliot, Pound), entrambi destinati a lunghe ripercussioni, l’attività traduttiva del poeta ligure si snoda attraverso le fasi di una crescente professionalizzazione: dai primi tentativi su rivista (Peter Viereck, Richard Wilbur, Karl Shapiro) all’amichevole e fruttuosa collaborazione con Vanni Scheiwiller (Milton, Dryden, Hopkins, Lowell, Graves, Crane, Dickinson) fino ai libri d’autore licenziati per Einaudi (Frost) e Mondadori (Ransom, Plath).
L’indagine sui nessi, fittissimi, fra lavoro traduttivo e ricerca poetica muove dall’individuazione di alcuni concetti-guida, primo fra tutti quello di errore, mediante il quale si riconosce la radice comune ai due ambiti nell’esperienza dello straniamento linguistico e, quindi, conoscitivo. All’errore si connette la nota metafora della lingua strana, mentre l’inglese è lingua del padrone americano, codice in cui si deposita un rapporto ambivalente, misto di at- trazione e di critica, con il mito dell’America negli anni della guerra fredda. Si deve infine a Eliot, con il soccorso decisivo della mediazione montaliana, l’adozione della categoria di “poesia metafisica” come bussola capace di guidare molte scelte del traduttore, da Donne a Dickinson, da Hopkins a Crane.
Fatte queste premesse, la ricostruzione storica di Franco si muove lungo due linee distinte ma intrecciate, indagando testi e contesti. All’analisi testuale, nello specifico soprattutto metrica e lessicale, spetta di verificare, talvolta attraverso il coinvolgi- mento fruttuoso di strati redazionali finora ignoti, i progressivi acquisti del traduttore in un confronto con l’originale che spesso dura decenni, come anche di mostrare i modi concreti dell’interconnessione tra versi tradotti e versi in proprio. Hanno così modo di chiarirsi le diverse accezioni dell’errore, dal travisamento puro e semplice all’errore interpretativo con cui il traduttore si appropria del testo di partenza. Il vero punto di forza del libro risiede però forse nella cura con cui sono ricostruiti i singoli contesti – fatti di rapporti editoriali, di relazioni di amicizia, di letture poetiche e critiche – in cui ciascuna traduzione prende corpo e si modifica nel tempo, restituiti con precisione anche grazie al massiccio ricorso a fonti d’archivio (i taccuini di Giudici e numerosi carteggi). Hanno così modo di emergere influenze determinanti – come quella di Montale nel caso del Mauberley poundiano – e condizioni di lavoro peculiari, come quelle determinate dall’amicizia, nella Roma di metà anni Cinquanta, con i poeti statunitensi Viereck, Wilbur e Shapiro, frequentati lavorando presso l’agenzia d’informazione USIS. Soprattutto, collocando le versioni di Giudici nel più ampio contesto della ricezione italiana di questo o quel poeta, Franco ottiene una migliore comprensione delle scelte operate dal traduttore riuscendo nel contempo ad aggiungere qualche tassello a una storia letteraria e culturale più ampia che è quella dei rapporti tra lettori e produttori poetici italiani e poesia in lingua inglese moderna e contemporanea.
[ trad. it. di D. Pitter, il Saggiatore, Milano 2020 ]
Dopo la teoria letteraria, il postmoderno, la critica culturale (e il senso della vita), Terry Eagleton si è avventurato nei labirinti di quel fenomeno molteplice e composito che va sotto il nome di “umorismo”. Nell’edizione originale, intitolata sobriamente Humor, l’oggetto di indagine viene offerto al lettore senza un sottotitolo che ne glossi i contenuti, spesso utile ad anticipare la chiave di lettura privilegiata. Non ci si lasci ingannare dal titolo, però, perché si tratta di una semplicità argutamente ironica, come spesso accade nelle riflessioni dello studioso inglese. Le prime pagine del volume, infatti, sono consacrate a una vivace disamina della fenomenologia della risata, definita in modo suggestivo come «una lingua con una serie di idiomi diversi: schiamazzo, risatina, borbottio, sogghigno, stridio, urlo, grido, risolino, sussulto, strillo, raglio, uggiolio, riso, boato, ridacchio, fischio, sghignazzo, riso nasale, riso nervoso, riso urlato, riso stridulo e così via». Il lungo elenco serve a mostrare che il riso è universale ma non uniforme, come si precisa nell’incipit del capitolo I. Naturale e culturale al contempo, la risata è sottrazione ed eccesso significato, e tuttavia, precisa Eagleton, può essere letta come un testo poiché è codificata socialmente. Alla fenomenologia del riso si affianca dunque la proposta di una semiotica della risata, che ne analizzi la funzione sociale.
L’accento viene posto sull’effetto dell’umorismo (e non sugli aspetti teorici) anche nel titolo dell’edizione italiana, Breve storia della risata, che ben traduce l’ironia dell’originale. La prospettiva diacronica annunciata, tuttavia, non è così pronunciata nell’organizzazione del libro, né in quella dei contenuti. Difatti, dei cinque capitoli del volume, uno soltanto è dedicato alla fortuna dell’umorismo nella cultura occidentale (o meglio, nella cultura britannica, visto che Eagleton, una volta arrivato alla modernità, menziona soltanto filosofi e scrittori anglosassoni). I primi tre capitoli propongono una sintesi delle principali e più conosciute teorizzazioni sul riso: le teorie del sollievo, della superiorità e dell’incongruenza. Eppure, segnala Eagleton, nessuna di queste teorie è sufficiente da sola a rendere conto dell’origine del riso. Anche il capitolo V, «La politica dell’umorismo», ripercorre sentieri già battuti: sebbene esordisca con una opportuna problematizzazione della politica dell’umorismo, insistendo sulla sua natura bifronte, Eagleton si sofferma poi sulle ben note teorizzazioni di Bachtin; meno canonico, invece, l’accostamento della liberazione del carnevale a quella offerta dal Vangelo, immagine con cui si chiude il volume.
La riflessione avanza attraverso il ricorso a un solido repertorio interdisciplinare, dove filosofia, psicoanalisi e marxismo si intrecciano per comprendere a fondo gli oggetti di studio. Questo approccio sembrerebbe particolarmente azzeccato per cogliere l’essenza di un fenomeno sfaccettato come l’umorismo, inafferrabile se affrontato da prospettive univoche e parcellizzanti. Ciononostante, l’eterogeneità delle fonti – da Aristotele a Hegel, da Kundera a Hutcheson e Trevor Griffiths – e la libertà con cui si salta rapidamente dall’una all’altra, procedendo quasi per accumulazione, questa volta non giovano alla penetrazione dei concetti in gioco.
Breve storia della risata, dunque, forse non aiuta a fare ordine nell’indefinitezza filosofica propria dell’umorismo, che Umberto Eco aveva rilevato ormai una quarantina d’anni fa in Il comico e la regola, né vi è traccia qui delle illuminanti conclusioni cui Eco perveniva in quel breve saggio. D’altro canto, Eagleton specifica nella prefazione che il suo proposito non è coniare una teoria onnicomprensiva dell’umorismo – «solo un teorico avventato cercherebbe di riunire tutto ciò in un’unica formula» – quanto, piuttosto, «dire qualcosa di relativamente convincente e coerente sul perché ridiamo». Ebbene, quest’obiettivo è stato senz’altro ampiamente raggiunto, ma l’umorismo e il riso mantengono ancora intatti alcuni dei loro segreti per altri assedi critici.
[ Carocci, Roma 2020 ]
La necessità di identificare i “classici” – nonostante il ridimensionamento del canone nella sua accezione novecentesca – tra le scrittrici e gli scrittori dell’età contemporanea sembra essere un’operazione crescente di questi ultimi anni, attraverso la promozione di antologie, riedizioni, volumi di interviste e monografie. Se per un autore come De Angelis la bibliografia in tal senso è già ricca e in continuo aggiornamento, l’opera di Anedda risulta ancora frammentata e per questo ancora poco accessibile a un pubblico non specializzato. Lo studio di Donati colma quindi una lacuna negli studi contemporanei, proponendosi di presentare il carattere eccezionale di Anedda lungo tutta la sua produzione, analizzando la sua scrittura, il suo impegno critico e la sua biografia.
Il volume si divide in dieci capitoli che evidenziano tematiche e modalità espressive distintive dell’opera di Anedda. Quest’ultima è presentata in ordine non cronologico, rispondendo alla necessità di riferire il dialogo costante che l’autrice – nell’arco della sua produzione trentennale – intrattiene con sé e con altre voci di diversa provenienza. Delle sue pubblicazioni, Donati non si limita a segnalare le principali, ma conduce un lavoro attento anche ai materiali su rivista, agli studi di critica e alle interviste che l’autrice ha rilasciato, raccontandosi ed autocommentadosi. Delle presenze che incontrano la sua scrittura, sono soprattutto quelle non italiane – Moore, Celan, Cvetaeva, solo per citarne alcune – a essere puntualmente evocate: un’operazione che vuole segnalare il respiro internazionale di Anedda, che tramite la sua opera parla per e a un lettore ampio. Ciononostante, non si possono non menzionare – e Donati ricostruisce ampiamente – le influenze più prossime alla scrittrice: per esempio, il rapporto intellettuale e intimo che l’ha legata a Rosselli. La relazione con i «miti oggetti», il dialogo con la morte, la necessità di chi scrive di confrontarsi con i mali della Storia, sono solo alcuni dei temi che si susseguono in questo studio, che ricostruisce accurata- mente gran parte della critica già esistente sull’autrice. A queste letture si aggiunge la voce di Donati, che per ogni questione analizzata registra le nume- rose declinazioni lungo tutta l’opera di Anedda. Ne rileva le fonti e ne segnala le implicazioni etiche, non nascondendo l’ammirazione e il trasporto per il sog- getto trattato. La prosa di Donati, rigorosa nella presentazione dei materiali e nello sviluppo del discorso, è infatti a più riprese appassionata, enfatica. L’adesione allo studio e ai testi è manifesta, ma non per questo toglie valore al lavoro: semmai, dimostra che la riflessione di Anedda ha caratteri di estrema urgenza e attualità, che una lettura asettica non avrebbe compiutamente trasmesso – come qui giustamente si pretende – a un pubblico più ampio del- la ristretta cerchia degli specialisti. Ciò però non deve indurre a pensare che questo libro non si rivolga anche a questi ultimi: pur essendo questo studio una sorta di “invito alla lettura” – data l’ampiezza dell’opera e dei temi trattati – pure troviamo un’analisi approfondita degli stessi. Penso ad esempio alla definizione della Limba aneddiana (cap. 8), la cui «trasversalità interclassista» (p. 88) è rappresentata nello studio sintattico, metrico, stilistico: elementi che al pari del contenuto parlano per il mondo, in quello che Donati definisce «un italiano spoglio, franco, dolorante di realtà; una lingua messa a nudo, lavorata per rastremazione e addensamento di significati» (p. 85).
L’esercizio della scrittura non di ma per il mondo, caratteristico di Anedda, è ben riassunto in chiusura del volume: l’ultimo capitolo, brevissimo, è un commento alla poesia Se ho scritto è per pensiero, tratta da Notti di pace occidentale (1999). Tessendo le fila del discorso, Donati fornisce lungo tutto il volume, e anche in questa lettura conclusiva, una visione agile e di estrema lucidità su una delle scritture più feconde, e ancora pienamente operanti e inventive, della letteratura contemporanea.
[ Carocci, Roma 2019 ]
«Perché? Già maestro sugnu»: con queste parole Leonardo Sciascia rispondeva all’offerta di una laurea honoris causa proveniente dall’università di Messina; né si tratta dell’unica occasione in cui lo scrittore ha reclamato per sé il mestiere di maestro elementare, di scoli vasci, magari a depotenziare l’appellativo di Maestro con la maiuscola rivoltogli dagli interlocutori. Se la rivendicazione appare in sintonia con la riservatezza e l’understatement sciasciani, e come loro espressione è stata spesso interpretata, Barbara Distefano propone di riconsiderare anche quale ruolo abbia avuto l’insegnamento nella carriera dello scrittore, sia agli esordi, sia in quanto articolazione di un costante impegno pedagogico all’interno del percorso di militanza civile.
Sciascia fu maestro a Racalmuto tra il 1949-50 e il 1956-57. Di tale esperienza rimangono i registri di classe in cui, insieme al programma svolto, annotava la distanza tra le indicazioni ministeriali e i bisogni sociali ed economici dei bambini, e la frustrazione della «lezione impossibile» (pp. 10-11, un topos, questo, assente in De Amicis, ma poi ricorrente nelle scritture sull’insegnamento secondo-novecentesche, specialmente dal Sud). I registri, riportati per la prima volta integralmente nell’ultimo capitolo del volume, non solo si leggono come un prezioso documento storico dell’istituzione scuola nella prima Italia repubblicana, ma costituiscono anche l’avantesto delle Cronache scolastiche, che segnalarono Sciascia all’attenzione nazionale nelle pagine di «Nuovi argomenti» e all’interno di Le parrocchie di Regalpetra (1956).
Oltre ad analizzare i travasi di situazioni, stili e temi dai resoconti burocratici alla prosa letteraria, e in specie la messa a fuoco della critica sociale, il volume ripercorre le tappe della rifessione sciasciana su temi pedagogici e ne ricostruisce la pratica didattica, dando conto anche della collaborazione con l’editore palermitano Palumbo per la realizzazione di un’antologia di letture per le scuole medie, L’età e le età (1980-1982). Con rigore metodologico e piglio militante, Distefano utilizza il caso di Sciascia per discutere la categoria degli scrittori insegnanti, tanto ben rappresentata all’interno del canone letterario quanto ai margini dell’attenzione critica, e sottolineare la rilevanza degli archivi scolastici come fonte finora negletta nelle raccolte di carte d’autore. La monografa si richiama in questo alle sollecitazioni di Romano Luperini, che a più riprese ha denunciato il «sovrano disinteresse universitario nei confronti della scuola», e ancora prima di Carlo Dionisotti, che sin da Geografa e storia della letteratura italiana esortava a considerare la scuola come luogo tanto di trasmissione della letteratura quanto della sua produzione (p. 163).
[ Oxford University Press, Oxford 2020 ]
Si impara qualcosa dalla finzione? Questa è la domanda che si pone il filosofo Gregory Currie in Imagining and Knowning: The Shape of Fiction. La sua risposta è scettica. Non c’è modo di sapere se si impari qualcosa leggendo un romanzo o guardando uno spettacolo teatrale o un film. E se sì, non è chiaro cosa si impari; ed è comunque altrettanto probabile che la finzione propaghi ignoranza, falsità, un eccessivo senso di sé e l’illusione di una conoscenza profonda (p. 218). Le aspettative sul valore conoscitivo della finzione vanno ridimensionate non tanto perché ci sono opere finzionali più o meno riuscite; questa osservazione è difficilmente contestabile, ma non dice molto. Quello che Currie cerca di mostrare è che non c’è modo di sapere se si impari qualcosa dai grandi romanzi, drammi e flm. Currie usa come esempi soprattutto i grandi romanzi della tradizione realista come Guerra e pace e Anna Karenina di Tolstoj, ma pensa che le sue conclusioni si possano estendere a opere di narrativa e di teatro antiche e medievali e anche al cinema. E chi legge Imagining and Knowning può comunque sostituire le opere d’arte finzionali che considera dei capolavori agli esempi presentati nel libro senza che l’argomentazione ne sia intaccata. L’obiettivo di Currie non è lanciare una crociata contro il consumo di finzione (p. 7), quanto valutare gli argomenti avanzati da chi tenta di spiegarne la funzione nella società e nella vita delle persone. Molti di questi argomenti condividono una concezione nota come «cognitivismo letterario», secondo cui la grande letteratura è una forma di conoscenza della realtà e il valore letterario di un’opera dipende dal suo valore cognitivo. Di che tipo di conoscenza di tratta? Secondo Currie, nessuno può sostenere seriamente che si tratti di conoscenza fattuale (p. 78). Se si vuole sapere qualcosa della campagna napoleonica o della vita dell’aristocrazia nella Russia dell’Ottocento, è meglio visitare i musei e leggere dei libri di storia piuttosto che affidarsi a Guerra e pace e Anna Karenina. A convergere sul cognitivismo letterario sono filosofe come Martha Nussbaum e figure influenzate dalla psicologia cognitiva e dalla biologia evoluzionista come Lisa Zunshine e Brian Boyd. E a interessare loro sono due tipi di conoscenza distinte da quella fattuale o «proposizionale» (know that) come lo sviluppo di capacità (know how) o la conoscenza per familiarizzazione (acquaintance) in ambito psicologico e morale (pp. 82-87). Ad esempio, Nussbuam sostiene che leggendo finzione si scopra come ci si sente a essere (what it is like) un’altra persona e questa conoscenza aiuti a sviluppare empatia e ad affrontare dilemmi morali. Nella prospettiva naturalista di Zunshine e Boyd la finzione permette a chi legge di capire altre menti e imparare a interagire in scenari sociali complessi. Anche se non sviluppato in modo sistematico, il cognitivismo letterario si trova poi alla base dell’umanesimo tradizionale, quando si afferma ad esempio che la grande letteratura rivela qualcosa di profondo sulla condizione umana a cui forse non si avrebbe accesso altrimenti (p. 165).
Quello di Currie è un libro denso, ma la sua obiezione è semplice. Il cognitivismo letterario è una tesi sull’effetto della letteratura su chi legge e quindi è empiricamente verificabile (pp. 7-8). Ma i dati raccolti dalla psicologia sperimentale suggeriscono che le storie finzionali non hanno alcun effetto sulla capacità di capire altre menti o di provare empatia. E se si guarda più in generale alle ricerche flosofche ed empiriche su mente, conoscenza, creatività, immaginazione e morale, è difficile capire a cosa porti il consumo di storie finzionali. Secondo Currie questo dovrebbe indurre ad assumere un atteggiamento di cautela. Per Currie ci sono più ragioni per affermare che le grandi opere della letteratura e del cinema possono coinvolgere chi le consuma attivandone l’immaginazione, i desideri e le emozioni; ma l’immaginazione può portare alla conoscenza così come all’errore.
[ a cura di G. Cinelli e R.S.C. Gordon, Peter Lang, Oxford-Bern-Berlin-Bruxelles-New York-Wien 2020 ]
Innesti presenta 24 studi intertestuali sull’opera di Primo Levi. Ogni capitolo propone un accoppiamento, dai più ovvi (Levi e Dante, Levi e Kafka) ai più sorprendenti (Levi e Beckett, Levi e Lem). L’esplorazione è condotta da una squadra composta da tre generazioni di critici: da veterani come Belpoliti e Cavaglion, tra i primi in Italia a prendere sul serio l’opera di Levi, ad autori e autrici che hanno appena concluso o stanno scrivendo la tesi di dottorato.
Molti saggi consentono di penetrare nel laboratorio del mestiere che Levi ha faticato tanto a vedersi riconosciuto, quello dello scrittore: e i ferri di questo mestiere, gli strumenti di questo laboratorio, sono i libri degli altri, le opere lette e amate, ma anche quelle lette e poco amate. Tra queste ultime ci sono alcuni libri dello scrittore resistenziale francese Vercors che, a differenza di Se questo è un uomo, tanto successo riscossero anche in Italia nei primi anni del dopoguerra. Uri Cohen mette in luce come dal confronto con Le armi della notte, tradotto in Italia nel 1948, emerga una delle linee principali della riscrittura di Se questo è un uomo per l’edizione del 1958. Nel primo libro Martina Mengoni individua invece una “matrice Zauberberg” e una “matrice Giuseppe”: i romanzi La montagna incantata e Giuseppe e i suoi fratelli hanno costituito per lo scrittore ai suoi esordi un ricco repertorio di strumenti conoscitivi, narrativi e analitici. Da una parte, il cronotopo del sanatorio di Davos aiuta Levi a ricreare il cronotopo di Auschwitz; dall’altra, il personaggio biblico riscritto da Mann contribuisce alla definizione della tipologia del “salvato” in cui si incarnano diverse figure chiave del libro.
Molti capitoli di Innesti si muovono in altre zone dell’opera. Martina Piperno intercetta per esempio nei racconti un confronto serrato con le Operette morali di Leopardi; le prose del poeta non forniscono soltanto un esempio illustre nel genere del racconto fanta-filosofico, ma sono spesso un riferimento più diretto: in diverse occasioni Levi “ruba” l’idea a un’operetta morale, e termina il proprio racconto con un finale alternativo se non antifrastico rispetto a quello leopardiano. Negli elzeviri raccolti nell’Altrui mestiere e nelle poesie, invece, si ritrovano spesso autori vicini alla vena parodica, comica e umoristica della scrittura leviana; e, secondo l’analisi che propone Gianluca Cinelli, rientra in questa vena anche la traduzione pavesiana di Moby Dick, che non a caso nel Sistema periodico è citata tra i libri indispensabili accanto alle Macaroneae e al Gargantua e Pantagruel.
La scrittura altrui viene rivitalizzata e funzionalizzata da Levi a seconda di diverse esigenze compositive. Mattia Cravero, per esempio, mostra come nella Chiave a stella si assista a un cambiamento nell’auto-rappresentazione dello scrittore: Levi si toglie la maschera del centauro – che aveva proposto ripetutamente in precedenza – e indossa la maschera di Tiresia, le cui vicende sono raccontate usando le Metamorfosi di Ovidio come palinsesto. Bartezzaghi mostra come la “radice” carrolliana si sia innestata solo nell’ultimo decennio nell’opera di Levi, in concomitanza con l’apertura a scritture ed esperienze nuove, ma anche con la “rinascita carrolliana” nella cultura italiana dei tardi anni ’70 e con l’apparizione dei giochi linguistici dell’autore inglese in una rubrica della rivista «Scientific American». È probabilmente questa la fonte da cui Levi ricava lo stimolo a leggere Carroll: lo scrittore era infatti abbonato alla rivista.Anche l’aggiornamento sulle ricerche scientifiche più avanzate diventa un nutrimento per la scrittura e l’immaginario: le conferme scientifiche dell’esistenza dei buchi neri sono tempestivamente colte da Levi e da Calvino, come illustra Belpoliti. I paper più innovativi e le grandi opere e figure fondanti della scienza, da Darwin e Galileo ai Nobel Bragg, Heisenberg e Lorenz, diventano così nell’opera di Levi occasione di riflessione lirica o saggistica, di creazione fantastica e metaforica.
[ a cura di A. Chiurato, Mimesis, Udine 2020 ]
Aprendo un giornale alla pagina culturale è quasi impossibile non imbattersi nella lettura di recensioni sulle ultime novità culturali: su best seller del momento, su flm in programmazione nelle sale cinematografche, su mostre, su nuovi album di artisti musicali. La recensione è infatti uno dei mezzi di comunicazione culturale più popolari di sempre e uno strumento usato per informare criticamente il pubblico. Nel panorama letterario, molti sono stati i dibattiti condotti sulle pagine dei giornali: la recensione ha rappresentato un vaglio critico importante per i nuovi libri, determinandone spesso la ricezione pubblica. Eppure, oggi grava un’ipoteca negativa su questo genere, forse anche in ragione dello stato attuale dell’informazione culturale italiana ad ampia diffusione, dove vengono pubblicate la maggior parte delle recensioni divulgative. In questo contesto, acquista rilievo la pubblicazione del volume curato da Andrea Chiurato, Leggere per scegliere. La pratica della recensione nell’editoria moderna e contemporanea, il cui tentativo è dichiaratamente di rivalutare la recensione come un genere proprio della critica letteraria e come uno strumento per rinvigorire il dibattito pubblico sulla letteratura contemporanea.
Il volume si articola come una raccolta di saggi di vari studiosi, aventi come fl rouge il tema della recensione letteraria, analizzato secondo prospettive differenti. A fare da cappello alla miscellanea è l’Introduzione di Paolo Giovannetti, coordinatore delle ricerche del gruppo dello IULM di Milano, di cui questo libro è tappa fondamentale. Da anni Giovannetti, Chiurato e il loro gruppo di ricercatori si occupano di comunicazione letteraria e riflettono attorno alla recensione, intendendola come canale principe del dialogo tra la critica accademica e il pubblico di massa. Il ruolo della recensione, come è possibile evincere dai vari contributi, sta proprio in quella mediazione tra fatto letterario e lettore comune: non è dunque un’attività da sottovalutare, ma da rivendicare. L’obiettivo è quello di riscoprire le potenzialità critiche del genere e di riabilitare la recensione anche come oggetto di studio scientifico, come scrive Giovannetti stesso in apertura, lamentando la mancanza di studi sistematici a riguardo. A un metodo prevalentemente applicativo, basato su singoli casi studio (per esempio, Giovannetti analizza la rivista «La Chimera») vengono alternate riflessioni teoriche (come quella di Dario Boemia). In tutti gli interventi, infatti, gli autori si domandano che cos’è la recensione, quali sono le forme in cui si presenta (recensione divulgativa, di settore, accademica) e come analizzare un genere tanto mutevole e sfuggente.
Il libro si caratterizza per una spiccata interdisciplinarità e uno sguardo complessivo verso il mondo della comunicazione. Gran parte della raccolta è dedicata ad approfondimenti sulla recensione letteraria, secondo un crescendo cronologico: dalle riviste di primo Novecento («La Riviera Ligure», esaminata da Zoboli) all’eterogeneità della realtà degli anni Novanta (di cui si occupa Zuccato). A questa variegata casistica italiana si accostano esempi internazionali, grazie al contributo di Stefano Maria Casella sull’attività recensoria di Pound, Eliot e Woolf. L’ultimo capitolo, di Logaldo e Rizzuti, apre uno scorcio sulla recensione cinematografica e musicale, fornendo una panoramica più ampia sulle riviste artistiche e culturali.
Costruito come un percorso storico, il volume dà la possibilità di comprendere che la recensione è un genere che attraversa la storia della critica e della letteratura italiana ed europea. Il grande merito del lavoro teorico di questo gruppo di ricerca è il tentativo di riavvicinare la critica giornalistica alla critica letteraria. Le due realtà, se comunicanti, potrebbero dar vita a uno scambio fruttuoso grazie al quale la ricerca accademica potrebbe non solo divulgare i risultati dei suoi studi, ma tornare anche a essere soggetto attivo nel dibattito culturale e, in ultima istanza, anche civile e politico.
[ trad. it. di A. de Lachenal, Carocci, Roma 2020 ]
Proseguendo le sue ricerche intorno alle pratiche di scrittura e di ricezione dei testi, Roger Chartier si occupa in questo agile volumetto della “mobilità delle opere”, cioè di “migrazioni” di testi tra diverse lingue e culture. La peculiarità dell’approccio di Chartier sta nel mettere in primo piano le dinamiche di produzione materiale della letteratura. Tali migrazioni devono difatti, a suo parere, essere analizzate tenendo conto dell’intervento di numerosi attori (traduttori, copisti, censori, editori, librai, correttori, tipografi) che, spesso operando nell’ombra, trasformano il testo intervenendo sul formato, sulla tipologia di pubblicazione, sulla presenza di paratesti e sul loro contenuto.
Chartier analizza quattro casi, tutti legati al Siglo de oro, ai quali fa seguire un epilogo. Se in quest’ultimo Chartier si getta nell’impresa, forse un po’ troppo ardua, di giustificare la propria posizione metodologica con un testo letterario tanto noto quanto sfuggente (Pierre Ménard di Borges), nei quattro studi ricostruisce percorsi interessanti con una prosa precisa e priva di inutili tecnicismi, e con l’acribia dello storico combinata alla sensibilità di chi è avvezzo all’interpretazione dei testi. Un esempio sono le “sette vite” della Brevissima relazione della distruzione delle Indie del padre domenicano Bartolomé de Las Casas, stampata a Siviglia nel 1552, nota come il testo chiave della “leggenda nera” che denunciò le efferatezze compiute durante la colonizzazione. Il libretto doveva, nelle intenzioni dell’autore, convincere Carlo V a riformare le leggi sull’amministrazione delle colonie, secondo le quali l’encomandero poteva schiavizzare le popolazioni indigene del suo territorio. La denuncia di Las Casas, dai toni profetico-apocalittici, diventa però, nelle traduzioni in neerlandese (1578) e francese (1579), una requisitoria antispagnola e anticattolica, come Chartier dimostra analizzando frontespizi e paratesti. All’indio viene sostituito, quale vittima di persecuzione, il protestante. Lo stesso accade nelle immagini che corredano la traduzione francofortese in latino del 1598, opera di un cattolico inglese in esilio. Nel XVII secolo l’opera, riedita a Venezia e a Barcellona, viene prima rifunzionalizzata in chiave politica, nel quadro delle tensioni diplomatiche col papato e con Filippo IV, per poi diventare, nelle edizioni di Parigi e Amsterdam, un racconto di viaggio, previo restyling di titolo e antiporta; a inizio Ottocento infine, durante le lotte d’indipendenza delle colonie spagnole, serve a rivendicare la libertà dei cosiddetti criollos. Similmente Chartier procede anche negli altri studi, ricordando che le dinamiche interculturali della letteratura si comprendono – anche nell’epoca del digitale – soltanto prendendo in considerazione l’oggetto-libro nella sua materialità fisica.
[ Classiques Garnier, Paris 2020 ]
Nel rendere conto delle profonde trasformazioni che segnarono il campo della produzione letteraria in Italia e in Francia all’altezza degli anni Cinquanta, Benaglia elegge a proprio oggetto di indagine le opere di Carlo Emilio Gadda e di Claude Simon. Le esperienze dei due autori rifettono un esplicito rifuto della funzione civile dello scrittore, attestandosi su posizioni periferiche rispetto alla logica dominante nel campo letterario del tempo.
L’affinità delle posizioni di intellettuali quali, ad esempio, Vittorini in Italia e Sartre in Francia nel promuovere una letteratura socialmente impegnata (engagée) induce l’autrice a orientare la propria indagine secondo una prospettiva di «synchronisation transnationale», nel contesto della quale le traiettorie di Gadda e di Simon sono assunte, per contrasto, come indicatori di questa radicale ridefnizione delle coordinate dello spazio letterario.
Benaglia parte dall’assunto per cui uno scrittore, tramite le proprie scelte di genere, di forma e di contenuto, compie una serie di operazioni distintive tali da assumere una posizione nel contesto sociale di riferimento oltre che su un piano discorsivo. Le due dimensioni, quella storico-sociologica e quella retorico-letteraria, sono defnite, secondo un modello teorico esplicitamente bourdieusiano, come due momenti «epistemologicamente vicini». In questa prospettiva, le posizioni enunciative assunte da Gadda e da Simon – posizioni che, seppur distanti sotto molteplici aspetti, si contraddistinguono per l’autonomia rispetto a qualsiasi forma di affliazione ideologica – fanno sì che la loro immagine si costituisca discorsivamente per opposizione al modello assertivo, didattico e testimoniale dello scrittore impegnato. La specificità della postura dei due autori emerge appunto in reazione all’engagement.
La prima parte del volume è dedicata alla ricostruzione storica di quelle dinamiche che regolano lo spazio dei possibili letterari in ambito italo-francese tra gli anni Cinquanta e Sessanta. A prova dell’unità del campo transnazionale da un punto di vista teorico, l’autrice rileva quindi nella seconda parte la ricorrenza di specifche categorie critiche nel dibattito intellettuale entro il quale si realizza la ricezione delle opere dei due autori. I punti di contatto tra le traiettorie di Gadda e di Simon inducono a postulare un’omologia particolarmente evidente a livello della ricerca linguistica e formale.
Dall’analisi comparata delle opere pubblicate in questi anni emerge, nella terza e ultima parte, l’esistenza di una dimensione sociale che non è referente esterno della scrittura ma che si fa elemento intrinseco di qualsiasi discorso che abbia, come nel caso dei due autori in questione, come proprio fne quello di rappresentare la realtà. Un engagement de la forme per cui la forma e, quindi, la rifessione sullo strumento linguistico, si profla come forza attiva di rappresentazione del mondo sociale e come luogo privilegiato di espressione critica.
Inserendosi in un cantiere di ricerca internazionale impegnato nella rifessione sulla storiografa letteraria in termini sociologici, l’autrice riesce nell’impresa di restituire il quadro ampio e articolato entro cui si inscrivono le sperimentazioni formali di Gadda e di Simon, dimostrando come le scelte di un autore vadano sempre valutate alla luce di quella rete di interessi, istituzioni, schemi di percezione e di valutazione, rappresentazioni e gerarchie di valori che, in termini bourdieusiani, orientano le logiche del campo di produzione e defniscono le regole dell’arte.
[ trad. it. di S. Rodeschini, Marsilio, Venezia 2020 ]
È sin troppo facile sottolineare come Aspetti del nuovo radicalismo di destra di Adorno sia un «commento agli sviluppi della situazione attuale» (così Volker Weiss nella Postfazione). Del resto si tratta di una conferenza tenuta da Adorno nel ’67, a Vienna, a seguito dell’incredibile affermazione elettorale di un partito di ultradestra, di chiara derivazione nazista (l’NPD, che dopo il 2% delle elezioni federali del ’65, tentò l’ingresso in Parlamento, fallito di poco nel ’69). Insomma già nel ’67 Adorno allunga l’elastico che lega – e differenzia anche – passato e presente. E con lo stesso spirito, in fondo, il pamphlet è proposto da Marsilio: lo denuncia l’immediata traduzione (il libro è uscito in Germania nel ’19) e ancor più le 70.000 copie vendute in pochi mesi.
La rifessione di Adorno sulla fsionomia dell’uomo fascista – con un approccio che si muove tra psicologia sociale e sociologia più istituzionale – risale già agli anni californiani, ed è proseguita con il rientro in Germania dopo la guerra. Certamente la conferenza viennese conferma la fedeltà a una ricerca, tanto remota quanto insostituibile, per motivi politici e umani. Ma in questo caso Adorno travalica i confni più strettamente teorici e speculativi, e struttura il suo testo prevalentemente all’insegna della prassi. In fondo, nel rivolgersi agli studenti del ’67, Adorno risponde alla domanda: cosa si deve fare per contrastare il fascismo nel momento in cui sta per nascere? La risposta invita a opporre il più lucido e faticoso razionalismo, lasciando da parte «appelli etici» o «appelli all’umanità», che finirebbero per infiammare i fascisti stessi, inducendoli al riso aggressivo, o peggio ancora a «esclamazioni come “Viva Auschwitz”».
Adorno parte da un presupposto, che costituisce il punto su cui costruire l’attualità del suo discorso: le frange fasciste non sono fsiologiche (gli «eterni incorreggibili») – come vorrebbe una mentalità consolatoria – ma rappresentano «le piaghe, le cicatrici di una democrazia che non è ancora pienamente all’altezza del proprio concetto». E nessuna democrazia può dirsi «concretizzata in modo effettivo e completo» se non si realizza, oltre che sul piano dei diritti, su quello «economico e sociale». Ebbene nel momento in cui la democrazia è incompiuta, perché non sana sacche di povertà e divari di ricchezza, crea le condizioni per la rinascita di movimenti fascisti. Nella società del ’67 Adorno vedeva queste condizioni simili, sia pure con intensità diversa, a quelle che dopo Weimar avevano consentito l’ascesa di Hitler; Marsilio, a sua volta, sospetta che tali condizioni ci siano anche nel 2020.
Il fascismo si contraddistingue per una totale assenza di ideologia; si rivela duttile, e facilmente adattabile alle esigenze elettorali del momento. Sicché la sua più intima essenza non è in una missione sociale – sia pure aberrante – ma nella propaganda, che deve costantemente «compensare l’indubbia differenza tra i reali interessi [la presa del potere] e gli scopi falsi e pretestuosi [i temi sociali e ideologici sbandierati]». In altre parole, prosegue Adorno, «se i mezzi sostituiscono sempre più i fni», come accade col fascismo, accade che «la propaganda costituisce la sostanza della politica». Ed è allora la propaganda quella che occorre contrastare. È qui che il libello adorniano diventa un vademecum di azione antifascista.
La propaganda si affda ad alcuni artifci retorici che Adorno passa rapidamente in rassegna: difesa contro l’imminente catastrofe, dati apparentemente inoppugnabili e impossibili da verifcare, reticenza allusiva verso ciò che è politicamente scorretto sostenere, effetto cumulativo che crea verità, ecc. Di fronte a un simile arsenale di «stratagemmi» l’interlocutore deve rimanere lucido, e rifutare da subito il patto dialogico proposto, decostruendo i presupposti e denunciandone la fallacia. In questo modo riesce a minare il fascismo alle radici e a compiere un atto di difesa della democrazia. Lo stesso atto che dobbiamo compiere noi quotidianamente; anche con l’esortazione di Adorno.
[ Neri Pozza, Venezia 2020 ]
Confesso che, in passato, alcune cose mi hanno suscitato una qualche perplessità, se non fastidio, in Emanuele Trevi: il suo antintellettualismo, che a volte prende pose un po’ facili; la sua tendenza a costruire una mitologia di scrittori, critici e artisti che sono poi sempre gli amici di casa; quell’oscillazione, che a noi provinciali suona sempre molto da burgeois bohémiens della capitale, tra i misteri iniziatici e la serata a cena a Trastevere; un certo ritornellare “la vita è sogno, tutto è finzione”. Con il tempo, ho riconosciuto in quei tratti i segni della maniera – più che dello stile – di Trevi: affabilità colta, ossessioni personali, irriducibilità al mainstream, snobismo temperato da svagatezza, puntigli impolitici migliori di tanti sdegni civili a buon mercato. E del resto, non ho nessun dubbio che Trevi sia uno scrittore, che ci abbia dato libri molto belli e che quest’ultimo, Due vite, sia uno dei suoi migliori. È il ricordo-racconto di due amici, Rocco Carbone e Pia Pera, e potrebbe intitolarsi anche Due morti non solo perché Carbone e Pera sono scomparsi ormai da anni, ma perché per Trevi c’è un legame statutario fra scrittura e rievocazione o presenza dei morti – ma pure, tra scrittura, amicizia e fedeltà. Non è infatti la prima volta che Trevi si dà questo compito: era accaduto già in Senza verso, dedicato a Pietro Tripodo, o in Sogni e favole, dove campeggiano Arturo Patten e Cesare Garboli (ma c’è pure un’apparizione memorabile di Amelia Rosselli). Ora, però, viene scelta direttamente la strada della biografa, di cui è potenziata quella relazione tra biografo e biografato che, secondo Daniel Madelénat, è uno dei cardini del genere. Carbone, Pera e Trevi erano amici: già questo legittimerebbe il racconto delle due vicende, che a tratti si incrociano. Ma naturalmente, le analogie si moltiplicano (a partire dalla morte precoce), sono messe in gioco le contrapposizioni (Rocco perennemente scontento e irascibile, Pia insoddisfatta ma leggera), le alternanze compongono un ritmo studiato e naturale. Il saggismo che è sempre stata l’autentica vocazione di Trevi qui prende anche più distintamente che in passato le due forme della riflessione sui libri e della riflessione sui destini, senza scarti o salti. Due vite dà voce così a una saggezza commossa, disincantata, indifesa davanti all’insensatezza e all’inutilità della sofferenza; e insieme rivendica quel sapere dell’individualità, quell’inimicizia per le generalizzazioni e l’astrattezza in cui (Trevi non l’ha mai detto così bene) sta il sapere della letteratura. Non è affatto un cedimento alla registrazione del mondo com’è, né (lo potrebbe un saggista?) una rinuncia a elaborare pensiero: è dare alla riflessione e al racconto i loro spazi propri, modesti per l’atteggiamento ma non per le ambizioni, e senza aver paura, quando occorre, di far sentire le accensioni della voce. Stupisce come uno scrittore che ha una fede così profonda nella letteratura sia così estraneo alla mistificazione che è la seconda natura di tanti. La scelta della non fiction è anche un portato di questa attitudine: Trevi mette in campo gli schermi dell’ironia (o meglio, dell’autoironia) e dell’understatement, mai della letteratura al quadrato o della menzogna. Sono convinto che Trevi sapesse che, mentre lui scriveva le sue Due vite, Siti stava lavorando alle Due storie quasi vere della Natura è innocente, uscito qualche mese prima: lo abbia premeditato o no, ha risposto alla biofinzione con la biografa autentica, all’«autobiografia bifida appaltata» con la pietà per il destino degli altri in quanto altri, alla contemplazione desolata della mediocrità e del nulla con un rito discreto di lutto e di dolore.
[a cura di F. Moliterni, Pendragon, Bologna 2020]
Vittorio Sereni ha dieci anni in più di Roversi, è poeta affermato e già negli anni Ottanta punto di riferimento del panorama poetico del dopo-Montale. Eppure questo Sereni, così autorevole, nell’ultima delle sessanta lettere del carteggio che si distende dal ’59 all’82 (curato con competenza da Moliterni, già autore di una monografa su Roversi: Un’idea di letteratura, 2003) così scrive al suo interlocutore: «Provo, ho sempre provato, una certa soggezione nei tuoi riguardi senza sapermela spiegare». Cos’è che crea imbarazzo in Sereni, e ribilancia rapporti che dovrebbero pendere in tutt’altra direzione?
La partita tra Sereni e Roversi non si gioca sul piano del dettato poetico: la stima reciproca non è mai messa in discussione, così come le distanze di registro costituiscono un motivo in più di dialogo, e non certo un elemento di separazione. Ma Sereni e Roversi in questo carteggio si fronteggiano sul tema dell’editoria, dell’industria culturale e dunque, in ultimo, del valore della poesia nell’Italia del boom economico.
A livello di “lavoro editoriale” Sereni e Roversi, com’è noto, si situano agli estremi opposti: uno è quasi alla guida del colosso economico e l’altro sceglie il ciclostile e l’autoproduzione per smarcarsi dalle briglie del mercato. E questa differenza è il continuo terreno di confronto, che però non assume mai un taglio teorico, ma ha un aspetto pratico e contingente: le opere di Roversi. Roversi, dopo alcune uscite poco più che clandestine (Landi, Palma-verde e in ultimo Sciascia), approda con Caccia all’uomo a Mondadori, fino quasi a sentirsi parte del gruppo (relativamente al premio Salento, vinto nel ’59, scrive: «“l’essere di Mondadori” è stato un magnifico avallo»). Questa appartenenza non è solo uno stato emotivo, ma anche un vincolo contrattuale, che lega Roversi all’editore per tutte le successive opere («contratto, con relativa opzione»). Eppure proprio da questo vincolo Roversi consapevolmente si libera, pubblicando Dopo Campoformio con Feltrinelli. Il punto di rottura arriva però nel ’64, quando Roversi, già proiettato verso forme di editoria indipendente, decide di cedere il suo romanzo, Registrazione di eventi, a Rizzoli. Sereni, da parte sua, rivendica il desiderio, sincero, di non perdere l’amico come autore di Mondadori, e dall’altra ricorda, con discrezione e garbo, l’esistenza di un «contratto». Roversi invece ritiene «esaurito il […] rapporto, preciso e piano, e non troppo emozionante, con Mondadori». La contrapposizione, sia pure in piena amicizia, franchezza e correttezza, è frontale, e spinge Sereni a dire la sua, superando stavolta il caso singolo: «Stando a questo tavolo penso che esiste un “gioco” editoriale e che questo gioco sia una regola. La mia parte di comprensione delle necessità altrui sta sul modo di applicare questa regola; ma il gioco non può essere messo in discussione ogni volta. Altrimenti chiunque ha il diritto di fare ciò che gli pare e ciò che meglio gli conviene a seconda delle circostanze – e io dovrei fare harakiri. Lo si può fare una volta per tutte, ma non ogni volta e poi risorgere». Insomma Sereni non difende l’industria culturale (per lui «un lavoro per campare»), ma ne accetta l’esistenza, e dunque il principio di ordine che il sistema si porta dietro (e che permette, di tanto in tanto, «di fare dei libri nei quali si creda – chiudendo gli occhi su tutti quelli che si fanno per mille altre ragioni»). Roversi invece è colui il quale prova davvero a «fare harakiri […] una volta per tutte». Non c’è spazio all’interno del capitale, e l’unica soluzione – che non è una soluzione – è quella di sottrarsi al sistema.
La separazione è netta, ma il dialogo è ftto. Da prospettive opposte, Sereni e Roversi vedono un cancro nel campo letterario: la grande editoria. Il primo cerca spazi d’azione al suo interno, l’altro la rifugge; ma nessuno dei due giunge a sciogliere il bandolo della matassa. Per questo devono parlarne continuamente; anche per ventitré anni di seguito: quelli del loro carteggio.
[ Neri Pozza, Vicenza 2020 ]
«Uscendo di casa, l’ombra di Amelia mi balla davanti. Ed è come se mi guidasse in un luogo a lei caro. Rimugino sulla struttura di questo memoir, che somiglia a un sonoro rullo buddista, che Miss Rosselli amava far girare con i suoi versi» (p. 31). Con Miss Rosselli (qualcosa di analogo lo aveva già fatto in passato occupandosi di Moravia e Pasolini), Renzo Paris scrive un libro documentato e impor.tante su una delle maggiori voci poetiche del nostro Novecento.
I ventisette capitoli (alcuni con titoli-omaggio: «Diario ottuso», «La libellula», «Documenti») raccontano l’infanzia segnata dal trauma dell’assassinio del padre Carlo e dello zio Nello per mano dei fascisti, gli anni in giro per il mondo da esiliata (o meglio, da apolide, come correggeva Rosselli stessa), i rapporti con il cugino Aldo, ma anche con il parente Alberto Moravia, gli «amorastri», la dolorosissima malattia (la «“schizofrenia paranoide” di Amelia, che lei, per pudore, declinava in “morbo di Parkinson”», p. 37), i decenni romani con i traslochi, fino al trasferimento nella soffitta in via del Corallo, dove avvenne il suicidio. Nel corso delle pagine, più volte Paris confida al lettore di scrivere per saldare un conto, per liberarsi di un revenant pronto a braccarlo: «Da quando ho cominciato a scrivere, l’ombra di Amelia Rosselli, come sapete, è venuta più volte a ballare nella mia immaginazione» (p. 155).
Ecco allora la contraddizione di chi è costretto a ricostruire, ricordare, riavvicinarsi, per allontanare, «Questa non è una biografia di Amelia, è piuttosto la rievocazione della sua persona, e al tempo stesso il tentativo di allontanare la sua ombra» (pp. 155-156). La scrittura nasce dal privilegio di aver avuto un rapporto esclusivo con Rosselli, una duratura (e invidiabile) amicizia che, a venticinque anni dalla morte dell’amica, diventa l’investitura di un biografo ansioso di ribadire che non sta componendo una biografia. Paris parla per Miss Rosselli di memoir; àncora alcuni capitoli a luoghi e date, come in un diario personale («Roma, 11 febbraio 2016»; «Roma, 7 settembre 2018»; «Roma, ottobre 2018»; «Roma, 11 febbraio 2019»); si concede affondi saggistici, con convincenti rilievi interpretativi dei testi rosselliani; chiude l’Appendice – e quindi l’intero libro – con una frase che potrebbe suggellare numerose biografie esposte in libreria: «Se non l’avessi mai incontrata, avrei comunque scritto di un personaggio così enigmatico». È vero, con Miss Rosselli non siamo di fronte a una biografia tradizionale. Il punto è che, al pari di tanta letteratura italiana dei nostri giorni, lo sguardo sull’altro agilmente si torce e la testimonianza diventa il lasciapassare di un io autoriale ingombrante che parla di sé. L’aneddoto in odore di pettegolezzo è la garanzia che chi scrive non inventa nulla (d’altronde forse solo la giovane studiosa chiamata proprio Amélie è un personaggio d’invenzione), ma è anche il modo per raddoppiare la celebrazione: «Al tempo di quegli incontri Amelia aveva trentasette anni e io ventiquattro. Oggi posso dire che assomigliavo al suo Rocco. Venivo dal sud anch’io, ero un rivoltato e scrivevo poesie» (p. 158). Si ritrovano così le immancabili pagine sul trauma del Primo festival internazionale dei poeti a Castelporziano e il rimpianto nostalgico di Paris per un’epoca che non c’è più: «Erano innocui sberleffi per una società letteraria ormai agli sgoccioli e non si vedeva chi avrebbe preso il nostro posto» (p. 199).
Le pagine più belle di Miss Rosselli sono altre. Sono quelle in cui l’autore retrocede e i giovani che occupano la scena sono la poetessa e Rocco Scotellaro, con Amelia che si fa chiamare con il nome della madre e, innamoratasi, può amare ancora il padre: «C’è una foto che li ritrae subito dopo il convegno di Venezia, a Roma accanto ai leoni di piazza del Popolo. Rocco la guardava come fosse la Sibilla e la Gorgone insieme e Amelia rispondeva con un viso lieto, le guance gonfiette, una camicetta e una gonna blu, il suo colore preferito, che arrivava fin sotto il ginocchio» (p. 97).
[ Marsilio, Venezia 2021 ]
Ci sono molte cose nelle Ripetizioni, il libro cui Mozzi ha lavorato per più di vent’anni, ostinato come quando si ha bisogno di far parlare i propri fantasmi. Il protagonista Mario, che ha qualche tratto autobiografico, vive tre vite: quella con la fidanzata Viola, che segretamente si abbandona a rituali sadomaso di umiliazione; quella con Bianca, una donna schizoide la cui figlia, Agnese, è forse sua figlia; quella con Santiago, un ragazzo che lo sottopone a un dominio spietato, tanto da sgozzare cani mentre hanno rapporti sessuali e da chiedergli, alla fine, il sacrificio di Agnese. Inutile aggirare l’orrore di queste ultime pagine, verso cui tutto il libro precipita chiudendosi con un «Adesso, basta». Certo, nello stupro finale appare una bambina, mentre Agnese era diciottenne nei capitoli precedenti: siamo quindi in un incubo, e del resto la confusione fra reale e immaginario è la scelta orgogliosa di questo romanzo. E certo, la descrizione analitica delle mostruosità sessuali, in cui ritorna molta grammatica di Sade (anzitutto, il nesso fra perversione e omicidio), ha un tono così terreo, prevede una cancellazione così radicale del desiderio, sostituito a forza con una pulsione di morte inferta ad altri o agognata per sé, che non si può, a rigore, parlare di compiacimento (accanimento esasperato, invece) e neppure di pornografia (per quanto gli snuff movies ne siano un genere). Resta il fatto che questi schermi all’atrocità sono modi per rendere dicibile quello che lo stesso regime di finzione non basterebbe a far passare; ma non rendono l’aria meno irrespirabile. La scena finale è una fantasia patologica; vuole rendere impossibile la compiacenza e additare il Male; ma perché raccontarla con esplicitezza integrale?
C’è poi il problema di mettere in relazione la vertigine di pedofilia, zoofilia, incesto, sadomasochismo e tanatofilia con l’intero di un libro molto pensato e senz’altro eccezionale. Per molti aspetti, Le ripetizioni è il rovescio della media narrativa di oggi: per la struttura, per le ambizioni, per la rivendicazione decisa della finzione nell’esorbitare di non fiction e anzi per la denuncia dell’illiceità delle distinzioni («Che cosa importa, se un ricordo è vero o falso? Che cosa importa, se la nostra vita, la vita di chiunque, è vera o inventata?»). C’è infatti una costruzione calcolata e oscura, che fa del romanzo (il primo di Mozzi, altrimenti autore di racconti) una serie di storie che si alternano incrociandosi solo a tratti; ci sono alcuni trucchi del romanzesco classico, da una sorta di entrelacement alla suspense in fine di capitolo, dalla possibile agnizione alla quête, ma a volte senza effetti e quindi come parodiati; c’è l’effrazione della linearità temporale, fatta non solo di andirivieni, ma di un vero blocco, che fissa tanti episodi alla stessa data, il 17 giugno. L’effetto – romanzo arriva dunque anche per accostamenti tematici. Lo schema della ripetizione va inteso anzitutto come coazione a ripetere, cioè come impossibilità di fare esperienza, muovere il tempo, uscire dal trauma (Mario è segnato dalla morte di Lucia, la ragazza che ha amato da adolescente; Viola – se è lei l’autrice della lettera nelle ultime pagine – ripete la degradazione inflittale dal padre incestuoso; Bianca rischia di rendere schizofrenica la figlia, che le viene tolta); ma anche come ritorno o variazione di alcuni episodi, per frastornare il lettore e impedirgli di capire cosa sia davvero accaduto.
Il progressivo abbuiarsi del libro non cancella la varietà stilistica: riscritture di Proust in negazione dell’epifania e scene pronte per un film; sintassi dilagante e spoglia alternata a uno stile piano che si concede persino qualche gag (ricordi di Sono l’ultimo a scendere); drammaturgia da manuale di scrittura e ampie pause concesse dell’argomentazione, magari in discorsi affidati ai personaggi come nei grandi romanzi otto-novecenteschi; infine, fra rarissime cessioni all’elegia e al lirismo si fa spazio, come si è visto, il gelo atroce dell’estremo: l’enormità e talvolta l’implausibilità dei fantasmi confligge con la precisione di ambienti e circostanze materiali, in un iperrealismo allucinato che fa del racconto una fotografia sovraesposta e così nitida da riuscire adulterata. I personaggi maggiori sono abitati dal male e violentemente divisi (le scene quotidiane di Mario con i vecchi genitori, strette tra i crimini della sua perversione, suonano strazianti), ma non hanno vera profondità: sono portati tutti in superficie, pieni di segreti tra di loro ma senza nessun segreto per il narratore o il lettore, e senza inconscio perché l’inconscio è scoperchiato, si riversa nei gesti compiuti o immaginati, in discorsi senza cifrature, in sogni trasparenti. Tutto è detto con una tale insistenza e così implacabilmente da indurre al sospetto che qualcosa, da qualche parte, sia stato nascosto. Tra tanti narratori diversi, il narratore onnisciente è spesso muto; la psicopatologia inibisce il discorso morale; il crimine spazza via la possibilità di pensare la legge; il mito del male come fantasma furiosamente soggettivo incarnato nei corpi (cioè, come trauma) impedisce che se ne percepisca una dimensione collettiva.
La tendenza al saggismo (l’essayfication del romanzo degli ultimi anni, come è stata chiamata) consente a Mozzi di riflettere sulla scrittura e sulla rappresentazione. Ci sono perciò i pensieri di Mario, che è autore di alcuni libri di racconti e legge spesso; e c’è il Künstlerroman di Gas, il suo amico fotografo e pittore (ma le foto, anzitutto le polaroid esposte a una vecchia Biennale di Venezia, hanno un ruolo decisivo in tutto il libro). Il discorso si sdoppia così in metadiscorso, le dichiarazioni di poetica non si fanno attendere ma possono assumere forme implicite o addirittura depistanti (Mario non ama le storie in terza persona: e questa lo è). A sorreggere Le ripetizioni c’è una lunga, penosa indagine sull’identità, che mette a nudo personaggi fermi a un’adolescenza senza sviluppi, incapaci di essere padri e madri (di qui la centralità e insieme la voluta sfocatezza della figura di Agnese): i protagonisti vivono sotto il primato assoluto del mondo interiore, soli, incapaci di volere, abbandonati non si sa se al destino o al caso, ma sempre privi della vita del desiderio, murati nel carcere spaventoso del loro malessere, affamati di abiezione di annullamento. La redenzione, intravista in un quadro di Gas, appare impossibile.
Basta questo a rispondere alla mia domanda iniziale? Il libro ha la coerenza tematica di un gioco senza respiro con le ossessioni. Ma questo non risolve il problema della dizione e del perché fissare l’orrore in fotogrammi così sgranati. Ormai da anni alcuni narratori italiani, da Nove a Siti e Moresco, hanno imboccato la strada dell’estremo da declinare in chiave sessuale: lo praticano in forme diverse, e ancora diversa dalle precedenti è quella delle Ripetizioni. È un’accezione di quell’immoralismo di cui ha parlato «allegoria» 80, e che qui colpisce sia per il tono deliberatamente tragico che vuole assumere, sia per la violenza, inattesa in uno scrittore come Mozzi, anche ad avere in mente Il male naturale (una sorta di avantesto del romanzo).
Le ripetizioni parla a pochi. A seguire Mozzi, che ha scelto non di disattivare i racconti in finzione, ma – e fa bene – di rivendicare la verità delle finzioni, è un libro insostenibile. Esiste ormai un canone ristretto di scrittori che non possono trovare spazio in alcuni luoghi tradizionali della canonizzazione (anzitutto la scuola), e che è difficile pensare raggiungano udienze più vaste. Per loro, la letteratura sembra il campo in cui dire quello che a nessun altro discorso pubblico è consentito dire. Questa licenza è spesso il capovolgimento adialettico del perbenismo oggi in circolazione. Ma se a questa letteratura fosse consentita la rivolta anarchica perché, alla fine, a nessuno importa davvero? Non si starà ingabbiando nel proprio carnevale funereo, non si starà rinchiudendo nel recinto della propria eccezionalità, e quindi della propria irrilevanza?
[ Einaudi, Torino 2020 ]
Esistono, nella letteratura contemporanea, due enormi riserve di immaginario che pescano dal mondo. La prima riguarda la storia familiare: si raccontano le vicende dei nonni, dei padri, quindi la guerra, gli anni Settanta. La seconda è quella dell’attualità, della cronaca. Entrambi questi giacimenti di materiale narrativo hanno a che fare con una grande crisi della mitopoiesi, della capacità della letteratura di costruire, e raccontare, storie.
La città dei vivi di Nicola Lagioia appartiene a questa seconda categoria. Al suo centro l’omicidio di Luca Varani, ventitreenne romano ucciso barbaramente da Manuel Foffo e Marco Prato, di poco più grandi, all’apice di un lungo delirio di vodka e cocaina.
I due, rei confessi, non hanno un vero movente, se non curiosità ed eccesso; la cieca violenza colpisce l’opinione pubblica e fornisce allo scrittore materia d’indagine. Il libro ricostruisce non solo e non tanto i fatti, di dominio pubblico, quanto le psicologie degli interessati e le immagini che ciascuno di essi lascia impresse sulla retina di conoscenti, amici, parenti, e che mai dimostrano fra loro reale coerenza. Voci e testimonianze si susseguono per tutto il libro, e hanno le fonti più diverse: interviste, deposizioni, stampa, ricerche personali. I conti che dunque si presentano al lettore non tornano; ragioni e vite dei singoli non si possono comprendere fino in fondo. Restano i fatti.
«L’omicidio è il male e il male è il narratore della storia». L’incomprensibilità è uno dei cardini del testo. Perché l’hanno fatto? Condizioni socioeconomiche? Noia? Un nuovo disagio della civiltà? Abuso di droghe? Ciascuna risposta darebbe origine a un romanzo, volta per volta esistenzialista, nichilista, psicologico, sociale. Ma nessuna di queste linee prende il sopravvento e quel che ne esce non è, appunto, un romanzo, ma un saggio sul male: un male anch’esso, nonostante gli sforzi del narratore, incomprensibile, la cui natura oscilla costantemente fra storica e demonica. Lo scrittore vi oppone una possente ma sconfitta volontà di ricerca, e un richiamo – ma quanto esposto alla frustrazione! – alla responsabilità. «Andava rintracciata la responsabilità individuale in un’epoca in cui, cerchio retorico dopo cerchio retorico, questo concetto andava nascondendosi sempre più lontano».
Roma, la città dei vivi (minacciata sempre di essere inghiotta dalla città dei morti, in un’eterna ordalia di sfavillio e decadenza), è sullo sfondo e in primo piano. Anche qui, l’indistinzione non è sciolta: è il labirinto delle notti brave, dei festini nei bugigattoli a base di coca; è quella dei turisti, vera sentina del mondo; è quella, infine, di Nicola Lagioia che ne percorre le strade, se ne va, torna, la ama e la condanna. Nella città, nei suoi marmi, nei suoi predatori stanno le parti migliori dell’opera, peraltro non rade: lo sguardo si apre e inquadra quell’enorme correlativo oggettivo di tutto e di nulla, pronto a mettere alla prova l’animo di ognuno. «Chi ha bisogno di illusioni, eviti le lunghe soste in città».
Al termine della lettura resta una domanda: «a cosa ci serve questo libro?». Mal posta, si dovrà invece chiedere: a chi parla l’autore? E soprattutto: a nome di chi? E cosa dice? Queste domande sono nonostante tutto legittime, proprio perché il testo resta spesso al di qua del letterario. Lagioia tenta un’operazione desueta, quella dell’intellettuale che elabora e offre al dibattito ragionamenti e interpretazioni – gesto interessante, per uno scrittore che ha ampiamente frequentato, nelle sue fasi iniziali, il postmodernismo. Non è detto, però, che la mossa abbia successo: senza una narrazione letteraria, con le sue teleologie artificiali (anche negative); senza una collettività, con le sue interpretazioni nette (pur parziali), il rovello dell’autore rischia di continuare a rimbalzare, eterna ricerca nella cattiva, angosciosa infinità del male.
[ a cura di M. Galli, L’Orma, Roma 2020 ]
Sotto la stabile direzione di Matteo Galli, il cosmo dell’Hoffmanniana si estende di nuovo grazie all’ambiziosa riedizione dei Serapions-Brüder, forse la più corale tra le operazioni critico-traduttive imbastite sinora dalla casa editrice L’Orma.
Prendendo in mano il volume, tanto il lettore amatoriale quanto quello accademico si sarebbero aspettati un erhofftes Wiedersehen (un ricongiungimento sperato) con il ben conosciuto volto hoffmanniano del principio serapiontico, ovvero la capacità della letteratura di produrre immagini linguistiche a tal punto mimetiche del Reale da poterlo minacciosamente e meravigliosamente sostituire. Tale principio è infatti il nucleo della prima novella L’eremita Serapione, narrazione che dovrebbe illuminare il filo poetologico sotteso a una simile, variopinta, congerie di racconti. Tuttavia, Galli è abile nell’evidenziare fin da subito la scarsa tenuta teorica del programma e dimostra in poche ma precise righe come il medesimo principio si ponga a fondamento di altri capolavori della scrittura hoffmanniana, dai Pezzi fantastici alla maniera di Callot fino ai celebratissimi Notturni, uno su tutti il racconto L’uomo della sabbia. Riassumendo, Hoffmann avrebbe cercato di giustificare il carosello inventivo e non sempre ponderatamente filtrato di questa raccolta invocando un principio confezionato per l’occasione e che vorrebbe riproporre, in ripetizione variata, il grande tema dell’interregno tra immaginazione e realtà, tra arte e vita, tra follia e sanità mentale.
Lo sguardo del curatore e dei suoi collaboratori tenta di non soccombere alle ristrettezze interpretative del passato e, anzi, cerca di dirigere l’attenzione del lettore al di là dell’illusione poetologica dell’eremita Serapione: obiettivo quasi programmatico di questa edizione è infatti l’emersione del volto caleidoscopico dei Fratelli, inquadrato sotto il segno della sua natura enciclopedica. In questi anni di fervente interesse per l’intermedialità e l’intertestualità, un’opera come I fratelli di Serapione sembra infatti in grado di scavalcare la sua cornice storico-letteraria (che lo inquadrerebbe nella grande trafila europea delle raccolte novellistiche a ispirazione decameroniana, come nel caso del Phantasus di Ludwig Tieck) per porsi come un esempio – in pieno gusto romantico – di divertita e magmatica ibridazione dei saperi e dei generi. Lungi dal presentarsi come un’opera monolitica nella sua strutturazione, I fratelli di Serapione può essere quindi definito un triplice laboratorio: laboratorio dei generi letterari, officina di scomposizione e riassemblaggio di fonti dalla provenienza più disparata e terreno di rielaborazione di temi e complessi simbolici seminali per tutta la modernità letteraria – tedesca, europea, occidentale.
Per restituire l’unicità del variegato ingegno hoffmanniano è stato necessario riunire una pluralità di studiosi provenienti dal panorama della germanistica italiana: la ripartizione delle traduzioni e dei commenti a ogni racconto è stata in grado, nel primo caso, di restituire la polifonia delle voci narranti e, nel secondo, di compilare un apparato di note di non facile redazione, considerata la sempre diversa tipologia di competenze critiche richieste. Le voci dei 16 studiosi che intessono il commento al testo lasciano così spazio o, per meglio dire, conversano in parallelo alle voci dei fratelli di Serapione che, nell’ampia cornice, forniscono un primo, diegetico commento critico alle vicende di volta in volta narrate.
Insomma, come recita il titolo dell’introduzione, l’incontro del lettore con il presente volume è un vero e proprio unverhofftes Wiedersehen, un ricongiungimento insperato con un Hoffmann sfaccettato e parlante, aperto agli interessi aggiornati dei lettori del 2020 con un piglio che ricorda il finale della fiaba Il bambino misterioso, ultimo racconto di questo primo volume dei Fratelli: «e ancora in tarda età, nei loro sogni, continuarono a giocare con il bambino misterioso, che non smise di portar loro le più soavi meraviglie dal suo Paese incantato».
[ NN editore, Milano 2020 ]
Che cosa significa – oggi – scrivere dei racconti, e farlo nella tradizione segnata da Hemingway? Se accettiamo la scommessa di Antonio Franchini, dovremo ammettere con lui che non conta tanto riproporre temi e situazioni che a Hemingway si richiamano (la lotta, la corrida, la guerra o la caccia, qui declinata nella variante ittica), né lavorare a uno stile fatto di ellissi e di estrema tensione, quanto piuttosto ragionare su quanto da quelle esperienze o da quella maniera ci distingue. È il post ciò che conta, come ci avvisa il titolo della raccolta, è la vecchiaia del lottatore a dirci qualcosa su un certo modo di vivere e di leggere la grande tradizione novecentesca del racconto. In effetti, quando Hemingway compare sulla scena come personaggio, è un uomo vecchio, stanco, privo di sogni, quasi postumo a sé stesso, è un uomo sconfitto che non ha dimenticato la sua afición e che, tuttavia, con la sua stessa tradizione non riesce a riconnettersi. Così Francesco Esente, alter ego del narratore già comparso nei racconti Acqua, sudore, ghiaccio (1998), è fin dal nome colui che si trae fuori, che assiste senza partecipare, ma è anche colui che tiene lo sguardo rivolto al passato, che si accorge «di fare un passo avanti e due indietro», cosciente della sua inadeguatezza di fronte al tempo che passa e che per buona parte del libro dialoga con i morti (i due italiani a Caporetto, gli amici Sergio Altieri, detto Sergione, e Roberto Bonelli, Fernanda Pivano protagonista del malinconico e straziante Non ho scopato con Hemingway, i due lottatori dell’ultimo racconto, tutti sono morti). E dopotutto, questo sguardo rivolto indietro è ciò che trattiene il narratore impegnato a discendere in canoa l’Isonzo dal commettere qualche imprudenza in corrispondenza di alcuni pericolosi sifoni: «non ho mai fatto quella sezione del fiume, non per paura, ma per un altro genere di inquietudine, perché la barca va sempre nella direzione dello sguardo e non sono mai stato del tutto sicuro che, dovendo scegliere tra la via della salvezza e quella della fine, l’istinto conduca a scegliere la prima». La letteratura per Franchini sta esattamente su quel confine labile tra trattenimento ed energia, tra impulso al gesto eroico, muscolare, e controllo dello stile: per questo la parola chiave di questi racconti giunge un po’ inaspettata solo a pagina 145, nel racconto più apertamente autobiografico e sofferto, Grande fiume dai due cuori. È Roberto Bonelli la figura più luminosa di questi racconti, che con la sua «eterna sprezzatura» diviene l’emblema di chi insegue «il gesto perfetto sulle difficoltà estreme» non tanto per ascendere verso un traguardo ma per una sorta di gioco in prossimità del limite estremo. Pagaiando lungo le rapide del fiume Sesia, Francesco Esente scende realmente e simbolicamente il fiume dove «s’incrociavano i fili della sua vita», scende verso il prato degli anni felici (più dantesca Valletta dei principi che Eden), scende e ad ogni rapida cerca il giusto equilibrio di energia rabbiosa e controllo, fatica e quiete, istinto e tradizione, di esperienza vissuta ed esperienza riflessa. Solo così sarà forse possibile «resistere alla forza del Dio dell’Abisso» e nello stesso tempo perseguire l’ideale insieme omerico e infantile della «morte bella», della caduta virtuosistica ed elegante che mantiene, nell’istante della sconfitta, l’evanescente bellezza di una afición: che sia il torero Manolete o l’ignoto soldato caduto durante la Grande guerra, o ancora il padre che nel primo racconto rifiuta di correre la campestre per paura di mostrare alla figlia la sua stanchezza. I lottatori, i viaggiatori, gli sconfitti che Franchini (da L’abusivo al Signore delle lacrime) ci ha svelato, si riflettono e ritrovano nel narratore che raggiunge Varadero per una battuta di pesca al marvin e, tornato deluso, si accontenta di fotografarne uno imbalsamato in un bar: «gli parve di averlo appeso nell’armadio dei suoi sogni irrealizzati e di essere uscito per sempre dalla vita che davvero avrebbe voluto per sé, chiudendo un’anta e sbattendo la porta».
[ fotografie di S. Ragucci, Einaudi, Torino 2020 ]
La sera del 29 gennaio del 1996 Enrico Carella, titolare di una ditta d’impiantistica elettrica, incendia il teatro della Fenice di Venezia per evitare la penale dovuta al ritardo nel rifacimento dell’impianto. Complice di Carella, il “cugino padrone”, è Massimiliano Marchetti, il “cugino dipendente”. Carella non è un imprenditore in difficoltà che tenta un gesto disperato: oltre ad aver ottenuto il lavoro in subappalto perché suo padre è il capocantiere della ditta romana vincitrice della gara d’appalto, il sedicente padrone contrae grossi debiti per beni di lusso (nella scena d’apertura del romanzo acquista una costosa Bmw) e chiede ripetutamente prestiti alle sue fidanzate. Ma Carella non è neppure un personaggio dotato di una qualche profondità romanzesca: è «un elemento interscambiabile» (p. 11), uno dei tanti padroni-figli o padroni-cugini che vogliono solo «fare soldi, divertirsi, consumare di più, consumare divertimento, lavorare poco, di meno, meno degli altri, di tutti» (p. 85) e che pertanto, anziché agire come individui, sono agiti da un’ideologia che li sovrasta. Il racconto dell’incendio della Fenice non procede in forme lineari (anche graficamente il romanzo è costruito per lasse di testo più o meno lunghe separate da spazi bianchi e ripetutamente messe tra parentesi): da un lato, la narrazione è ellittica e passa attraverso un continuo andirivieni temporale in cui hanno un peso rilevante le testimonianze e le molteplici deposizioni processuali successive all’evento principale (fino alla fuga in Messico di Carella e alla sua estradizione); dall’altro lato, e soprattutto, essa è continuamente interrotta dal Leitmotiv della maschera (le fotografie di Ragucci) e da un diluvio di congetture, autoriflessioni, interrogativi e divagazioni dell’autore, il quale, anziché limitarsi a costruire ipotesi e a immaginare le intenzioni e i gesti dei personaggi, occupa costantemente la scena con la propria voce e con il proprio stile. I romanzi di Mishima e di Richler o i film di Antonioni e Thomas Anderson, la strage di Peteano e l’immunità di Almirante o la storia di Sacca Fisola e dell’inceneritore di Sacca San Biagio vengono inglobati all’interno di un’unica grande riflessione sui temi cari a Falco: la sconfitta del lavoro e la vertigine della mediocrità, l’assuefazione al linguaggio vuoto e feroce dei media, la cupezza della storia della «nazione luna park» (p. 45), le macerie del mondo e «il rimpianto per l’inespresso» (p. 79). L’ambizione di Flashover è narrare l’incendio appiccato alla Fenice sul presupposto che in esso si manifesti la vocazione distruttiva della società italiana degli ultimi decenni e che esso rappresenti una grandiosa performance del capitale. La storia incendiaria vuole insomma essere metafora del flashover raggiunto dalla civiltà occidentale. I tre minuti che un incendio impiega per transitare dalle sue fasi di avvio e di propagazione alla fase in cui esso è generalizzato e irreversibile (il flashover), sono per l’appunto «il fondamento dell’organizzazione capitalistica degli ultimi decenni, la manifestazione scatologica del nostro mondo» (p. 135). La molteplicità eterogenea di fenomeni che durano tre minuti e che Falco descrive e accumula (non senza ironia) – dalla telefonata degli impiegati di Vodafone al 3 Minute Miracle del balsamo di Pantene, dallo spot di McDonald’s alla durata media di una canzone pop-rock – esprime concretamente la pervasività della logica distruttiva del capitalismo. Fotografato in maschera, l’autore è a sua volta, come Carella o come l’uomo su YouTube intento ad appiccare un incendio per documentarne in tempo reale le fasi di propagazione, un volto spossessato, un «autoritratto del denaro» (p. 165), un’immagine della potenza e della trascendenza del capitale. La civiltà è ormai irreversibilmente defunta, flashover significa questo, e tuttavia la nudità e i gesti dell’autore fotografato da Ragucci sembrano voler irridere, oltre che offrire, l’autoritratto del denaro, l’asservimento coatto alla sua immagine neutra, al «volto della morte» (p. 171).
[ Einaudi, Torino 2019 ]
Pochi luoghi comuni sono stucchevoli quanto quello del libro inclassificabile, specie se promosso a etichetta encomiastica; ma questo non toglie che i libri inclassificabili esistano e alcuni siano belli davvero. È il caso di Con passi giapponesi di Patrizia Cavalli. Il breve volume raccoglie pezzi scritti nell’arco di più di quarant’anni (il più antico è del 1975), pubblicati in sedi diverse o inediti: non dubito che qualche studioso zelante magnificherà i calcolati equilibri interni del libro; ma non vedo come, nonostante i ritorni di certi Leitmotive, si possano negare l’occasionalità e gli sbalzi, e come anzi questo libro viva anche di incontri non premeditati. Sono immagini e chiavi di lettura di Con passi giapponesi l’opus incertum che assembla in un avventuroso mosaico frammenti di provenienza eterogenea (ne parla appunto Opera incerta) e la varietà, titolo dell’ultima sezione, da far valere in tutti i significati. Ci sono anzitutto differenze di stili e di impostazioni piuttosto marcate: si va da pagine molto scritte (come quelle che danno il titolo al volume) a dialoghi di immediata efficacia mimetica, da una sintassi spezzata ed ellittica a una complessità del periodo fastosa e sonora, dall’aneddoto colloquiale e svagato alla riflessione concentrata; ma in ogni caso, a una prosa così compatta, piena e consistente, e così esatta anche nella sprezzatura, a uno studio così attento sia nel di più sia nel di meno di artificio, a una simile capacità di tenere insieme precisione del lessico e musica della frase non saprei trovare corrispettivi nella letteratura italiana di oggi. Certo, si avverte la lezione di Morante nell’invenzione di uno stile che sembra venire da una letteratura immaginata e che insieme sa nominare gli oggetti del presente; si sente a tratti qualcosa di certa iperletteratura tra Landolfi e Manganelli; c’è senza dubbio Proust; ma c’è, con i suoi toni, una voce riconoscibile ad apertura di pagina.
Con passi giapponesi riesce stupefacente anche se lo si misura sia sui versi di Cavalli e sulla storia della sua poesia, sia sulla tradizione della prosa dei poeti, ben viva anche negli ultimi anni. In effetti (e qui è la radice più profonda della inclassificabilità di questo libro) cosa sono questi pezzi? Poèmes en prose? Racconti? Ritratti di personaggi? Frammenti di autobiografia? Prove di autofinzione? Saggi? Abbozzi e fogli d’album? Mai nessuna di queste cose da sola, e sempre un po’ tutte insieme; in ogni caso, il rifiuto della continuità è così privo di sensi di colpa, l’esercizio di libertà così sicuro da impedire al lettore di mettere sul libro il catenaccio di una struttura e da imporgli di lasciarlo respirare nel suo carattere di raccolta. Questa imprevedibilità segna del resto anche i singoli pezzi: nessuno ha una vera fine, né nel racconto né nello svolgimento del pensiero, e tutti appaiono interrotti e quasi abbandonati piuttosto che conclusi; molti hanno uno svolgimento imprevedibile, che non si riesce a ridurre all’ordine neppure a una seconda lettura (penso al Ladro di lenzuola, che inizia su un cane sedato in un volo aereo, passa ai piccoli furti che si commettono in aereo o in albergo, racconta poi diffusamente del ladro del titolo). A parlare, del resto, è un io che oscilla tra disattenzione a sé e ricerca di intimità con sé stessa, che esibisce le proprie manie ma non deroga da pudori e reticenze, che si impunta sulle sue stranezze quotidiane o dà spazio a episodi bislacchi e che riflette in tono memorabile, solenne, sul tempo, sulla memoria, sul corpo, sui sensi, sul dolore, sull’amore (bellissimo, anche in questo, Mal di testa). Ma più ancora che per un dominio della prosa che sa tanto godersi il suo virtuosismo quanto darsi la regola di una naturalezza procurata, Con passi giapponesi merita di restare perché è l’esercizio discontinuo e quasi controvoglia di un io che si riconosce molteplice e disperso, che respinge l’ordine romanzesco e la teleologia autobiografica, ma che alla fine deve a fare i conti con sé stesso come con un nocciolo che uno si trova sotto i denti, e che rischia di spezzarglieli.
[ a cura di F. Giannotti, Garzanti, Milano 2020 ]
Fra le cose più consistenti che accadono nel lavorio critico intorno alla poesia italiana del Novecento c’è la ricostruzione dei laboratori autoriali, dove le poesie nascevano a contatto con recensioni, articoli di giornale e traduzioni. Il mio Enea, libro strano e necessario (come lo definisce Alessandro Fo nella prefazione) curato e introdotto da Filomena Giannotti, sembra confermare tale affermazione. Infatti, al di là della suggestione che l’esule troiano esercitò nel secondo dopoguerra sulla poesia di Giorgio Caproni, è possibile incontrare il personaggio virgiliano in articoli di giornale divulgati già alla fine degli anni Quaranta.
Un’altra indicazione che cogliamo riguarda la centralità della seconda guerra mondiale per tanta parte della poesia novecentesca. Se Caproni può immedesimarsi nel destino di Enea, è proprio in ragione della comune condizione di esule di guerra, in seguito alla folgorante visione di un monumento rimasto intatto, a dispetto dei bombardamenti, in piazza Bandiera a Genova. Come Enea, il poeta si sente schiacciato dal suo tempo e oppresso dalla responsabilità che nutre nei confronti dei figli e dei genitori. Come Enea, sente di scontare una “vedovanza” che lo riporta all’evento più traumatico della sua giovinezza (la scomparsa della fidanzata Olga Franzoni) e avverte forse la “colpa” di essere sopravvissuto a tanta distruzione. La suggestione sarà potentissima e di portata universale, come lo stesso Caproni sottolineerà, arrivando a parlare di una figura che incarna il destino della propria generazione. Il materiale raccolto dalla curatrice, quasi completamente disponibile in raccolte e studi anche recenti, è organizzato in due parti. La prima abbraccia un periodo di ben trentuno anni, raccogliendo sette contributi a stampa (i più antichi datano 1948), il poemetto Il passaggio d’Enea e un articolo del 1979 intitolato Genova. La seconda include trentuno estratti in cui Caproni accenna occasionalmente all’eroe virgiliano; i termini temporali vanno questa volta dagli anni Cinquanta di un appunto dattiloscritto (portato alla luce da Adele Dei nel 2016) a un’intervista del 1998. Oltre a quanto si è già avuto modo di citare, completano il lavoro un apparato iconografico, comprendente fra l’altro un suggestivo scatto di Piazza Bandiera devastata dalle bombe, e una postfazione firmata da Maurizio Bettini, in cui il passaggio dell’eroe troiano è esteso a una dimensione europea e mondiale.
Ma lasciamo la parola al poeta per sentire dalla sua viva voce quali siano i termini del proprio incontro con l’eroe: «L’ispirazione mi venne da un monumento che si trova a Genova. Credo che Genova sia l’unica città che abbia un monumento a Enea, e, nemmeno a farlo apposta, si trova nella piazza più bombardata della città, che è piazza Bandiera. […] e allora io vidi in Enea non la solita figura virgiliana eccetera, ma vidi proprio la condizione dell’uomo contemporaneo della mia generazione, solo nella guerra, con sulle spalle un passato che crolla da tutte le parti, che lui lo deve sostenere, e che per la mano ha un avvenire che ancora non si regge sulle gambe. Proprio l’uomo solo, vedovo […]. Vi avevo visto il simbolo appunto della mia generazione» (da un’intervista del 1970).
Il mio Enea si configura come un utile ausilio agli studi, oltre a essere un gradevole libro di lettura. A parte la visione d’insieme di un motivo interpretativo già riconosciuto dalla critica, ma non ancora condotto alle estreme conseguenze, il libro aggiunge all’intelligenza critica dell’opera caproniana le acute osservazioni di Giannotti contenute nell’introduzione e nelle note, benché avrebbe giovato rinvenire negli apparati un più puntuale aggiornamento della bibliografia critica recente. Giannotti fa luce su una vasta messe di piccole questioni filologiche ed esegetiche, offrendo un commento ricco di informazioni e rimandi che collocano con grande precisione il lavoro sull’eroe di Troia all’interno del laboratorio caproniano.
A partire dal dibattito sulla didattica online che si è sviluppato durante la pandemia da Covid-19 e dopo aver ripercorso a grandi linee la storia delle relazioni tra la letteratura e le tecnologie della parola e dell’insegnamento, il saggio punta a delineare le prospettive future dell’insegnamento della letteratura nella civiltà digitale. L’attenzione si focalizza per un verso sui pericoli e sulle potenzialità dell’ambiente digitale per l’insegnamento della letteratura e, per un altro, sul ruolo di disciplina-guida che la letteratura stessa potrebbe avere in una didattica che punti alla “bi-alfabetizzazione” (M. Wolf).
Questo articolo ricostruisce alcune traiettorie del dibattito filosofico sulla pandemia sviluppatosi tra il 2020 e il 2021, su scala nazionale e internazionale. Analizziamo come i filosofi contemporanei abbiano cercato di riusare concetti come “stato d’eccezione”, “nuda vita” e “immunitas”, che hanno caratterizzato i decenni scorsi, e il tentativo di riconcepirli come possibili chiavi di lettura di un presente drammatico e sfuggente. Questo lavoro di riconfigurazione e riapplicazione ha avuto un successo limitato. Inoltre, illustriamo alcune questioni chiave che il dibattito filosofico ha tendenzialmente trascurato, traendo spunto da idee teorizzate in specifici ambiti disciplinari (la teoria dei media) o in altre stagioni storiche (la guerra fredda): il ruolo delle mediazioni tecniche nei processi di immunizzazione e costruzione di comunità; la possibilità di intendere la paura non solo come una minaccia, ma anche come collante sociale e cura reciproca; la morte di massa e il valore differenziale delle vite.
Scopo di questo saggio a quattro mani è dimostrare che lo scenario di realtà costruito da Morante nella Storia e in Aracoeli è uno spazio archetipico del trauma, in grado di collegare tra loro diverse epoche, e tra queste anche quella attuale, travolta dal trauma del Covid e dal suo impatto economico e sociale. Nella prima parte – elaborata da de Rogatis (Traumatic Realism and the Poetics of Trauma: Narrative Structures in Elsa Morante’s History: A Novel) – il «realismo traumatico» (Foster) della Storia è individuato come precursore e capostipite del Global Novel contemporaneo e della sua capacità di elaborare, con modi e tecniche diverse, una forma transnazionale e sperimentale di realismo e di rappresentare attraverso di esso un senso estremo di emergenza, ormai ineludibile. Per valorizzare e promuovere il più possibile questa connessione di Morante con una grande area di scrittura contemporanea globale, il saggio è stato scritto in inglese. Attingendo ai Trauma Studies, la prima parte del contributo individua e articola inoltre quattro tecniche del realismo traumatico all’interno della Storia: a) una poetica novecentesca del pathos e un contro-racconto femminile della Storia; b) compassione, abiezione e drammaturgia del trauma; c) Lo «scandalo», le spirali del racconto e le zone del trauma; d) Le cicatrici del trauma: il silenzio, le altre lingue e gli animali. La seconda parte – elaborata da Katrin Wehling-Giorgi (Traumatic Realism and the Poetics of Trauma: Oneiric/Photographic Images in Elsa Morante’s History: A Novel) – fornisce una lettura attenta della rappresentazione ecfrastica dei sogni e delle immagini fotografiche nella Storia attraverso la prospettiva della teoria del trauma, e delle sue applicazioni in campo visuale. L’analisi dimostra che le complesse oscillazioni temporali e dialettiche tra ripetizione e fissità – prodotte dall’abbondante immaginario onirico e fotografico del romanzo – riproducono in chiave di sineddoche gli elementi strutturali del trauma, costituendo un atto di testimonianza che non solo documenta ma inquieta. La lettura proposta fornisce nuove intuizioni sulle complessità temporali, strutturali e narrative del romanzo, mentre sostiene che la poetica del trauma di Morante genera con un effetto potente un racconto di taglio spiccatamente femminile, mai rappresentato prima.
A partire dal riconoscimento della sua posizione militante, inattuale e difficile, il saggio mostra come Illuminismo, barocco e retorica freudiana offra non solo un’analisi dei rapporti tra due epoche storiche, ma un intero modello di storiografia letteraria incentrato sulle retoriche in conflitto e alternativo a quello egemone della French Theory.
Il saggio rilegge Illuminismo, Barocco e retorica freudiana evidenziando due intuizioni molto utili per l’indagine del piano semantico del testo letterario. La prima rimanda all’idea che certe svolte storiche di carattere progressivo possano provocare una residuale complicità con istituzioni e forme di pensiero tradizionali; proverò a mostrare come questa dinamica ambivalente funzioni bene anche per interpretare una serie tv come The Crown. La seconda intuizione è costituita dall’idea che ragionare in termini di macrofigure – concetto individuato per la prima volta proprio in Ibrf – permetta di cogliere la rete di relazioni semantiche che legano le diverse parti di un’opera, instaurano un rapporto tra testo e mondo dei referenti.
Il saggio valorizza le parti del testo di Orlando in cui lo studioso mostra il vantaggio di studiare i movimenti letterari e culturali in termini di formazione di compromesso. Orlando dimostra infatti che tali movimenti sono bifronti, contenendo una valenza regressiva e progressiva. Da questa specifica ricostruzione storico-letteraria è ricavabile una lezione di metodo valida più in generale.
Il saggio esplora due snodi fondamentali del libro di Orlando: il percorso che lega la riflessione sul barocco all’alternanza metodologica tra Freud e Matte Blanco; e la declinazione della retorica tra comunicazione e psicoanalisi, attraverso un confronto con le due figure centrali del linguaggio letterario preso in esame nel libro: metafora e ironia.
(a cura di Valeria Cavalloro e Filippo Gobbo)
Osservando il panorama degli studi dedicati alla serialità televisiva, e in generale alla storia della televisione, salta agli occhi la presenza di una serie di fratture che attraversano il campo degli osservatori e separano punti di vista diversi in bolle discorsive che a volte sembrano andare alla deriva le une rispetto alle altre. Specialisti di television studies, critici letterari, storici della cultura, opinionisti, persino il pubblico occasionale che oggi, grazie alla rete, ha la possibilità di sviluppare un discorso critico su ci. che vede: uno sciame di prospettive che partono da presupposti diversi – di analisi testuale, di sistema industriale, di uso ricreativo – e trasformano “la televisione” in tante diverse televisioni.
Abbiamo chiesto a Jason Mittell, docente di American studies e Film and media culture al Middlebury College, autore del fondamentale Complex Tv e curatore, insieme a Ethan Thompson, della raccolta di saggi How to Watch Television, di concederci una breve conversazione sui problemi che ruotano attorno al discorso accademico (ma non solo) sui prodotti televisivi: dalla necessità di integrare una molteplicità di prospettive specialistiche diverse alla definizione (im)possibile di un canone televisivo, fino al ruolo del gusto personale nei nostri processi di valutazione e analisi.
L’obiettivo di questo saggio è quello di analizzare i modi con cui le narrazioni seriali costruiscono una particolare figura femminile: quella della moglie di un difficult man, ossia di un antieroe seriale (Martin, 2013). A partire dall’analisi di alcuni primi piani dedicati a Carmela Soprano (The Sopranos), Betty Draper (Mad Men) e Skyler White (Breaking Bad), il saggio propone così l’approfondimento di una costante comune, quella del ritorno ciclico alla condizione di partenza. Si dimostrerà che il destino finzionale di questi tre personaggi viene concepito come un percorso di emancipazione dal loro ruolo di mogli, reso impossibile per ragioni esteriori (la moglie vuole emanciparsi dalla sua situazione ma non può per costrizioni e ostacoli dettati dall’esterno), interiori (l’eroina non vuole emanciparsi da essi, reprime i suoi stessi desideri di emancipazione) oppure, su un altro piano, semiotiche (gli ideatori della serie costruiscono l’eroina secondo una precisa immagine semiotica che l’accompagna come uno spettro nel corso di tutte le stagioni).
Attraverso la decostruzione formale di modi e generi televisivi consolidati fino agli anni Novanta, spesso giocata in termini paradossali nell’episodio iniziale, alcune serie tv contemporanee (Hill Street Blues, Twin Peaks, The Sopranos, The Wire, Breaking Bad) segnano una nuova stagione della serialità, in cui ragioni produttive e narrative spostano i limiti del racconto televisivo in territori etici prima inesplorati: la relazione problematica tra un personaggio principale con tratti antisociali e la comunità in cui vive.
La serialità complessa dei primi anni Zero ha avuto la capacità di radicare la fruizione di una serie all’interno di una temporalità dai tratti riturali e collettivi. Attraverso la regolarità del palinsesto, pur profondamente sconvolto dalle modalità di visione offerte dalle piattaforme di streaming on demand, il tempo dello spettatore viene strutturato da quello della narrazione, ne segue i pieni (le puntate, le stagioni) e i vuoti (gli intervalli tra un’uscita e l’altra), in sincrono con una comunità di spettatori fondata su pratiche di discussione e di giudizio, di attesa e ipotesi, percorse da emozioni di anticipazione, incertezza, condivisione. L’ipotesi del saggio è di collocare questi meccanismi della serialità televisiva nell’ambito delle strategie che tentano di dare una risposta simbolica al dominio del “tempo liquido” (secondo la terminologia di Bauman), pulviscolare e indifferenziato, sulla civiltà globale contemporanea.
Questo saggio propone una serie di termini utili per esaminare il racconto seriale in diversi media, focalizzandosi sugli elementi distintivi della serialità: il rapporto ritmico, compositivo e sequenziale tra un oggetto e uno successivo apparentemente simile. I sei termini – ricorsività, molteplicità, slancio, world-building, sistema dei personaggi e configurazione – si riferiscono ai metodi attraverso i quali le puntate seriali si legano l’una all’altra e creano storie, ambienti e aspettative nel corso del tempo. Questi elementi funzionano non come componenti necessari ma come opzioni utilizzate per enunciare le strutture e le esperienze che le narrazioni seriali offrono al loro pubblico: alcune di queste narrazioni possono decidere di minimizzarli o addirittura di sabotarli. Attingendo a esempi presi dalla televisione, dal romanzo, dal cinema, dai podcast e dai fumetti, l’articolo afferma la centralità di una serie di caratteristiche che nel loro insieme articolano le strategie narrative che continuano a essere privilegiate nella narrazione a puntate. Le serie che fanno più sistematicamente resistenza rispetto a questi sei elementi rappresentano degli esempi di serialità minimalista, mentre le serie che li accolgono in maniera più decisa esemplificano una serialità massimalista. Il saggio si conclude con una tesi di carattere più generale, secondo la quale tutte le serie, qualsiasi sia l’epoca o il contesto in cui vengono pubblicate, contengono allo stesso tempo energie “vittoriane” e “moderniste”, vale a dire una costante interazione tra un investimento immaginario continuo ed immersivo e l’effetto di frammentazione e interruzione prodotto dalle singole puntate.
1. Le cose che ci piacciono, le cose che studiamo
Chi voglia iniziare a parlare di serialità televisiva nel 2021 si trova a muoversi in uno scenario saturo di discorsi, nel quale è complesso districare le posizioni presenti e ancora più complesso individuare una prospettiva che renda sensata l’elaborazione di contributi ulteriori. È quindi utile chiarire immediatamente la nostra prospettiva: la sezione tematica che segue è stata proposta, preparata e discussa da studiosi di letteratura che non hanno una specializzazione nell’ambito dei television studies e che potrebbero persino non corrispondere al profilo ideale dello spettatore accanito di serie tv. In quanto tali, prima ancora di elaborare le nostre proposte ci siamo confrontati con due questioni preliminari: perché parlare di serie televisive e da quale punto di vista parlarne.
Nel 2010 la casa editrice Adelphi acquista i diritti per pubblicare le opere di Gadda e inizia una doppia operazione editoriale basata, da una parte, sulla proposta di materiali nuovi – epistolari, testi inediti, scritti, appunti, materiale fotografico, provenienti dal fondo dell’erede di Gadda Arnaldo Liberati – e, dall’altra, sulla ripubblicazione di molte opere gaddiane, man mano che vengono liberate dai diritti precedentemente detenuti da Garzanti. Adelphi si aggiunge, così, ai molti editori che, negli anni, si sono proposti di pubblicare e di raccogliere l’opera gaddiana; operazione quanto mai complessa a fronte di uno degli autori più reticenti, resistenti e recalcitranti della nostra storia letteraria in materia di editoria. Un autore che Giorgio Pinotti, nella Nota al testo a conclusione del Pasticciaccio, definisce «anticipista»,1 affetto, cioè, da una tendenza a promettere la consegna di opere ancora in fieri, o che vedranno la luce in sedi diverse da quelle prestabilite.
È inevitabile che il confronto con Garzanti, e in particolare con l’edizione di tutte le opere coordinata da Dante Isella, sia stata la prima e costante preoccupazione dei curatori delle nuove edizioni. L’intera operazione adelphiana è coordinata da Paola Italia, Giorgio Pinotti e Claudio Vela, che curano – sia singolarmente che in squadra, a seconda del libro – tutte le uscite dei nuovi volumi.
Il saggio analizza alcuni aspetti della produzione letteraria di Svevo legati alla sfera dell’economia. All’interno del saggio, l’opera che è oggetto di maggiore attenzione è La coscienza di Zeno. Nel romanzo, Svevo mostra il tramonto di un’economia delle merci, soppiantata da una sempre più robusta economia finanziaria. Questo mutamento strutturale modifica i rapporti umani, l’etica e i modi di vivere. Svevo è interprete di questo nuovo mondo: un mondo che sinteticamente possiamo definire modernista.
Come collocare all’interno del panorama letterario del secondo Novecento un romanzo come Il sorriso dell’ignoto marinaio? E che ruolo affidare alla maniera sperimentale della sua scrittura? Se Il sorriso è un romanzo storico in linea con il recupero del genere sviluppatosi nella seconda metà del Novecento, tuttavia questa categorizzazione non risponde del tutto alla domanda da cui scaturisce questa indagine. Nel saggio si è scelto quindi di ricorrere ad alcune categorie teoriche, di dominio generale, ma non sempre applicate al testo di Consolo, come lo studio sul paratesto di Genette e le teorie di Benjamin, utili, quest’ultime, per l’analisi della struttura di un romanzo che procede per frammenti e intervalli. La forma ellittica della scrittura di Consolo, sia a livello di disposizione del contenuto, che a livello stilistico e formale, rivela una certa tensione all’allegorismo. Il risultato è un romanzo che si muove nel solco dello Sperimentalismo degli anni Settanta e che, superando il continuum temporale, arriva a parlare del tempo presente. E proprio la struttura sembra mirare alla creazione di un lettore come produttore critico rispetto ai fatti che vengono narrati, in grado cioè di fermarsi, nell’intervallo allegorico tra diegesi e documento, e interrogarsi sulla veridicità o meno dei fatti. Consolo scrive dunque Il sorriso fra Neoavanguardia e Postmoderno, non identificandosi con nessuna delle due istanze, ma rendendo presente una “zona” del romanzo del secondo Novecento che vede il suo sviluppo proprio negli anni Sessanta e Settanta.
In numerose opere creative che hanno raccontato, a caldo, il Movimento del Settantasette – prove diaristiche, romanzi, fumetti – quello della falsificazione e della dissimulazione è un tema ricorrente, sulla scia anche del portato delle teorie neovanguardistiche (paradigmatico appare, in tal senso, il volume Letteratura come menzogna di Giorgio Manganelli, 1967) e avendo come archetipo assoluto la figura di Pinocchio, anch’essa peraltro filtrata attraverso i “padri” della generazione precedente (su tutti, Italo Calvino). Il presente intervento si concentrerà sul romanzo Boccalone di Enrico Palandri (1979), proponendosi di evidenziare il complesso rapporto con il tema della verità/menzogna istituito dalla voce narrante.
L’articolo offre un confronto tra la prima e l’ultima edizione di Fratelli d’Italia di Alberto Arbasino alla luce delle categorie di “modernismo” e “postmoderno”. Allo stesso tempo, attraverso l’analisi dei testi, argomenta l’utilità ermeneutica di queste categorie nel descrivere i rapporti complessi e il passaggio tra due diverse fasi della letteratura italiana. Dopo una breve premessa teorica, il saggio complica la visione di un Arbasino diviso tra poetica modernista e prassi scrittoria postmoderna analizzando, in particolare, i cambiamenti cui sono sottoposti tre aspetti fondamentali dell’opera: la relazione tra letteratura e realtà, la tensione verso una struttura totalizzante e le aspirazioni saggistiche. Così facendo, esso mostra come la resistenza modernista paradossale e già incrinata della prima edizione lasci il posto alle soluzioni più decisamente postmoderne dell’ultima versione.
L’intervento prende in esame quattro recenti volumi che hanno come oggetto di analisi l’università italiana: Universitaly (Federico Bertoni), E se non fosse una buona battaglia? (Giunta), Salvare l’università italiana (Capano, Regini e Turri), Università futura (De Martin). Negli ultimi venti anni, l’università italiana è stata oggetto di plurime riforme, e al tempo stesso di tagli mai immaginati prima. I quattro volumi citati discutono la situazione presente e provano a immaginare strategie per migliorare l’attuale sistema universitario.
Il breve saggio prende in esame il libro di Alessandro Zaccuri, Milano, città di nessuno. Reportage visionario (2003), che utilizza il fantasma di Luciano Bianciardi per un giro per la città che l’autore grossetano conosceva bene, anche profeticamente per come sarebbe diventata in conseguenza della sua critica feroce del consumismo iniziato con il “boom economico”. Il libro ha il merito di aver contribuito agli inizi del nuovo secolo al recupero dell’opera di Bianciardi dalla damnatio memoriae, a cui era stata condannata nei trent’anni successivi a La vita agra (1962). Milano viene riconosciuta con “un nessun luogo”, una città “immateriale” senza corpo, neppure quello dei propri morti, una scia interminabile dal 1898 (quelli della strage degli operai perpetrata da Bava Beccaris) fino al 2002 (anno dell’incidente aereo contro il Pirellone). Il reportage più che “visionario”, come vorrebbe il titolo, non prende partito sui morti rievocati, senza utilizzare la carica critica a cui il personaggio Bianciardi per sua natura e storia si sarebbe prestato benissimo.
Nel dicembre 2015 usciva nella sua terza edizione Il pubblico della poesia di Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli, l’antologia considerata oggi punto di riferimento imprescindibile nel panorama poetico di fine Novecento. La riedizione del volume ebbe grandissima risonanza, complice anche lo strascico di quella «sovraeccitazione da inizio millennio» che, manifestatasi in un processo di «storicizzazione massiva» nei primi anni Duemila, ha oggi condotto la critica verso un sempre più chiaro e «ripreso interesse per la ricostruzione del campo poetico» degli ultimi cinquant’anni. Quali che siano le cause precipue di questa esplosione storicizzante, tra le quali si deve sicuramente considerare la sostanziale e frustrante assenza di un quadro chiaro e, soprattutto, soddisfacente della nuova realtà poetica dal ’68 ad oggi, è comunque evidente come questo arco temporale sia diventato il rovello della critica contemporanea, così massivamente – si pensi alla mole di saggi, convegni e numeri monografici di rivista apparsi negli ultimi anni – da diventarne cartina al tornasole. A partire dunque da una selezione di saggi e sezioni monografiche di rivista pubblicati tra il 2016 e il 2018, si metteranno dapprima in luce le metodologie scelte e le questioni affrontate dalla critica attuale sulla poesia contemporanea e, in secondo luogo, tenendo in considerazione gli aspetti emersi, si osserveranno il panorama poetico e il «canone» da essa disegnati.
Queste pagine espongono i temi e gli obbiettivi di due libri del giornalista e scrittore Alessandro Leogrande. Essi sono dedicati a un tema sociale di grande attualità, la migrazione di popoli. I “migranti” sono sia quelli interni alla comunità Europea sia quelli che provengono dall’Africa o dall’Asia. Essi costituiscono uno dei nuovi margini sociali, e sono al tempo stesso il risultato della globalizzazione. L’inchiesta, ricca di partecipazione emotiva, è lo strumento di indagine che Leogrande predilige nel suo lavoro.
A partire dalla commemorazione letteraria come cerimonia pubblica che consacra la condizione di “classico” di un’opera o di un autore, nella prima parte di questo studio (par. 1 e 2) si tenterà di verificare se e in che modo gli anniversari celebrati durante il 2017 – fra cui il centenario della nascita di Juan Rulfo, il cinquantenario del Premio Nobel a Miguel Ángel Asturias o la pubblicazione di Cent’anni di solitudine, di Gabriel García Márquez – hanno influenzato la ricezione della letteratura ispanoamericana in Italia. Nella seconda parte, si analizzeranno alcune tra le numerose pubblicazioni (traduzioni, recensioni, note) dedicate a un autore “ritrovato”, Julio Cortázar, cercando di determinare le coordinate che hanno dominato la ricezione italiana della sua opera e orientato la costruzione della sua figura letteraria come nuovo classico negli ultimi anni.
Tra il 2017 e il 2018 l’improvvisa crisi degli inserzionisti passata alla cronaca come Adpocalypse ha portato YouTube dall’essere il secondo sito più frequentato del pianeta fino a sfiorare le soglie del fallimento. Per la quantità e la complessità dei rapporti di forza che ha reso espliciti in uno spazio di tempo così breve, questo episodio offre un esempio eccellente delle contraddizioni che attraversano lo spazio culturale dei nostri giorni: illumina le dinamiche interne che questa gigantesca entità virtuale intrattiene con i suoi utenti fornendo uno spaccato di quella nuova regione dell’economia che è costituita dal lavoro culturale online; rende osservabile il conflitto tra le esigenze degli spazi pubblici di parola e la loro dipendenza da un modello pubblicitario che interviene con gesti di censura; materializza la lotta che l’avvento di un nuovo soggetto culturale scatena nel campo simbolico e ci interroga sul futuro della rete come area discorsiva in bilico tra regimi privati e dimensione pubblica.
Una volta tradotta in «nulla di sociale esiste fuori del testo», la sentenza iperbolica di Derrida, – Il n’y a rien hors du texte – diventa la migliore chiave d’accesso all’ontologia sociale. Quest’ultima, a sua volta, trova la migliore illustrazione nella rivoluzione tecnologica contemporanea. Nulla esiste fuori di quel reticolo di iscrizioni che invadono la nostra vita. Il denaro è una registrazione e la sua origine è la stessa della scrittura: è un documento come un altro che fissa un atto e quantifica un valore. La società non può prescindere da iscrizioni e registrazioni, dagli archivi e dai documenti, e soprattutto da quella tecnica delle tecniche che è la scrittura come forma prototipica di registrazione. Malgrado le apparenze sono i documenti a creare valore, non il valore a produrre documenti. La blockchain serve a tener traccia come i tagli dell’osso di Lebombo o i dipinti nella grotta di Lescaux. Se nulla di sociale esiste fuori del testo, e se la blockchain è stata una delle prime tecnologie dell’umanità, non c’è niente di più contraddittorio dell’immagine o del sogno di una società senza capitale, che sarebbe una società senza società. Il Capitale annota, registra, tiene traccia: non è un intelletto autocosciente e diabolico ma va concepito come una sorta di “lavagna universale” in cui vengono annotate le azioni sociali. La rivoluzione documediale ha posto le condizioni tecnologiche perché ci si avvicini a questa lavagna ideale, e le trasformazioni che vediamo, a partire dalla creazione dei big data, sono le conseguenze di questa rivoluzione.
[ USA, 2017 ]
Per Paul Thomas Anderson, uno dei pochi autori del nostro tempo, l’Arte non può fare a meno della Vita. Allegoria e racconto di un amore, Phantom Thread rinnova la storia del rapporto tra l’artista e la musa aggirando gli stereotipi dell’amour fou e affidando a una figura femminile di grande originalità la messa in atto di una concezione romantica e insieme radicalmente onesta dell’amore: l’amore come bisogno intuito, come patto stretto tra due individui che capiscono di essere fatti l’uno per l’altra. Lo stilista Reynolds Woodcock (Daniel Day-Lewis) è l’individuo contro il mondo, l’artista nonostante la vita: lo scapolo impenitente e il creatore che crede di non aver bisogno degli altri. Alma, cameriera in un ristorante e poi collaboratrice e moglie di Reynolds (Vicky Krieps, straordinaria), è la musa-artista che è tale nel mondo e attraverso la vita: straniera e socialmente inferiore, è altra e aperta all’alterità. Non meno testarda e geniale dell’artista e più ferma di lui nella propria volontà di azione, la musa-artista è però disposta a trovare compromessi vitali. La parola che pronuncia più spesso è un «sì» sorridente, che non è il «sì» del dominato, ma l’assenso attivo e paritario di colei che riconosce ciò che le corrisponde intimamente e non esita a perseguirlo.
La prima sequenza in cui incontriamo Reynolds è una scena di meticolosa rasatura e vestizione, rituale di controllo in un’esistenza fatta di spazi e tempi regolati in modo da annichilire la possibilità stessa dell’imprevisto e della variazione, nel tentativo di dominare completamente la vita, annullando perfino il rumore degli altri. All’estremo opposto, la prima cosa che accade ad Alma è di inciampare: la sua goffaggine è quella di chi non ha paura di incespicare nelle cose, cioè di riconoscere l’esistenza di ostacoli materiali all’agire guidato dalla volontà. Consapevole della sua imperfezione, Alma capisce con altrettanta chiarezza ciò che la rende perfetta, cioè l’arte che scopre insieme a Reynolds, la complicità creativa e amorosa che stabilisce con lui. La musa smaschera fin dal primo incontro la presunta forza dell’artista e rifiuta di farsi migliorare da lui; ma non è una dark lady – non c’è traccia della misoginia di Hitchcock, pur citatissimo dal punto di vista visivo – né tanto meno una martire alla Lars Von Trier: sapiente e coraggiosa, Alma è colei che somministra il veleno a piccole dosi, in forma di cibo e di conoscenza, per liberare Reynolds dalla sua alienazione e insieme per realizzare se stessa con lui. La musa-artista capisce come nessun altro il talento dello stilista, condivide la sua devozione per l’arte, non teme la fatica e la ricerca della perfezione, ma diversamente da lui conosce e accetta il bisogno vitale di nutrirsi di qualcosa che non siamo noi, di qualcosa che è al di fuori dei confini del nostro corpo e del nostro controllo. Per affermare se stessa e questa verità, Alma deve violare una serie di convenzioni, che riguardano prima la sfera economico-sociale e poi l’ambito privato: durante la festa di Barbara Rose, è lei a ricordare a Reynolds che il denaro non può comprare la sua arte; nel corso della visita della principessa belga, è lei a dimostrare che, se la nobildonna può commissionare un abito da sposa, il rango non le dà titoli per meritare l’arte e l’amore di Reynolds; infine, è la cena a sorpresa che organizza per lui che infrange gli schemi del bisogno regolato: Reynolds rifiuta con rabbia il cibo che Alma gli offre autonomamente, un rifiuto cui lei risponde avvelenandolo, perché la debolezza è la condizione della sua apertura.
L’omaggio a Ophüls, evidente in molte inquadrature e nella forma del racconto, fiabesco e interamente condotto dal punto di vista di Alma (che descrive la propria vita con Reynolds al dottore che è venuto a visitarlo), fa risaltare, per contrasto, il finale, che impedisce di leggere la vicenda come una mistificazione: le parole in cui Alma immagina la vita futura sono rivolte a Reynolds, che è uscito dall’ossessione solipsistica, usa il plurale e riconosce i propri bisogni vitali: «Ma adesso siamo qui e io comincio ad avere fame».
[ trad. it. di B. Arpaia, Guanda, Milano 2016 ]
In un’epoca di nazionalismi risorgenti, Fernando Aramburu, scrittore basco da vent’anni in Germania, Premio Strega europeo 2018, ritorna, come in Pesci dell’amarezza (2006), sul terrorismo dell’ETA, l’organizzazione indipendentista che ha lacerato per quarant’anni la Spagna e che solo nel 2011 ha posto fine alla sua attività terroristica, e lo fa con un romanzo tra i più riusciti della letteratura spagnola degli ultimi anni. Patria mette in scena l’inimicizia tra due famiglie tradizionali di diversa posizione sociale – quella dell’imprenditore Txato e di sua moglie Bittori, e quella dell’operaio Joxian e di sua moglie Miren – profondamente legate fino a quando il Txato, reo di essersi sottratto alle estorsioni con cui viene finanziato l’estremismo basco, non viene ucciso da una cellula dell’ETA in cui milita Joxe Mari, il figlio ventenne dei due amici. Il clima di rancore fomentato dal nazionalismo risucchia tutti in una spirale di odio: con Bittori che lamenta l’assassinio del marito e Miren la prigionia del figlio, condannato all’ergastolo per omicidio. Alla maniera cervantina, l’autore riduce al minimo i dettagli geografici e storici (comunque ben riconoscibili: l’attentato alla Guardia Civil di Palmanova nel 2009 porta Ainhoa a chiedersi «che colpa ne hanno quelli che vivono qui di quello che succede là?», e dinanzi al bar dove viene ucciso il deputato del Partido Popular Gregorio Ordóñez nel 1995 Eneko ammette che «per tipi come lui mio fratello è in carcere»), per tratteggiare una vicenda di respiro universale.
A partire dal microcosmo della cittadina basca di Guipúzcoa, Patria racconta il conformismo montante e soffocante di una comunità che, per sostenere le sue rivendicazioni nazionaliste, nega ogni pietà alle vittime e ai loro familiari. Per molti l’omertà e la solidarietà ai terroristi non sono altro che un modo per «vivere tranquilli nel paese dei muti». Aramburu registra i silenzi non solo degli oppressi, ma anche degli oppressori. Come Luces de bohemia di Valle-Inclán, il romanzo denuncia le umiliazioni e gli abusi del sistema giudiziario spagnolo: Miren giustifica gli attentati ai nemici «che hanno torturato l’osaba Joxe Mari e che ancora lo torturano in carcere», don Serapio spera che «lo trattino in modo umano», e Xavier, figlio medico del Txato, certifica in un referto le torture inflitte a un terrorista, confermando i sospetti di “terrorismo di Stato”. Con lo «spargimento di sangue […] non si costruisce una patria», osserva Gorka, fratello di Joxe Mari e alter ego di Aramburu; e a suggerire la via d’uscita dall’impasse delle accuse reciproche sarà Arantxa, la sorella di Joxe Mari, colpita da un ictus nel pieno della sua maturità.
Il racconto è articolato in 125 brevi capitoli che, come in un caleidoscopio, fissano i momenti di svolta nella vicenda di ciascun personaggio – a cui il narratore cede volentieri la parola attraverso l’indiretto libero – partendo dal presente, quando Bittori decide di scoprire la verità sull’assassinio del marito, e risalendo a forza di flashback alle origini dell’amicizia fra le due famiglie: il lettore ripercorre così, nella quotidianità di carnefici e vittime, i precari, impercettibili passi verso un possibile superamento del trauma. La convivenza auspicata da Aramburu prende corpo anche nella lingua, un castigliano che gioca con le caratteristiche della variante parlata nei Paesi Baschi (che mantiene, ad esempio, il condizionale al posto del congiuntivo) e incorpora termini ed espressioni dell’euskera, chiarite, nell’originale come nell’ottima traduzione, in un glossario.
Non sappiamo cosa succederà dopo l’ultima pagina. Quel che è certo è che Patria non è tanto un romanzo storico sull’ETA quanto una grande e riuscita rappresentazione romanzesca del superamento di un trauma comunitario, da cui emerge potente, a smentire ogni semplificazione ideologica, la quotidianità irriducibile ed eroica della gente comune: dalle ragioni dell’odio a quelle della vita che vuole andare avanti, ed è capace anche di perdonare.
[ a cura di S. Dal Bianco, A. Riccardi e G.M. Villalta, Garzanti, Milano 2017 ]
La pubblicazione di Tutte le poesie, particolarmente attesa per la difficile se non impossibile reperibilità dei libri di Mario Benedetti, offre ai lettori un’esaustiva panoramica sull’arco ormai più che trentennale di una produzione poetica tra le più autorevoli della contemporaneità. Introdotta da tre interventi saggistici tutti a loro modo fondamentali, firmati dai curatori, l’opera riunisce le principali raccolte del poeta friulano, Umana gloria (2004), Pitture nere su carta (2008) e Tersa morte (2013), alle quali si aggiunge un gruppo di testi del 2015, nucleo di un futuro libro dal titolo Questo inizio di noi.
Se la lettura sinottica permetterà di valutare meglio gli importanti scarti intervenuti tra libro e libro, l’impressione più forte, comunque, è che, dagli anni ’80 (a cui risalgono le prime poesie di Umana gloria) fino a oggi, a risaltare siano soprattutto le grandi linee di continuità, riscontrabili in un ampio fascio di costanti. Costanti tematiche, certo: il Friuli (con gli accavallamenti topografici di altri luoghi biografici e non), il mondo familiare dell’infanzia, il tempo o per meglio dire i differenti tempi sovrapposti, le possibilità della parola nello scontro con i limiti estremi dell’ammutolimento e della morte, quest’ultima ovviamente centrale nella raccolta del 2013 ma presente fin dall’inizio, quale minaccia di fine e di dispersione di un individuo come di tutto un mondo. Ma forse ancora di più resta impresso il modo coerente in cui questo universo poetico si dispiega. Non viene mai meno, per esempio, quell’impressionismo a-gerarchico per cui immagini appartenenti a spazi, tempi e piani percettivi e di realtà diversi si affastellano sulla pagina, rispondendo quasi senza mediazione alla visione iper-ricettiva e carica di memoria di un soggetto che non ha paura di disperdersi negli enti che ha evocato. E a proposito di dispersione ottica, è facile riconoscere un fil rouge che porta – va poi verificato quanto direttamente – da versi come «Parte dei miei occhi è sotto la tua giacca, / parte nelle farfalle in cui si sfa il mobiletto» o «Io che sono delle cose negli occhi, / ma non so dire come sono quando le guardo» (entrambe in Umana gloria), fino a «Si diventa altri occhi per morire dovunque», in Tersa morte. Un’altra spia ricorrente dell’instabilità ontologica e percettiva del mondo benedettiano, che spicca dalla lettura d’insieme, è nell’alta frequenza dei verbi legati al “venire” (quanti gli incipit che ne sono marcati), a un “restare” sempre precario (talvolta un “ritornare”, si veda la poesia conclusiva di Umana gloria) e quindi al “diventare” e più spesso allo “sparire”, a un “andarsene” che non a caso chiude l’ultima poesia raccolta nel volume garzantiano («Solo offuscati… e piano piano andarcene»). E tuttavia, se la regressione resta una categoria fondamentale di questa scrittura, più si va avanti nel tempo più sembra crescere la forza insieme assertiva e riflessiva di certe formulazioni, quasi definizioni o sentenze dove i contorni da labili si fanno d’improvviso netti e persino taglienti («Chi vive dice nella vita tante cose / che restano nella vita che muore», «E ogni vita / era questo: interezze create continuamente / per un dopo che non ci sarà più o è già stato», «Sono questo, questa mortalità / che mi assedia»), e questo in concomitanza con una postura più direttamente volta al coinvolgimento del lettore («E io dico, accorgetevi, non abbiate solo vent’anni», «Non distrarti, non eludere / la pura inconcepibile assenza, non distrarti»). Una perentorietà sembra farsi più necessaria via via che ci si avvicina al limite assolutamente ineludibile, al bianco e nero del nudo scontro vita-morte.
Questi e altri aspetti sono già stati diversamente indagati dalla critica; nonostante ciò la storia della poesia di Benedetti è ancora da fare, e questo volume offrirà senz’altro uno stimolo, si spera decisivo, per sviluppare il discorso.
[ a cura di N. Messina, Bompiani, Milano 2017 ]
Si tratta di una raccolta di sessantaquattro articoli sulla mafia a cui il curatore ha dato un ordine cronologico rispettando «i processi elaborativi dell’Autore e del suo ne varietur conclusivo» (p. 7). Un’appendice con Altre notizie sui testi e un Regesto chiudono l’opera con un lavoro filologico accurato e un confronto tra la versione definitiva del testo e altre fonti di vario tipo, utile per rintracciare le motivazioni dei diversi scritti.
L’ordine cronologico conferisce al volume un andamento narrativo che permette al lettore di seguire l’evolversi delle vicende storiche che riguardano la mafia e il costante impegno di Consolo, che ancora una volta si propone come osservatore della realtà siciliana. In apertura fa da introduzione un articolo di inquadramento storico sulle origini della mafia, sulla scia di alcuni dei celebri libri di Michele Pantaleone, alla cui attività di denuncia sono dedicati altri interventi. È difficile, e forse non così utile, dar conto della quantità dei temi trattati; l’elenco non darebbe il senso della complessità. Piuttosto va messo in rilievo il parallelo impegno di Consolo nella narrativa e nella saggistica: nella raccolta si disvela lo stile piano e discorsivo degli scritti di cronaca, che fa da contrappunto alla prosa sperimentale o talvolta poetica dei romanzi. Ma forse è meglio dire che questa scrittura si annuncia in qualche modo: gli articoli che trattano delle stragi di Capaci e di via D’Amelio conducono a Lo Spasimo di Palermo (1998).
E proprio dallo snodo che rappresentano queste due stragi parte la riflessione centrale di Consolo: non si tratta solo di una mafia storicizzata, ma di un fenomeno attuale e vicino, contro il quale agire. Consolo costruisce un filo rosso che da Francesca Serio di Le parole sono pietre arriva alla vedova Schifani: «nobilissimo viso da Madonna di Antonello, profondo, fermo dolore, furia rattenuta da tragica Ifigenia o Antigone», che durante la cerimonia funebre per le vittime della strage di Capaci disubbidisce al cerimoniale e lancia la sua invettiva contro gli «uomini della mafia» (p. 102). Ma è questo il segno di una disarmante e profonda disillusione, come meglio si precisa in un successivo intervento, sempre dedicato all’episodio di Capaci: «La tonnellata di tritolo è esplosa nella vacanza della suprema autorità, nel vuoto del governo dello Stato, mentre le forze politiche si staccano sempre più dalla realtà di questo paese, si avvitano in loro stesse nella lotta per il potere» (p. 107). Emerge qui il tema che sarà centrale nello Spasimo: quella crisi di credibilità dello Stato che ha le sue radici nell’intreccio tra terrorismo politico e sopraffazione mafiosa. E a proposito della genesi di quella crisi è curioso un vuoto nella raccolta che va dal 1975 al 1982. Di Moro però Consolo parlerà nel ’93, in occasione dell’inchiesta che vide Andreotti indagato per l’omicidio Pecorelli, ricorrendo ancora una volta all’invettiva: «è venuto alla ribalta il misfatto più oscuro e inquietante consumato in quel 9 maggio 1978» (p. 130). Contraltare all’invettiva è l’ironia: conforto e risorsa. È questa la cifra di un intervento dal titolo suggestivo, Totò si n’è juto, che commenta l’arresto del Presidente della Regione Cuffaro; o di Poeti di Sicilia, un quadro ironico e pungente della classe politica al tempo di Berlusconi o Lombardo che chiude la raccolta con un verso di Buttitta: «Cu voli puisia venga ‘n Sicilia». Ma di fronte a questa varietà di temi e articoli, colpisce l’assenza di una cornice storica che offra una contestualizzazione sugli argomenti affrontati da Consolo. Il testo è affidato ad una Nota del curatore che, se risulta decisiva per conoscere i criteri editoriali, non è tuttavia esaustiva di un’operazione culturale come quella proposta, in cui emerge la peculiarità del saggismo di Consolo. Se «diverso è lo scrivere» cronache e riflessioni, al lavoro filologico avrebbe fatto da opportuno contrappunto una guida storico-critica rivolta al lettore, per ora spaesato dalla lettura di singoli episodi sulla mafia.
[ introduzione di L. Tassoni, Mimesis, Milano-Udine 2017 ]
La raccolta delle interviste di Milo De Angelis consente di riattraversarne l’opera dall’esordio di Somiglianze (1976) a Incontri e agguati (2015), di cui si ripercorrono o anticipano temi, circostanze, protagonisti. “La parola data” vale come invito, da parte dei diversi interlocutori, a fornire chiarimenti di poetica nelle più diverse direzioni, dalla verifica filologica all’aneddoto personale: le risposte fungono da vere e proprie razos, premessa completamento e prosecuzione di un’ininterrotta indagine sull’esistenza, svolta di preferenza in versi. Se Contini spiegava Dante con Dante, l’intervista è per Milo (curiosamente chiamato dai critici per nome) l’occasione di ribadire attraverso continue autocitazioni i motivi, le occasioni, le memorie da cui originano i singoli libri, pure così diversi l’uno dall’altro (dalla contratta oscurità dei primi alla narrazione in versi di Biografia sommaria o dell’ultimo). Motivi, occasioni, memorie che sono anche figure e oggetti totemici, dal “cortile” alla “sillaba”, col rinvio a un senso che si dispiega nella congiunzione tra attimo ed eterno: quel kairós che garantisce alla poesia di distinguersi dal fatto consueto, «cronaca, volantino». Il tempo, ripete Milo, è sovrastorico: da qui la necessità di dire tutto nel modo più indeterminato possibile, per avvicinarsi all’essenza. Al contempo, ogni memoria è restituita dai versi nella sua unicità, per sottrarre gli eventi al repertorio del luogo comune, del replicabile, del già detto. Così in Tema dell’addio (2005), threnos per la donna amata, l’affondo in quel misterioso e implacabile avvenimento che è la morte si fa tema universale, indagato con lucida empietà. Non stupisce che venga a emergere, come corollario di riflessioni assolutizzanti, un’idea artigianale e insieme sacrale dell’attività poetica: compito quotidiano, vocazione, esercizio che richiede dedizione, sacrificio e silenzio (idea che torna nel fondamentale testo di poetica in Tutte le poesie, 2017). Ed ecco, connesso al motivo della disciplina e dell’esercizio, l’altro tema tipicamente deangelisiano (insieme all’adolescenza come tempo “iniziale”) dello sport, del gesto atletico come sfida e teofania, nell’attimo in cui tutto avviene e si consuma. Se la squadra, patto di alleanza tra maschi, è il contesto in cui si avverte per la prima volta la fascinazione dell’essere compagni, l’apparizione delle atlete funge da rivelazione o apprendistato amoroso, battaglia lucreziana dei corpi che richiede una grande prova di resistenza fisica e psicologica: «il resto è roba da panchina, abbracciamenti» (così in una poesia di Somiglianze).
Tra i tanti dialoghi, in cui l’acribia delle domande potrebbe talvolta fuorviare dalla vera interrogazione di senso, spicca quello con le “ragazze cinesi”, che danno all’intervistato la possibilità di ridefinire la propria concezione della poesia come strumento di comunicazione e di relazione, malgrado la proverbiale oscurità. Il compito principale del poeta non è parlare chiaro e rivolgersi a tutti, ma sondare l’insondabile, avvicinarsi ai misteri dell’esistenza con «coscienza millimetrica degli abissi e lucido sguardo ad ampio raggio»: donde gli accostamenti inediti tra le cose, che non sono ossimori ma rivelazioni. La poesia, si raccomanda Milo, va letta senza note a piè di pagina, «nella sua splendida nudità». Non distante dal clima delle interviste, anzi suo presupposto o integrazione, è il video-doc allegato, Sulla punta di una matita, in cui Viviana Nicodemo, che ne firma soggetto e regia, rivive per immagini il percorso poetico di De Angelis in singoli capitoli scanditi esclusivamente dai rispettivi ambienti, fisici o ideali: il cortile, il Monferrato e l’infanzia, la scoperta adolescenziale di Milano e la poesia, gli incontri con le “anime vaganti”, il carcere. Il tutto alternando a primissimi piani campi lunghi e dettagli di luoghi prima che della poetica di Milo, della sua anima: ammesso che sia possibile distinguerle in chi ha scritto versi come «in noi giungerà l’universo, quel silenzio frontale dov’eravamo già stati».
[ Nino Aragno, Torino 2017 ]
Forse la cosa più difficile oggi, per chi scrive poesia, è credere nella lirica senza vergognarsene e senza cadere in atteggiamenti regressivi. Il primo atto di coraggio comporta l’investimento sull’io, sede dei conflitti veri e luogo in cui si elabora il senso; il secondo, il lavoro sugli istituti stessi della lirica, che forza i propri confini senza perdere la propria identità. Gabriel Del Sarto è sempre stato un poeta di questo tipo, e Il grande innocente, il suo terzo libro dopo I viali del 2003 e Sul vuoto del 2011, conferma la sua vocazione. Anzitutto, c’è una tendenza a raccontare che si manifesta su diversi piani. Il primo è quello in cui l’io mette in scena i momenti isolati della sua vita, fatta di storia familiare, di lavoro, di osservazione dell’intorno, di meditazione in forma di domanda più ancora che di asserzioni. Il secondo è un collegamento con i due libri precedenti, per disegnare quella che l’autore chiama una «trilogia del tempo», ma in un modo che tende a suggerire una sovrasignificazione per analogie e richiami, anziché un tracciato chiuso. Il terzo è quello di poemetti come Gli uffici, il cui protagonista è Paterson (con un ovvio omaggio a Williams), un professionista cinquantenne costruito solo in parte con materiali autobiografici, e Il grande innocente, dedicato al nonno partigiano morto pochi giorni dopo la nascita del padre del poeta: qui, l’io è un «narratore» coinvolto nella vicenda, ma si è messo da parte perseguendo quella tendenza al riserbo che già abita il primo livello. Il racconto è insomma una forza insieme di composizione e di scomposizione: unisce i pezzi, traccia le linee, e al tempo stesso spezza la storia dell’io e moltiplica le figure. L’io lirico è perciò una voce diffratta in una pluralità di persone. Non solo cede il campo, come abbiamo detto, ad altri con cui è pure implicato (Paterson, il nonno), ma dietro lo stesso nome Gabriel si riconoscono volti diversi: il poeta, l’angelo dell’annuncio, il protagonista dei Morti di Joyce, «altri Gabriel che la letteratura e la vita gli hanno fatto incontrare». Questa diffrazione del sé è il segno del privilegio e dell’umiltà di chi parla: il privilegio fondato, come vuole il canone romantico, sull’intensità con cui attraversa le vicende e su una ricerca di saggezza; e l’umiltà di chi si sa abitato da molti, e parla per quelli – cioè, in loro vece e a loro nome, assumendosene la responsabilità, ma anche a loro, come a individui finiti e distinti, che arginano l’egotismo lirico. L’io si muove così fra «la semplice verità della solitudine di tutti», la certezza di essere «dentro le storie sentite», la ricerca di un «valore collettivo». C’è un’etica della poesia in Del Sarto, e una religione dei rapporti umani: «Possa poi emergere una profonda e delicata pietà, / una nostalgia perplessa che ci accompagni, / quasi una preghiera». Del Sarto vede il «tempo corrotto», lo mette in relazione con un passato che può avere i tratti dell’eroismo, ma che è segnato dal lutto e dall’incompiutezza; vede anche la marginalità della poesia oggi, come conosce le diagnosi sul declino di un’idea alta di letteratura; ma combatte tenacemente, senza alzare la voce. Il grande innocente dice infatti che la tradizione del secondo Novecento non si è affatto esaurita, e che si può partire da lì per dire qualcosa di decisivo. La poesia di Del Sarto è piena dei paesaggi del presente, ma fa sempre un salto verso qualcosa di duraturo, cerca e raggiunge la memorabilità della grande lirica, pronuncia in modo credibile le parole. Aver introiettato sino in fondo una condizione storica senza arrendersi, conservare memoria del passato guardando all’oggi consente a Del Sarto di rinnovare il miracolo del modernismo: essere insieme autoconsapevole e autentico.
[ Einaudi, Torino 2017 ]
Ipotesi di una sconfitta è uno dei migliori romanzi italiani contemporanei. È un’opera evidentemente autobiografica e tuttavia il suo vero protagonista è il lavoro. La cosa non sorprende: sin dai suoi esordi narrativi – a partire dal racconto La legge degli elefanti (2001) e dai frammenti narrativi di Pausa caffè (2004) – Falco si è costantemente interessato «alla letteratura incentrata sul lavoro» (p. 277), alla rappresentazione degli effetti che le trasformazioni avvenute nel mondo del lavoro nell’età globale hanno provocato sui luoghi, le abitudini di vita, la comunicazione, il linguaggio. Ipotesi di una sconfitta ruota attorno alla ricerca di un posto di lavoro da parte dell’autore-personaggio e tuttavia, per quanto faccia procedere il romanzo, questa ricerca finisce anche per congelarlo in una struttura ripetitiva e dolorosamente circolare. Quella del lavoro è difatti una ricerca incessante e annichilente: da un lato, costringe ad ammassare senza posa, l’una dietro l’altra, una serie di esperienze e occupazioni precarie, occasionali, incoerenti; dall’altro lato, appare fin dal principio un’azione sganciata da qualsiasi aura salvifica, da ogni forma d’avventura, d’enfasi o aspirazione, una ricerca destinata inesorabilmente a non compiersi mai e a fallire. Il romanzo di Falco si può dividere idealmente in tre parti: la parte iniziale, dedicata alla figura del padre, alla sua carriera di autista all’Atm, al suo ricovero ospedaliero e alla morte; la parte centrale, in cui vengono narrate le varie occupazioni intraprese dall’autore dalla metà degli anni Ottanta in avanti, dal suo primo impiego saltuario, estivo, da studente, a diciassette anni, nel capannone di una ditta che «fa tante cose […] anche spillette da appuntare agli indumenti» (p. 59), fino all’assunzione in un’azienda di telefonia, in Veneto, «Ero diventato il mio login, il mio username, la mia password. Ero diventato GFALCO» (p. 250); la terza parte, infine (le ultime ottanta pagine), in cui l’autore, dopo aver scritto La gemella H stando chiuso per un anno e mezzo in uno sgabuzzino e dopo aver trascorso un periodo di convalescenza insieme a Sa, la compagna, in un camper, si dimette, esce dal mondo del lavoro – «dopo alcuni brevi decenni terminava la mia avventura di lavoratore» (p. 327), «sapevo di essere uscito per sempre dal mondo del lavoro» (p. 329) – e si dedica alla letteratura e alle scommesse sportive on line. Ma Ipotesi di una sconfitta non traccia nessuna parabola, non allude a nessuna evoluzione né, tanto meno, a qualche forma di salvezza. La brutalità del mondo del lavoro rispecchia la brutalità del mondo, una «cosa» diventata «impossibile» (p. 43). La stessa vita lavorativa del padre, per quanto ovattata da alcuni ricordi intimi e indelebili, e per quanto diversa perché solida – a tempo indeterminato – non è che un debole contraltare rispetto al «percorso accidentato» (p. 15) dell’autore; è un modello svanito o quanto meno sfuocato e altrettanto doloroso. Anche la parte finale non segna che un’apparente discontinuità, se è vero che l’autore, pur essendo ormai uno scrittore affermato che partecipa al Tour del Campiello e sale sul palco della Fenice, resta un «burocrate pezzente» (p. 357) che scommette ossessivamente, per un guadagno misero e senza tifare nessuno, in tuta, da casa. «Non era azzardo, ma fiction, simulazione totale, come l’azienda delle finte lettere, ciò da cui ero scappato» (p. 363). Falco è bravo a rappresentare la degradazione, il grigiore, l’oppressione del mondo del lavoro subordinato, il senso di vuoto che accompagna la ricerca di un lavoro qualunque, il peso della vita quotidiana nelle periferie, nei capannoni, ai margini delle superstrade. Attraverso uno stile paratattico e riflessivo, una sintassi franta, asciutta, ricca di catene anaforiche e di un lessico familiare elevato a metafora, Falco sa ricavare dei significati decisivi da avvenimenti qualunque, banali o apparentemente banali, dai luoghi, gli oggetti, gli incontri che descrive; sa straniare il mondo per mostrarlo com’è, come gli appare, senza rinunciare ai fatti, a raccontare.
[ a cura di D. Santarone, Donzelli, Roma 2017 ]
La riedizione di un classico della critica risalente a oltre quarant’anni fa, quale I poeti del Novecento di Franco Fortini (apparso nel 1977 entro La letteratura italiana diretta da Carlo Muscetta per Laterza per una fruizione prevalentemente universitaria), pone due ordini di questioni, strettamente intrecciate. La prima riguarda proprio il senso e la validità di tale operazione editoriale; la seconda l’opera in sé. Cominciamo, per comodità discorsiva, dalla seconda.
A suo tempo lo studio di Fortini, nei limiti cronologici ed entro le direttrici complessive dell’opera, costituì senza dubbio una delle ricostruzioni più innovative dell’esperienza poetica del Novecento, che qui prende le mosse dall’età espressionista. Assieme – e in parte in conflitto – alle antologie di Contini del 1968 e soprattutto di Sanguineti dell’anno successivo, pur molto diverse fra loro, quella di Fortini ha ridisegnato in maniera radicale l’immagine del Novecento poetico, o meglio del corposo spezzone che egli prende in esame. Il disegno che Fortini offre ai lettori dell’ultimo quarto di secolo scompone la pigra ricezione di molti decenni, ancora segnati dal crocianesimo e dall’egemonia della poesia “pura” e si tiene lontano dalle posizioni riferibili all’avanguardia. Tre soli esempi: la categoria di espressionismo, che Fortini usa in maniera ben diversa da Contini, legandola non alla sperimentazione linguistica ma alla collocazione sociale del poeta; il diverso e a suo modo provocatorio “montaggio” delle esperienze centrali della poesia novecentesca, entro la categoria di «esistenzialismo storico», che vede in sequenza, ad esempio, Montale, Luzi (scorporato dalla linea che va da Ungaretti agli ermetici) e Sereni; lo spazio e il rilievo conferiti all’esperienza della poesia in dialetto (con Tessa, Noventa e Pasolini in evidenza).
Per quanto riguarda il primo punto, credo che non si tratti del puro gusto, fra l’erudizione e la pietas, di additare un classico della critica. Mi pare che l’operazione obbedisca a una utile e stimolante opzione “politica”: negli anni del grande disincanto, della critica come tecnica o addirittura come governance dei saperi umanistici, della cultura come “saper fare”, riproporre le pagine di Fortini (che appaiono oggi ancor più dure e secche) appare una coraggiosa scelta. Ne va dato merito all’editore e al curatore, Donatello Santarone, che ha chiuso la pubblicazione con una densa ricostruzione del lavorio interno che porta al saggio, e che ripropone la necessità di una sua rilettura condotta con gli occhi dei nostri giorni. Entro questa rilettura va posto anche il saggio introduttivo di Pier Vincenzo Mengaldo, a suo tempo una lunga recensione, del 1979, che già individuava le proiezioni successive della ricostruzione di Fortini, rileggendola con indiscutibile acume ma anche, com’è giusto, secondo proprie categorie (segnaliamo solo la sottolineatura della figura del poeta come «testimone e martire», che comporterebbe la svalutazione delle scuole e delle tendenze).
Non è semplice dire se il libro possa avere ancor oggi una destinazione didattica. Certo, Fortini scrive quando diverse parabole poetiche sono ancora tutt’altro che concluse: quelle, ad esempio, di suoi sodali come Sereni, Luzi e Zanzotto, queste ultime destinate a svilupparsi ancora per diversi decenni, con raccolte di grande significatività; ma anche quella di Sanguineti, e perfino di Montale; e alcune valutazioni possono essere “datate” e vanno rivedute. Tuttavia l’acume del giudizio, l’impianto costruttivo, la profondità saggistica sono ancora così marcati e vivi da renderla un contributo critico, non solo un monumento-documento, ancor oggi proponibile anche come “guida” didattica e come strumento di pedagogia culturale.
[ a cura di P. Italia, G. Pinotti e C. Vela, Adelphi, Milano 2017 ]
Dopo uscite importanti e molto attese – fra cui risaltano Eros e Priapo e Accoppiamenti giudiziosi – Adelphi ripubblica La cognizione del dolore a cura di Paola Italia e Giorgio Pinotti. La nuova edizione riproduce fedelmente la quinta einaudiana, uscita nel giugno 1971 nella collana «Gli struzzi», con il quarto e quinto tratto della Seconda parte a concludere il romanzo e la poesia Autunno spostata in Appendice, assieme a L’Editore chiede venia del recupero chiamando in causa l’Autore e ai Chiarimenti indispensabili. È questa la scelta che si distacca più nettamente dall’edizione critica commentata di Emilio Manzotti per Einaudi nel 1987, mentre il Dossier genetico messo assieme da Italia e Pinotti riproduce (e riduce) materiale compositivo già pubblicato da Manzotti. Nonostante l’opportuna riproposizione di preziosi appunti gaddiani, la “nuova” Cognizione adelphiana non è un’edizione critica, ma i curatori ne auspicano l’allestimento per riordinare e portare alla luce i molti materiali ancora inediti, in parte consultabili nella Biblioteca Trivulziana di Milano. Come per le ripubblicazioni precedenti, l’edizione è chiusa da una ricca Nota al testo che ricostruisce le vicende compositive e redazionali del romanzo. Il lavoro di Paola Italia e Giorgio Pinotti nella Nota è puntuale e si sofferma su tre nuclei fondamentali: costruzione, eredità e vendita della casa di Longone; il rapporto tra Gadda e Adele Leher; le articolate vicende redazionali ed editoriali, dal 1938-1941 di «Letteratura» agli anni 1963, 1970, 1971 delle edizioni einaudiane. Su quest’ultimo punto, già la Nota al testo dell’adelphiana Accoppiamenti giudiziosi ci aveva abituati alla metodologia di lavoro: il balletto di promesse e reticenze gaddiane è seguito con attenzione e si fonda sia su materiale già noto che su testimonianze inedite. Ne viene fuori l’immagine di un Gadda nevrotico e timido, soggetto alle passioni-pressioni di Bonsanti, ma anche arricchito dai fondamentali rapporti con Roscioni, Citati e Contini. A questo aspetto più “pubblico”, corrisponde un’attenzione rivolta al privato, sia che si tratti delle ipoteche che gravano sulla «fottuta casa di campagna» di Longone, oppure degli infiniti sensi di colpa nei confronti della Madre. L’aggiunta di un testo su Adele in due redazioni, scritto da Gadda per la rivista «Oggi» e mai pubblicato, si inscrive in questo solco di memorie private riemerse tra fatiche e reticenze nel corso dei trent’anni della storia di questo romanzo. Nei passaggi della Nota al testo in cui le figure di Adele e della casa sono centrali, la chiave di lettura autobiografica risalta con maggiore decisione. La materia, come noto, è delicata e gli scivolamenti pericolosi: che la Cognizione sia un romanzo di continua riemersione di un vissuto personale intollerabile è fatto certo e ampiamente documentato, che sia anche altro oltre a questo (e alle intrecciate vicende editoriali) non è sempre percepibile. Manca, ad esempio, una riflessione sull’ampissima intertestualità, aspetto molto evidenziato da Manzotti sia nell’edizione critica del 1987 che nei successivi interventi di introduzione al romanzo. E manca una prospettiva interpretativa che consenta di affrontare nodi teorici importanti come, ad esempio, il rapporto tra la Cognizione e i suoi frammenti che, nel corso degli anni, hanno seguito altre strade in raccolte come L’Adalgisa e Accoppiamenti giudiziosi. L’effetto finale, dunque, è quello di una ricostruzione minuziosa e approfondita, che si sposta solo raramente sull’interpretazione.
[ a cura di P. Italia e G. Pinotti, Adelphi, Milano 2017 ]
[ con uno scritto di B. Montale, a cura di M.A. Grignani e G.B. Boccardo, San Marco dei Giustiniani, Genova 2017 ]
La raffinatezza del libro è la veste giusta per l’affettuosa intimità di queste lettere. Perché la voce di Montale appena la tocchi fa scintille: anche nelle sue più ineffabili letterine c’è la zampata del leone, un lampo di sarcasmo, ironia e pena, paradossale intelligenza umana e umorismo. Ottimi i curatori: annotazione e prefazione impeccabili. Si deve alla fedeltà della Gina, che ha conservato schizzi e foglietti per lei e le lettere affidatele dalla Mosca, un rispettoso dono che abbiamo la fortuna di condividere.
Ma rileggiamo prima, dalle lettere a Contini, quella del 29 maggio ’45, con la Mosca e, in filigrana, la Ballata uscita sul «Ponte» nonché Gli ultimi spari: «Lunga emergenza, guai d’ogni genere, salto dei ponti, bombardamenti d’ogni calibro, fuga di Gadda, fame, inopia (direbbe Macrì) di H2O, freddo, la Mosca ammalata in ottobre e tuttora ingessata a letto; due mesi li abbiamo passati in una clinica dove lei era censée di esalar l’ultimo respiro; invece una notte (suppergiù quella del trapasso) s’è alzata, ha ridacchiato, ha mangiato fichi secchi, bevuto port wine e il giorno dopo la catastrofe era esclusa». Eccoci di colpo al lessico privato di Montale.
La firma «merlo MAGGOTTINO» appare qui nella lettera del 1 giugno 1948: «dal tuo / blackbird, maggottino», merlo che si ciba di larve, esche, vermi (maggot). A giustificazione dell’ansia della gelosissima hellish fly, la mosca infernale, leggiamo qui le tre poesie inglesi del ’48 e Trascolorando (1971), frutti poetici e tracce della breve passione del merlo maggottino per la misteriosa impiegata inglese. Maggot è poi il bruco il cui lucore chiude Il gallo cedrone (1949) per la rivista «Mandrake» di Boyars (Montale, mi disse Boyars a Londra, il 13 giugno aveva suggerito il titolo Valtellina Heath-Cock), tradotto ma non pubblicato da Elemire Zolla.
Montale e Drusilla dovevano avere riso moltissimo insieme, con la loro lingua privata. Un se stesso fragile, debole merlo vermifago che soffre per la lontananza di lei, per il freddo degli alberghi della Milano del dopoguerra, per il caldo della Siria: ma pronto a incoraggiarla, a dichiararle il suo affetto e la sua fedeltà, a farla ridere. Il 3 dicembre 1948 da Damasco: «Ti ho comprato un pezzo di broccato a Damasco, 2 metri per una giacchettina. / V(ittore) B(ranca) ha parlato in francese con una pronunzia tale che tutti si sono levati la cuffia con orrore e disgusto».
Intimità: infinita pena anche, per la malattia di lei e per il suo essere, oltre che una hellish fly, pur sempre una Mosquita, una moschetta, una Griguetta, una moschina, una moscoletta, una moscolina, una muscolina, una moscerilla, un musclin qui quin, un muskin kuin kuin: tenerezza e comprensione, e insieme richiesta di aiuto per sopravvivere. Si fa un gran parlare di treni e di appuntamenti al treno, di prossimi incontri all’arrivo del treno, al solito posto: «Scrutavo le carriole dei facchini se mai ci fosse dentro / il tuo bagaglio, e tu dietro, in ritardo».
La seconda parte è un omaggio alla guardiana della serenità della coppia e poi del signor Montale: la Gina, che ha regalato tutto a Pavia in un quaderno rosso di computisteria. Disegni del merlo sul ramo, bigliettini con richieste di acquisto di Giubek, schizzi parlanti di luoghi e persone, la tazzina di caffè sul tavolo tondo con l’orologio e la poesiola: «Alla carissima / Gina Tiossi / il povero autore degli Ossi / che dipinse col caffè». Bianca Montale, che ben conosceva il ruolo della governante, ha scritto un bel ricordo di lei.
Ho un gran desiderio di rivederti, dichiara spesso Montale. Si veda il dattiloscritto dei Nascondigli: la conferma della propria esistenza, anni dopo, legata alle “carabattole” di lei: «Quando non sono certo di essere vivo / la certezza è a due passi ma costa pena / ritrovarli gli oggetti, una pipa, il cagnuccio / di legno di mia moglie […] / Complottando si sono organizzati / per sostenermi, sanno più di me / il filo che li lega a chi vorrebbe / e non osa disfarsene». Ed è forse questo il senso del libro.
[ a cura di F. Fiorentino, fotografie di A. Gómez de Tuddo, L’orma, Roma 2017 ]
Heiner Müller (1929-1995), massimo drammaturgo e poeta tedesco dopo Brecht (i suoi Werke sono pubblicati da Suhrkamp in 13 volumi, 1998-2011), è uno dei pochi scrittori del secondo novecento che meriterebbero un «Meridiano», e invece la sua opera è pressoché assente dal nostro repertorio. Dopo la fine della benemerita Ubulibri di Franco Quadri, che aveva portato in Italia un’ampia selezione del Teatro (4 voll., 1982-1991), le straordinarie interviste di Tutti gli errori (1994) e l’eccellente antologia delle poesie scritte dopo l’89, curata da Peter Kammerer col titolo L’invenzione del silenzio (1996) – titoli oggi tutti irreperibili –, i libri apparsi negli ultimi vent’anni si contano sulle dita di una mano e, se si eccettua La rovina dell’egoista Johann Fatzer pubblicato da Einaudi nel 2007, si devono all’iniziativa di piccole, coraggiose case editrici: Libri Scheiwiller, che nel 2007 pubblica l’antologia poetica Non scriverai più a mano, tradotta da Anna Maria Carpi; Zandonai, che nel 2010 propone l’autobiografia Guerra senza battaglia; e ora L’orma, che torna finalmente al teatro con un potente testo del 1984 mai prima tradotto: Anatomia Tito Fall of Rome.
Il dramma si presenta in forma di «commento» a una delle tragedie più pulp di Shakespeare, il Titus Andonicus, il cui eroe eponimo, integerrimo generale romano trionfatore sui Goti, vede la sua famiglia straziata dalla vendetta della regina sconfitta, Tamora, alla quale ha spietatamente ucciso un figlio. Un’escalation di crudeltà senza eguali nel teatro elisabettiano, parossistica fino al ridicolo: i ben 14 assassinii, di cui nove rappresentati in scena, sono conditi da sei mutilazioni, una sepoltura da vivo, uno stupro e un caso di cannibalismo. Il tutto culmina infatti nella scena – ricalcata sulla storia di Filomela che Ovidio racconta nelle Metamorfosi – in cui la figlia di Tito, Lavinia, viene prima sverginata, poi mutilata della lingua e delle mani dai figli di Tamora, Chirone e Demetrio; i quali a loro volta vengono uccisi da Tito, che – novello Tieste, qui probabilmente attraverso la mediazione di Seneca – li imbandisce in pasto alla madre.
Questo trionfo dell’anatomia, che già in Shakespeare è pretesto per un dramma sul degrado della civiltà politica di una nazione, viene a sua volta anatomizzato da Müller, che lo traduce, taglia e ricuce, inscrivendo il Fall of Rome nell’odierna dialettica di un occidente imperialista che, schiacciando ciecamente il sud del mondo, ne provoca l’altrettanto cieca rivalsa. Nel «commento» del coro, distinto dal caratteristico maiuscolo mülleriano, Roma è «LA PUTTANA DELLE MULTINAZIONALI» che dopo la vittoria di Tito «ATTENDE IL BOTTINO SCHIAVI PER / IL MERCATO DEL LAVORO PER I BORDELLI CARNE FRESCA», mentre i Goti «CHE PREMONO DALLA FORESTA / E DALLA STEPPA VERSO IL TROGOLO DELLE CITTÀ» sono i dominati, i perdenti della storia: «Il Goto è un negro è un ebreo». La sanguinosa vendetta di Tamora, orchestrata dal suo amante «negro», il Calibano ante litteram Aronne, non può non far pensare, oggi, all’11 settembre o al Bataclan, ma l’efferatezza di Tito richiama al contempo le guerre neocoloniali in Africa, Medio oriente, America latina. Come già nella Missione (1979) e in Riva abbandonata (1982), Müller scandaglia senza sconti la cattiva coscienza dell’Occidente, fino a prefigurarne la «caduta»: «I GOTI INCHIODANO LA CAPITALE DEL MONDO / CON UNA TEMPESTA DI FRECCE ALLA CROCE DEL SUD / APPLAUDITI SILENZIOSAMENTE DALLE FOSSE COMUNI».
Per scongiurare questo finale, scrive Müller nello splendido discorso Shakespeare una differenza (1988) riportato in appendice, occorre interrompere «l’eterno ritorno dell’identico», la mortifera serie di variazioni shakespeariane che la storia mette in scena, e introdurre «una differenza». Se Amleto non c’è riuscito, Prospero «almeno spezza la sua bacchetta, replica all’accusa attuale di Calibano, il nuovo lettore di Shakespeare, a tutta la cultura precedente: YOU TAUGHT ME LANGUAGE AND MY PROFIT ON’T / IS I KNOW HOW TO CURSE».
[ trad. it. di L. Anzolin, L. Macedonio, V. Perna e T. Siciliano, Lindau, Torino 2017 ]
In un cimitero sovrappopolato in Connemara, sulla costa Ovest dell’Irlanda, Caitríona Pháidín è stata appena seppellita e scopre con colorito disappunto di non essere nel lotto da una sterlina, né tantomeno di avere una bella croce di pietra a segnalare la sua presenza. Da qui ha inizio un chiacchiericcio ininterrotto (se non dai brevi interludi della stentorea “tromba del cimitero”) che coinvolge tutti i morti, più o meno freschi, del cimitero. È questa, in breve, la non-trama del sensazionale romanzo di Máirtín Ó Cadhain, il più grande romanziere in gaelico del secolo, socialista e indipendentista irlandese che tra il 1939 e il 1944 fu anche rinchiuso in un campo di prigionia per dissidenti.
Pubblicato in irlandese nel 1949 e (quasi) mai tradotto in inglese fino al 2015, Parole nella polvere ha vissuto negli ultimi anni una vera e propria “risurrezione”. Alla prima traduzione del 2015 ne è seguita infatti un’altra, più rigorosa, nel 2016, e pubblicata dallo stesso editore: Yale UP in collaborazione con Cló Iar-Chonnacht. L’intento appare quello di voler innescare un dibattito sulla traduzione del romanzo e, più in generale, su quanto poco desiderabile sia una singola e “perfetta” traduzione di qualsiasi romanzo, men che meno di un’opera inventiva come questa. Tuttavia, che Lindau, grazie a un encomiabile squadra di quattro traduttori, abbia pensato di tradurre l’opera basandosi sulle due versioni inglesi lascia perplessi. Se da un lato, infatti, il multilinguismo del romanzo sembra ben rappresentato dalla felice convivenza polifonica delle lingue e dei registri di questa cupa e briosa compagnia di ciarlieri inumati, al lettore in più punti viene il dubbio di quale risultato avrebbe potuto dare una traduzione fatta a partire dal testo irlandese.
Il coro dei traduttori, nonostante questo, se la cava egregiamente con un romanzo corale come questo. Parole nella polvere (titolo allitterante come il Cré na Cille originale) è infatti un’opera modernista in cui le voci si accavallano senza alcun narratore a riordinarle in una narrazione coerente. Se a molti ha ricordato l’Antologia di Spoon River, per via senz’altro della condizione ultraterrena (e sotterranea) dei personaggi, l’incrocio continuo di voci quasi incorporee fa pensare forse di più a Le onde di Woolf oppure a La coda di Sorokin, con il loro insistere sulla ripetitività delle azioni e delle parole. Ed è proprio il trattamento del tempo a rendere Parole nella polvere un romanzo al tempo stesso coinvolgente e noioso, divertente e meccanico. L’orizzonte verso il quale tendono le storie, o meglio i ricordi, non è infatti quello tradizionale dei romanzi: la risoluzione è già avvenuta, il futuro è stato cancellato e l’intero romanzo appare spesso come un disperato tentativo di trovare una spinta, tenacemente vitale, nell’atto stesso di raccontarsi. Così, pur morta, Caitríona continua a sparlare della sorella Nell, a seminare zizzania e sbraitare, e così anche gli altri continuano i litigi, le illusioni, le prese in giro. C’è qualcosa di disperato e di umano in questo continuo ritorno, in questa coazione dei protagonisti a restare attaccati alle meschinità della vita. E ogni personaggio ha il suo ritmo, dato dalla ripetizione continua di vere e proprie marche sintattiche e lessicali, che aiuta, se non a distinguerli con facilità, quantomeno a sentirli familiari. Si tratta di un espediente molto efficace anche nella traduzione italiana, che rispetta la natura “radiofonica” di un testo piacevolmente dispersivo, ma mai labirintico, che si sviluppa in un garbuglio e per accumulo. Secondo Declan Kiberd i romanzi irlandesi sono come le città dell’isola: degli agglomerati di villaggi più che vere e proprie città. E così i romanzi sarebbero agglomerati di storie, unite per vicinanza e associazione, ma mai contenute da una trama unitaria. Questo è senz’altro vero per Parole nella polvere, il romanzo di una folla immobile e vivace, riluttante e strenuamente in bilico tra la vita e la morte come le comunità gaeliche che rappresenta.
[ Anacharsis, Toulouse 2018 ]
Resa celebre dall’omonima opera di Georges Bizet, Carmen di Prosper Mérimée è una novella in quattro atti dove si immagina di produrre a beneficio di un uditorio il resoconto di un viaggio in Spagna, presumibilmente avvenuto nel 1830. Il fulcro del racconto – e dei numerosi adattamenti cinematografici e teatrali che ne sono stati tratti nel corso del tempo – è la burrascosa relazione sentimentale tra l’irruente Don José Navarro, in fuga dalla legge per aver ucciso un uomo durante una rissa, e la seducente Carmen, una zingara in grado di predire il futuro altrui, ma incapace di mettersi in guardia dal proprio. Analizzati nei dettagli, i comportamenti di questi due personaggi – che Mérimée afferma a più riprese di aver incontrato per davvero e dei quali sembra sforzarsi di esplorare la psicologia – finiscono col rappresentare, pagina dopo pagina e come per metonimia, modelli antitetici di uno stesso “stare al mondo”. È quanto affascina e disturba Sophie Rabau, che in un saggio scritto di getto, a latere di corsi universitari volti ad approfondire gli stessi temi, s’impegna, da un lato, a decostruire i paradigmi sociali che paiono aver influenzato la definizione di ciascuno di questi due “caratteri”, dall’altro, a suggerire delle alternative valide all’esito discorsivo di una vicenda che lascia intravedere, seppur in filigrana, l’eventualità di una risoluzione meno drammatica – quantomeno per Carmen.
«Si sono da sempre chiamate tragedie le storie che non si pensava di poter raccontare altrimenti», afferma Rabau con piglio provocatorio. A ben guardare, il progetto del suo nuovo libro – che intrattiene sul piano teorico un rapporto di complementarità perfetta col precedente B. comme Homère (2016) – ruota tutto intorno a questo postulato, del quale si tende a misurare non solo la complessità latente, ma anche e soprattutto la pertinenza, nel clima eteronormato e patriarcale di cui Mérimée, suo malgrado, si è fatto tramite. In questo caso non si tratta di riscrivere, reinventare, rivisitare; ma piuttosto di operare una serie di variazioni interpretative sul testo di partenza, col duplice obiettivo di suggerire modalità di ricezione diverse da quelle a cui siamo stati abituati e seminare il dubbio in merito a scelte diegetiche che avrebbero potuto configurarsi in altro modo, se solo le circostanze lo avessero permesso. Lungi dall’assecondare tentazioni di tipo anacronistico, Rabau insiste sul fatto che, a discapito dello scarto che separa noi contemporanei dall’ambito di produzione dell’opera in esame, alcune delle “trappole narrative” in cui è incappato Mérimée non hanno smesso, a più di un secolo di distanza, di mietere le loro vittime; non senza ironia, le sue analisi ci invitano ad affrontare i rapporti tra passato e presente mettendo l’accento sulle linee di continuità, anziché su ogni presunta “cesura epocale”.
A livello formale, la prosa di Rabau si caratterizza per un tono spigliato, a tratti giornalistico – di cui quanti hanno seguito gli interventi dell’autrice apparsi negli ultimi anni sulla rivista «Vacarme» non potranno non riconoscere la verve quasi pamphlettistica. Rispetto al senso dell’umorismo di cui fanno prova, esso contribuisce a meglio esplicitare le finalità di determinati argomenti, così come a desacralizzare i vizi di una certa scrittura accademica, colpevole anch’essa di aver alimentato i luoghi comuni, istituzionalizzando ulteriormente la norma, invece di metterla in discussione, se necessario anche in maniera radicale. Che il riso “protegga” Rabau sembra suggerirlo ripetutamente, soprattutto quando si esprime in merito al potenziale comico di Carmen – troppo spesso subordinato alle sventure fintamente ineluttabili che le sono state cucite addosso –; che il riso non solo protegga, ma addirittura “salvi”, contribuendo a palesare gli artifici e a metterne in evidenza i dispositivi di funzionamento, è quel che traspare fra le righe di una monografia pensata sia per instaurare un “corpo a corpo” con la tradizione, sia per rinnovare le ragioni ancora suscettibili, oggi, di legittimare un tale dialogo.
[ Mimesis, Milano-Udine 2017 ]
Confrontarsi con un personaggio che rifiuta il lavoro «ci costringe a considerarlo nella sua irriducibile e spoglia natura»: il non lavoratore svela l’umano nella sua «semplice-presenza», fa emergere «una dimensione primitiva dell’essere umano» (p. 167). Bellini descrive il personaggio che rifiuta di agire attraverso il lavoro nel modo in cui Heidegger, in Essere e Tempo, descrive gli oggetti inutilizzabili: come questi ultimi, anche Bartleby (Melville), James Wait (il “nigger” di Conrad) e Murphy (Beckett) – soggetti che non funzionano – provocano «un identico stupore, un’identica sensazione di avere a che fare con qualcosa di irriducibile a un ordine predeterminato» (p. 166). La prima convergenza fra i tre personaggi, ciò che li rende stupefacenti e irriducibili, è il loro estremismo: saldi, disarmanti e potenti a un estremo, come nella logica della non preferenza assoluta di Bartleby, nella forza seduttrice della simulazione di Wait, nel fluire di forme possibili nel mondo autistico e sigillato di Murphy, ma anche fragili e impotenti, all’estremo opposto, quando Bartleby si mineralizza, Wait cade vittima della propria simulazione, Murphy impazzisce e muore. Bellini ricava una seconda convergenza fra i tre personaggi riflettendo sul concetto di rifiuto. Bartleby, Wait e Murphy non solo si rifiutano di agire ma risultano a loro volta dei rifiuti (waste): sono soggetti antifunzionali, ingombranti, oggetti “desueti” (Bellini si rifà qui esplicitamente al celebre saggio di Orlando) che non possono essere metabolizzati da un sistema votato all’utile, allo scambio e all’efficienza. Bartleby diventa a lungo andare una lettera morta come quelle che scrive perché si rivela inassimilabile; Wait è fin dal principio un peso contagioso, una zolla di terra malata che si oppone alla purezza e alla positività del mare; le ceneri di Murphy, disperse per errore in un pub, vengono spazzate via con altri rifiuti. La terza somiglianza che Bellini rintraccia lo spinge ad avanzare un’ipotesi sensata e passibile di ulteriori approfondimenti: se è vero che tutti e tre i personaggi affascinano e ammaliano chi li circonda (Bartleby magnetizza il suo datore di lavoro, Wait l’equipaggio del “Narcissus”, Murphy ogni altro personaggio) questa loro misteriosa forza d’attrazione (che si esercita anzitutto sul lettore) evoca la figura dell’idiota, di un uomo, con l’efficace formula di Maria Zambrano, «che non si comporta umanamente» bensì come «un puro abitante del pianeta» (España, Sueño y Verdad, 2012, p. 222). Pur essendo emarginati e trattati come estranei, gli idioti testimoniano e incarnano «quella passività da cui tutti veniamo e verso la quale tutti siamo destinati a tornare» (p. 176). Ma ulteriori somiglianze emergono osservando il mondo in cui questi personaggi abitano. La rappresentazione di spazi chiusi, misurati e oppressivamente modulari, indice di «un certo pathos della superficie» (p. 177) testimonia metaforicamente l’incapacità di azione che segna il carattere e il destino dei tre personaggi. Il libro di Bellini riesce a coniugare una chiara e puntuale analisi testuale con il significato filosofico che il lavoro e il rifiuto del lavoro assumono nelle opere prese in esame e più in generale nell’opera di Melville, Conrad e Beckett. Ha il merito di indagare, storicizzandolo, il significato simbolico o allegorico del rifiuto di agire (esemplare la lettura del Nigger in rapporto alla crisi del mondo premoderno e dell’idea di comunità organica) e di dare un’interpretazione complessiva del significato che il non lavoro assume nell’opera dei tre autori considerati. Come scrive Giovanna Borradori nell’introduzione, la Saggezza dei pigri – degli eroi di Melville, Conrad e Beckett – ci interroga non solo sul legame moderno tra l’azione e l’identità sociale, siglato dall’annuncio del Faust di Goethe («im Anfang war die Tat!»), ma anche e soprattutto sul significato che assume oggi, di fronte alla riconfigurazione della vita messa in atto dal neoliberalismo, l’«incessante esortazione» a «investire su noi stessi» (p. 17).
[ trad. it. di F. Cesari, Carocci, Roma 2017 ]
In Lo sguardo realista Peter Brooks legge l’Ottocento di Balzac e Flaubert con una sensibilità tutta modernista e una consapevolezza, all’opposto, volutamente postmoderna («noi postmoderni» è espressione che ritorna nel testo). Il risultato è quello di saper distinguere tre grandi arcate della modernità – Ottocento, modernismo e postmoderno – per poi fonderle e incrociarle in un discorso unitario. Del resto, è l’assunto del testo, non si può leggere il passato se non con l’ottica del presente e la cognizione dei grandi momenti di frattura (il modernismo).
Tra il capitolo teorico di apertura e quello conclusivo, curvato sulle prospettive future, trovano spazio dieci capitoli, che procedono con metodo auerbachiano: Balzac, Flaubert, Dickens, George Eliot, Zola, la città in Balzac, Zola e Gissing, due incursioni pittoriche (Manet e Courbet), il modernismo.
Secondo la tesi di Brooks, Balzac e Flaubert descri-vono la crisi del linguaggio e dei segni. I loro personaggi, infatti, vivono in mondi dei quali non comprendono il codice comunicativo: per questo sono destinati al fallimento, alla sofferenza, alla gaffe. È soprattutto Lucien de Rubempré, nelle Illusioni perdute, il prototipo di questo spaesamento: «non intenderà mai appieno l’indefinito sistema dei segni» (p. 46) che regna a Parigi. «Dovunque si trovi, Lucien è confuso e ostacolato da un linguaggio che credeva di padroneggiare». È insomma Balzac a rappresentare un codice che non si struttura più sul linguaggio referenziale, in cui al significante corrisponde un significato, ma ha zone di ambiguità e di non detto. Flaubert fa suo l’assunto, e su questo lascia naufragare Rodolphe, che «non rie-sce a riempire le lacune del linguaggio con la propria immaginazione». In fondo, sostiene Brooks, Madame Bovary «propone di guardare al linguaggio come a uno strumento danneggiato, inadeguato all’espressione della passione umana».
Paradossalmente il realismo – declinato da Brooks come esigenza di realtà – nasce da questa impasse del linguaggio. Ciò che non può essere detto va mostrato: la vista arriva lì dove la comprensione delle parole si ferma. Per questo motivo il realismo è prevalentemente visivo: si affida a oggetti, corpi, case, i quali a loro volta hanno un potere simbolico altrimenti intraducibile. Ed è ciò che non comprende Lucien, convinto che un nome nobiliare conti più di un bell’abito. Mentre marito e amante possono conoscere Emma «solamente attraverso i dettagli e gli accessori che caratterizzano la sua bellezza»; e forse non solo la caratterizzano ma addirittura la costituiscono.
C’è però un paradosso: quegli stessi oggetti che costituiscono le nuove forme comunicative della modernità capitalista non possono che essere rappresentati con parole. Sicché sempre all’interno di un sistema di segni imperfetto ci si trova. Questo è ciò che comprendono i modernisti: «Le inverosimiglianze di Balzac divengono, in Proust, una sorta di pietra di paragone, e stanno a indicare come la narrativa, persino quella che si propone di essere realista, abbia bisogno di produrre simboli e rappresentazioni del reale, senza limitarsi a riprodurlo in modo fotografico». Insomma per Brooks la stagione del modernismo si impernia su una sensibilità nuova, che proprio nel crack tra cose e parole trova la sua pietra angolare. Ma al tempo stesso questa medesima stagione fa proprie le scoperte di Balzac, Flaubert e Zola e rende l’ambiguità del linguaggio non solo un tema, ma anche l’elemento principe della costruzione romanzesca. Per questo motivo Brooks può af-fermare che «l’Ulisse non costituisce un ripudio del realismo, ma un suo ulteriore sviluppo».
Il realismo dunque nasce nel momento in cui il reale si rivela inafferrabile. La nostra insaziabile sete di realtà, anche quella di oggi, risponde sempre allo stesso deficit. Per questo motivo non è il caso di decre-tarne la morte: «l’impulso dal quale è nato il realismo all’interno del romanzo va ancora avanti, e senza dubbio continuerà in futuro. Il romanzo realista fa parte dei progetti elaborati dalla curiosità umana: è un modo di conoscere e modellare il mondo».
[ Carocci, Roma 2017 ]
Con il saggio La tentazione dell’altro Stefano Brugnolo fa il punto su un tema trasversale alla grande letteratura degli ultimi due secoli: quello del gone native, cioè dell’uomo occidentale che si è avventurato in una realtà geo-antropologica totalmente “altra” (l’Africa, l’estremo oriente) e ne è uscito sconvolto, si è perso, ha abbandonato il suo modo di vita civilizzato e moderno per assimilare i costumi “arretrati” della nuova comunità elettiva.
Di questo personaggio Brugnolo trova esempi non solo, com’è facile immaginare, in Melville, Stevenson, Kipling, Conrad e nella letteratura coloniale anglofona, ma anche in autori meno studiati da questo punto di vista, come Thomas Mann, Malraux, Flaiano e Borges, e in nostri contemporanei come Coetzee, Vargas Llosa, Houellebecq. Una lettura ingenua dei loro testi potrebbe indurre un fautore acritico dei colonial studies alla falsa conclusione di una realtà endemica e comune, fatta di torme di coloni e avventurieri pentiti, stanchi dell’Occidente, quasi come se la loro insofferenza fosse il presagio (già a fine Ottocento) della futura crisi del colonialismo. E invece no. Quegli scrittori, argomenta persuasivamente Brugnolo, reagiscono alla tendenza tutta occidentale a razionalizzare il mondo e a uniformarne costumi e stili di vita; e nella figura del gone native vedono, più che un “tipo” socialmente diffuso, un simbolo di resistenza al processo di modernizzazione, al pari del soprannaturale, della follia, della sessualità sfrenata, dell’oggetto desueto: «Rappresentando quanto la ratio funzionale del progresso tendeva a eliminare o a regolamentare, la letteratura ha cercato di suggerirci alcune verità nascoste sul nostro mondo. È nell’anomalo, nel rifiutato, nell’escluso, nel dimenticato, nel rimorso che gli scrittori hanno cercato queste verità» (pp. 17-18).
Le categorie interpretative cui Brugnolo ricorre e che, in larga misura, contribuisce a definire in modo originale benché in sostanziale continuità con i suoi modelli (Francesco Orlando in primis), sono categorie forti. E sono talmente persuasive da indurlo, in più di un’occasione, a includere rischiosamente nell’analisi anche testi che, a rigore, non sarebbero riconducibili né al tema del gone native (Lo strano caso del dottor Jakyll e Mr Hyde di Stevenson, ad esempio, o il Viaggio al fondo della notte di Céline) né a quello, simmetrico ma altrettanto interessante, del gone civilized (Una relazione per un’accademia di Kafka, dove il selvaggio non è un essere umano ma una scimmia). Forse perché, conclude l’autore, «l’Altro è dappertutto e non è da nessuna parte» (p. 285). Ma nonostante il suo carattere in qualche caso forse troppo generosamente inclusivo, nell’insieme il discorso di Brugnolo tiene perfettamente. E convince. Non solo perché evita la dispersione (rischio assai frequente della critica tematica), ma perché costituisce un oggettivo passo avanti nel campo degli studi culturali, troppo spesso soffocati tra il piatto documentarismo e l’ingenua rivendicazione politica. Intendiamoci, in questo libro una prospettiva politica c’è, ed è chiarissima, ma è sempre mediata da un’analisi tematica finissima, che rifiuta il catalogo inerte per costruire paradigmi testuali intelligenti, per tracciare, nella folta serie di esempi testuali, analogie e opposizioni utili a comprendere meglio i procedimenti di cui l’immaginazione letteraria si serve per confrontarsi con la realtà.
[ a cura di C. Cao e M. Guglielmi, Franco Cesati Editore, Firenze 2017 ]
Il volume, nato nell’ambito di un progetto di ricerca finanziato dalla Regione Sardegna, delinea «da Sofocle a Elena Ferrante» (p. 11) una ricca panoramica di case studies affiancando alla metodologia critico-letteraria contributi di area psicoanalitica, sociologica, culturalista e storico-artistica. Molteplici i motivi di interesse che da tale impostazione discendono, a partire dall’obiettivo, enunciato nell’Introduzione, di rendere conto della svolta impressa al dibattito da studiose e attiviste femministe che, sin dall’antologia Sisterhood is Powerful (1970), hanno trasposto il significato letterale della sorellanza come consanguineità familiare in un’idea di sorellanza come pratica comunitaria «amicale, professionale, artistica, politica» (p. 27) fra donne. La duplicità del significato della sorella è in realtà antica, presente anche in Dante, come mostra Ortu, ma è evidente la diversa dimensione militante degli ultimi decenni, che il volume vuole restituire riservando a ciascun ramo del tema una specifica sezione.
La prima parte, Sorelle, risponde a un altro obiettivo dichiarato: recuperare le «ambivalenze» legate a una visione della sorellanza come «particolare categoria di doppio» (pp. 12-13). In questa direzione, è compito dei contributi di apertura di Fornaro e Bruzzone introdurre le due tipologie sororali archetipiche per eccellenza: la sorellanza conflittuale, riconducibile al rapporto di Antigone e Ismene, e la sorellanza solidale, che fa perno sulla relazione di Didone e Anna soror. Alla luce di questi due modelli ha preso vita una millenaria rete di costanti e varianti che ha spesso declinato la sororità in un’affettività lacerata, come si vede in Atonement di Ian Mc Ewan e L’autre fille di Annie Ernaux, presi in esame da Cao e Vassarri, ma anche nell’opera di Grazia Deledda, analizzata da Caocci. In questo orizzonte trova posto la variante della sorellastra -– esemplare in Cenerentola, come mostra Wozniac –, nella quale si riconoscono anche risvolti psicoanalitici legati alla relazione verticale con la madre, indagati da Sassone.
La seconda sezione del libro, Sorellanza, è più decisamente gender oriented, mirando a ripercorrere le modalità e le coordinate storiche in cui la relazione solidale fra sorelle si è espressa in termini sociali e culturali più ampi, innanzitutto in quella che potrebbe descrivere come una sorta di “genea-logia sororale”, data dalla circolazione comunitaria e consapevole di saperi femminili: dalle relazioni di carattere encomiastico delle poetesse italiane del Cinquecento studiate da Farnetti all’incidenza delle donne nel sistema editoriale inglese dell’inizio del secolo XIX, oggetto del saggio di Saglia, sino alle utopie inglesi e nordamericane di fine Ottocento trattate da Federici. Quest’ultimo caso costituisce una mise en abyme e al contempo un’anticipazione della differenza femminile, destinata nella Seconda Ondata del femminismo a prendere le sembianze dell’autocoscienza e della cura, poste a confronto da Vacchelli con la scrittura collettiva, l’embodiment come interazione di mente e corpo e l’intersezionalità come convivenza di diverse identità sociali in una stessa soggettività. Un’altra linea tematica riguarda poi le pratiche creative della sisterhood: se Campus ha indagato performance e installazioni di artiste chiave degli ultimi cinquanta anni, da Judy Chicago a Marina Abramovic´, Lucamante e Guglielmi hanno invece preso in esame il versante letterario, concentrandosi sul post-femminismo di Elena Ferrante e sulla connessione di spazialità, femminile e sorellanza in Valeria Parrella e Francesca Comencini.
Queste sono solo alcune delle linee tematiche di un volume dalla tessitura in realtà molto fitta e suggestiva che, sebbene si muova in un orizzonte più accademico che militante, mette in campo una passione intellettuale di cui non si può che sottolineare la necessità in un momento di sconfortante riflusso ideologico come quello in corso.
[ Carocci, Roma 2017 ]
Il sobrio sottotitolo di questo saggio potrebbe sviare qualche lettore osservante delle partizioni disciplinari: Novel di Riccardo Capoferro è invece un’indagine che si rivolge a tutti gli studiosi del romanzo, e che torna ancora una volta alle origini di questo genere letterario per rileggere schemi interpretativi da tempo consolidati.
In controtendenza rispetto alle trattazioni contemporanee che ne rintracciano le origini nell’antichità (Doody, Pavel), Capoferro riconnette l’emergere del genere romanzo alla frattura storica che l’Europa (e l’Inghilterra per prima) conosce nel corso del diciottesimo secolo, posizionandosi dunque all’interno della tradizione critica che sottolinea l’interdipendenza tra romanzo e modernità. Si tratta però di una modernità non del tutto sovrapponibile a quell’idea di società borghese e liberale, nella quale la dimensione individuale può svilupparsi senza restrizioni, che dopo Ian Watt siamo abituati a considerare la culla del romanzo moderno. È anzi proprio dalla ridiscussione di questo dato storico-sociale che il libro costruisce il proprio originale impianto: per quanto la lettura di Watt sia stata arricchita da analisi formali sempre più raffinate, l’equazione tra ascesa del romanzo e affermazione della classe media borghese è rimasta infatti sostanzialmente operante nella teoria successiva che vede nel romanzo il terreno di elaborazione di una nuova cultura del particolare. In linea con la rilettura di Watt proposta da Michael McKeon, Novel salda invece l’emergere del romanzo non tanto all’ascesa della società borghese quanto all’affermarsi della società civile, ovvero allo svilupparsi di una dialettica tra le ideologie che si contrappongono nel Settecento inglese: quella borghese, quella aristocratica (alla quale, almeno fino alla fine del Settecento, i borghesi desiderano assimilarsi) e quella dei conservatori alla Swift, fautori della tradizione non per «adesione incondizionata alle gerarchie del passato, ma nella coscienza che la loro salvaguardia costituisca il male minore». Queste diverse posizioni ideologiche ed epistemologiche, in cui i relitti del passato non restano inerti ma entrano dialogicamente in conflitto con ciò che li minaccia, trovano uno spazio di confronto in quella “sfera pubblica” che inizia a costituirsi appunto nel corso del Settecento, e di cui il romanzo diventa il principale strumento di rappresentazione. La nozione di “sfera pubblica”, più agile rispetto alla categoria di totalità (non necessariamente trascendente ma comunque inamovibile), rende così più chiaramente visibile il legame tra esperienza privata ed esperienza collettiva, mostrando come nel romanzo il conflitto ideologico si traduca, attraverso la rappresentazione realistica delle diverse posizioni (personaggi che agiscono cioè in un contesto riconosciuto dai lettori come “reale”), in concreti comportamenti morali. Da questa angolazione teorica il saggio rilegge dunque le opere di Defoe, Richardson, Fielding, passa per l’opera di una maestra del realismo quale George Eliot (capace di mostrare, «oltre a un’attenzione agli eventi ordinari, la complessità della vita morale e dei fenomeni sociali, inquadrati grazie a nuovi paradigmi»), per arrivare a concludere che, oggi come tre secoli fa, «il romanzo realista moderno non è il racconto dell’esperienza privata: è il racconto pubblico dell’esperienza privata».
L’ultimo e più importante capitolo del saggio («Per una teoria del realismo») si spinge fino al contemporaneo, mettendo in relazione modelli di cognizione del mondo, loro rappresentazione realistica (capace pertanto di portare il lettore all’immedesimazione) e comportamenti morali. Allentando attraverso la mediazione della forma i vincoli della realtà esperita ogni giorno, e modificandone dunque la percezione, «la narrazione aspira a modificare permanentemente la nostra concezione della realtà e, in particolare, la nostra risposta agli stimoli dell’esperienza sociale»: aspira insomma a farci agire come persone diverse, non migliori o peggiori, ma consapevoli di poter prendere parte a una storia comune.
[ trad. it di A. Folin, Neri Pozza, Vicenza 2017 ]
Con Gli antimoderni, ora apparso in traduzione italiana, si arricchisce la conoscenza e la circolazione di un importante critico e teorico. La sua pubblicazione in Francia, per Gallimard, risale al 2010. L’edizione italiana è ampliata da una postfazione dell’autore che riprende il tema e trae un bilancio del dibattito sul libro. Esso è diviso in due parti, la prima d’impianto teorico (ed è quella naturalmente di più generale portata), la seconda di tipo piuttosto storiografico e analitico, e riguarda circa una quindicina di personaggi principali che incarnerebbero l’idea di antimoderno (ma perché Tocqueville appare solo di sbieco?). Il termine che ritroviamo nel titolo designa un atteggiamento critico e scettico nei confronti della modernizzazione e (solo indirettamente) dei Lumi, e tuttavia tale da non poter prescindere dall’una e dagli altri. Il termine più adatto a definirli sarebbe, dice Compagnon, quello di contro-moderni. Ma è un termine infelice. Dunque – la precisazione è decisiva – «gli antimoderni non sono genericamente gli avversari del moderno, ma esattamente i pensatori del moderno, i suoi teorici» (p. 23). Questo pensiero, che indubbiamente contiene un nucleo dialettico, si sviluppa lungo sei parole-chiave, sei dense «figure»: «controrivoluzione», «antilluministi», «pessimismo», «peccato originale», «sublime», «vituperazione». Decisiva sembra l’osservazione, ripresa da Barthes, secondo cui la passione della lingua salverebbe, o ribalterebbe, la durezza delle idee: scrivere significa dunque «praticare una violenza del dire, e non una violenza del pensiero» (p. 147).
Anche nella seconda parte ritroviamo spunti di interesse generale, che dunque vanno al di là del pur amplissimo recinto della cultura francese. Certo, la nozione di Antimoderni si presta a qualche resistenza, il campeggiare iniziale del nome di De Maistre ancor di più, ma va detto che la tesi è certamente stimolante. Fosse stato, il titolo, puntato su gli “antiprogressisti” avrebbe avuto forse minore attrattiva, ma sarebbe stato più preciso e forse accettabile. La tesi di Compagnon è che costoro sarebbero il “sale” del processo della modernità, proprio col tenerla a freno e vederne i limiti, ma senza rinunciare alla sua ineluttabilità e anche ai suoi reali vantaggi. Essi sarebbero così i veri moderni. Compagnon sembra ripercorrere i sentieri di Adorno da una parte e di Benjamin dall’altra, ma con una certa “sprezzatura” si nominano poco o punto l’uno e l’altro (Benjamin di sicuro, nonostante la somiglianza degli argomenti trattati). Il lavoro svolge inoltre, ma sul piano storiografico più che su quello estetico, alcuni degli spunti già presenti nel libro sui Cinque paradossi della modernità. Inoltre viene seguito il filo che congiunge almeno alcuni di tali Antimoderni al razionalismo modernizzante e al progetto illuministico e di civilizzazione (anche questa una tipica “mossa” di Compagnon). Figure come quella di Chateaubriand, per fare un solo esempio, rivelano in questo studio i punti di continuità fra modernizzazione e Genio del Cristianesimo, con la democrazia come naturale prolungamento (moderato e normalizzato) della Rivoluzione. Un’idea, a suo modo, geniale e anticipatrice di orientamenti e culture, anche di massa, dei decenni successivi. E anche questo studio, che merita certo più approfondite e dialettiche riflessioni, non manca di spunti non solo seri, ma anche molto stimolanti; a partire dalla riflessione sul tema/titolo, per passare ai nuclei concettuali contenuti nelle parole-chiave e al rapporto, infine, fra l’asse teorico e quello storico-culturale che il libro suggerisce e costruisce.
[ Laterza, Bari-Roma 2018 ]
Giunto in ventiquattro mesi alla sua seconda edizione, dopo la prima datata 2016, e nato da un’esperienza didattica in un liceo romano del suo autore Alberto Crespi, celebre conduttore di Hollywood Party e critico cinematografico della fu «l’Unità», Storia d’Italia in 15 film è uno di quei rari casi editoriali che, tra i molti meriti, ha la capacità di sconfinare oltre il perimetro degli studi di settore, innescando interrelazioni dialogiche non solo tra storia e film, ma anche con arte, politica, musica, letteratura etc.
Un libro nel quale si dialoga molto e numerose sono le conversazioni che l’autore sollecita. Dialoga la storia con i film, ma anche questi ultimi tra loro. E se duplice è il rapporto di reciprocità che si instaura tra la trama raccontata all’interno di una pellicola e la reinterpretazione che dal testo filmico rimbalza nel contesto cronologico in cui lo si è prodotto o distribuito (così come nella visione spettatoriale che sempre lo riattualizza), incalcolabili sono i legami che si intrecciano tra periodi storici e cinematografici.
A suffragarlo è la struttura stessa del volume che, suddivisa in 15 capitoli (16 nella nuova edizione), corrispondenti ad altrettanti periodi della Storia d’Italia, dal Risorgimento ai giorni nostri, solo apparentemente poggia sull’abbinamento di un film prescelto per ognuno di essi. Una pellicola-locomotiva, alla quale se ne agganciano molte altre che, senza ricoprire posizioni subalterne, grazie a un approccio analitico che non produce gerarchie né si affida alle consuete categorizzazioni critiche, svelano l’arcano: lo stuzzicante inganno di quei 15 film che, preannunciati dal titolo del volume come dai titoletti dei capitoli, in verità si centuplicano, catapultando il lettore in una visione ampia e suggestiva, che è al contempo lieve e incantevole, ma anche rigorosa e complessa, riccamente documentata e ben approfondita.
Nel corso della quale il Risorgimento di 1860 (1934) di Blasetti dialoga per esempio sia con il regime mussoliniano sotto cui il film è prodotto, sia con passato e contemporaneità, attraverso conversazioni che animano il confronto ora tra sonoro e muto (La presa di Roma, 1905, Alberini), ora tra maestri (Visconti del Gattopardo, 1963) e neo autori (Martone di Noi credevamo, 2010).
E ancora, mentre la Prima guerra mondiale, smontata di ogni eroismo, assume i caratteri tragicomici delle maschere della commedia all’italiana della Grande guerra (1959) di Monicelli, facendoci immergere nel fango della trincea di Torneranno i prati (2014) di Olmi, il Fascismo è letto come effetto della sindrome adolescenziale del popolo italiano, sempre alla ricerca di un capo, nel film più autobiografico di Fellini, Amarcord (1974).
Sorprende poi come la Resistenza di Roma città aperta (1945) e Paisà (1946) di Rossellini si intreccia con In nome del Papa Re (1977) di Magni (dalla cui filmografia Crespi attinge fulminanti battute citate in apertura di ogni capitolo): l’attentato carbonaro nella Roma del 1867 riecheggia infatti sia nella stagione terroristica degli anni ’70, sia nella strage nazista di via Rasella del ’44.
Viceversa, per un miracolo economico che negli anni ’60 corre veloce sull’Aurelia del Sorpasso (1961) di Risi, ve ne è un altro che diviene rito di passaggio, sacrificale e cannibalico, nel Boom (1963) di De Sica. Metaforico e profetico quasi quanto lo è per la strage di Piazza Fontana, Indagine di un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) di Petri, che però per Crespi non è, contrariamente a quel che la tradizione critica tramanda, il suo manifesto, bensì un’intuizione, più liquida e grottesca che realista.
Infine, se del Berlusconismo è cantore Moretti, che nel Caimano (2006) intravede il doppio volto malefico ed eversivo del Cavaliere, è nel Duemila di Diaz (2012) di Vicari che, nel volo della bottiglia e nel vagar della pallottola che al G8 di Genova del 2001 uccide Carlo Giuliani, si riverberano il salto ellittico dell’osso-astronave di 2001: odissea nello spazio (1968) di Kubrick e l’urto traumatico degli aerei lanciati l’11 settembre 2001 contro le Twin Towers.
[ il Mulino, Bologna 2017 ]
Il titolo gioca sull’ambiguità dell’esclamazione: non mancano pizzerie che si chiamano proprio Che pizza!, viene detto subito nella Premessa, e, possiamo aggiungere, c’è qualche libro di cucina omonimo. Invece questo di Paolo D’Achille è il terzo volume di una bella serie del Mulino, «Parole nostre», iniziata nel 2016 con Parola di Luca Serianni e Bravo! di Giuseppe Patota, e proseguita nel 2018 con Ciao! di Nicola De Blasi. È dunque un saggio sulla parola pizza, divulgativo nell’accezione migliore e più nobile.
Ripercorrendo le vicende di un vocabolo si ha ovviamente a che fare con quanto è a esso collegato e infatti il primo capitolo riguarda La pizza in cucina tra focacce, torte e schiacciate, termini riferiti, in modi diversi nel tempo e nello spazio, a preparazioni alimentari varie, salate o dolci. D’Achille affronta quindi la controversa etimologia di pizza e riprende la soluzione proposta da Francesco Sabatini: la voce pi(t)ta, forse d’origine greca, certo diffusa nell’area del Mediterraneo nel senso appunto di focaccia, può essersi trasformata in pizza, con passaggio da t a z, nell’Italia longobarda del centro-sud. In effetti, la storia registra un susseguirsi di forme simili in documenti di area centromeridionale, da pititie (dove titi starebbe per una doppia zeta), variante attestata a Napoli nel 966, al moderno pizze, nel menu del banchetto del 1517 a Castel Capuano per le nozze di Bona Sforza d’Aragona con Sigismondo I di Polonia e poi nei ricettari di Messi Sbugo (Ferrara, 1549) e di Bartolomeo Scappi (Venezia, 1570). Ma è nell’Ottocento, ancora a Napoli, che nasce la tipica pizza, perciò definita altrove napoletana, descritta come «une espèce de pain […] de forme plate et ronde» dall’archeologo francese Aubin-Louis Millin in un manoscritto del 1811 (citato a p. 49) e rappresentata, tra gli altri, da Matilde Serao nel Ventre di Napoli (1884). Se Domenico Rea osserva con sguardo ammirato la metamorfosi dell’impasto da «disforme polpetta» a cerchio simile al golfo di Napoli, con un bordo-costiera, e paragona il lavoro del pizzaiolo, semplice solo in apparenza, a quello di chi addomestica «una creatura selvaggia» (in Ninfa plebea, 1992), Vitaliano Brancati, in un articolo del 1947, vede in una pizza napoletana indigesta, temibile «intruglio di pomodoro e olio fritto», addirittura la causa della morte dell’anziano Giovanni Verga.
Nel saggio, sono rammentati anche nomi di pizze, inclusa la famosa margherita, e nomi di pizzerie, in Italia e all’estero, perché «se uno gira il mondo, in tutti i cantoni trova un napoletano che fa la pizza» («e un biellese che fa i muri», come scriveva Primo Levi in un passo della Chiave a stella del 1978, citato a p. 100). D’Achille ricorda inoltre la famiglia lessicale, da pizzelle (per esempio nel Cunto di Basile) a pizzaiola (per antonomasia, la Loren, nonché la mozzarella Locatelli), e gli usi figurati di pizza, per designare qualcosa di schiacciato e in particolare la scatola della pellicola cinematografica, oppure qualcosa o qualcuno di noioso e, in romano, pure una sberla.
Oggi parecchi in ambito umanistico tentano di scimmiottare le scienze dure attraverso una grande ostentazione di obiettivi, criteri, schemi e pseudotecnicismi, al punto che, nei casi peggiori, sembra di trovarsi davanti a una gabbia vuota. La buona tradizione della storia della lingua italiana per fortuna non cade in un simile tranello, come ben prova la serie «Parole nostre» del Mulino. Questo piccolo libro infatti è denso, documentato, pieno di sostanza e al tempo stesso piacevole, perciò si legge volentieri e può essere utile non solo per gli appassionati o per gli studenti della materia, ma per chiunque sia semplicemente curioso di storie e di parole. Paolo D’Achille, nel ricostruire e raccontare alcuni percorsi della parola pizza, si rifà a dizionari e studi linguistici ed esplora moltissimi testi, fiabe, romanzi, film e canzoni, antiche fonti e siti internet, mostrando, in modo chiaro e concreto, un mondo di cose.
[ Quodlibet, Macerata 2017 ]
Su Franco Fortini crescono gli studi, complice anche il centenario dalla nascita dello scrittore. L’orientamento che per adesso appare dominante è quello di tipo filologico o a base tecnico-linguistica (con ripubblicazioni, studi su metrica e lingua, edizioni critiche, inediti, varianti ecc.). Un fervore certo importante e utile, ma che sembra canonizzare su un piano accademico un autore che, forse, non avrebbe gradito molto tali indirizzi. Il libro di Francesco Diaco muove invece in altra direzione: pur essendo uno studio sistematico e, per così dire, monotematico (la poesia), non rinuncia affatto alle interferenze col pensiero di Fortini, con il dibattito culturale di oltre mezzo secolo (non mancano riferimenti complessi e stimolanti ad autori come, fra gli altri, Goldmann, Lukács, Bloch, quest’ultimo leggibile in trasparenza nel titolo), con la storia sociale, e soprattutto non manca una linea interpretativa. Dell’uno e dell’altro aspetto bisogna dar conto.
La sistematicità: Diaco segue Fortini poeta dalla prima raccolta, Foglio di via, fino a Composita solvantur, ossia per quasi cinquant’anni, con capitoli successivi. Inutile ricordare come il poeta trasformi man mano e temi e linguaggio. Nel ricostruirne l’attività, lo studioso segue dunque il suo autore momento per momento, procedimento fruttuoso che conferma, se occorresse, che l’insieme di una raccolta è ben più che la somma delle singole poesie; ma direi che, più che le varie raccolte, egli scelga come unità di misura del percorso poetico fortiniano le sezioni nelle quali esse si suddividono. Mi pare, questa, una scelta persuasiva e fruttuosa, perché in tal modo il “passo” di Fortini si arricchisce di importanti cadenze, e l’articolazione delle raccolte mostra meglio la logica compositiva e le variazioni dello stile. Forse è un po’ eccessivo lo zelo nelle citazioni e nelle riprese bibliografiche, ma Diaco mostra di possedere tutta la biografia e tutta l’opera di Fortini, ed evidentemente non vuol lasciare spazi al non argomentato. In ogni caso tale lavoro è certo molto utile, soprattutto per gli studiosi, che possono disporre di una moderna “summa” sugli studi fortiniani e di un utile repertorio di analisi. Proprio le analisi sono un ulteriore elemento su cui soffermarsi: Diaco non può certo affrontare tutte le poesie dello scrittore, ma si avvicina a questo obbiettivo per quanto può, aiutandosi proprio con le sezioni delle raccolte. In tal modo, tuttavia, vengono ad essere sacrificati alcuni possibili approfondimenti sui testi più significativi, specie delle raccolte più mature, la cui lettura risulta così inevitabilmente compressa; e questo è un elemento di rammarico, ma non riusciamo a farne una colpa all’autore, che evidentemente ha ritenuto di optare per la soluzione che ho descritta.
L’interpretazione, adesso: essa è demandata, con gli opportuni esiti critici, alle parti conclusive di ciascun capitolo, che dunque meglio ricostruiscono le raccolte nel processo elaborativo del poeta e che traggono le risultanze delle parti analitiche; e, in forma di sintesi, nella ricca introduzione, in realtà – come spesso avviene – una sorta di risultato, ex post, dello studio compiuto. In essa, dunque, viene proposta la dicotomia (forse solo apparente) che è nel titolo, fra dialettica (il polo discorsivo del saggismo, orientato alla mediazione, al riuso del passato e alla pazienza) e speranza, lo spazio “tragico” e utopistico della poesia: «la saggistica sviluppa il côté storico-politico, mentre la lirica è il campo della scelta volontaristica e dello sfondamento nel futuro» (p. 32). Ma gli uni e gli altri tratti sono, peraltro, compresenti, ora in sintonia, ora in opposizione nell’attività dello scrittore, ed è questo che ne fa la ricchezza e la paradigmaticità, che questo studio ricostruisce con lucidità.
[ Palgrave Macmillan, Cham 2017 ]
Nel suo ultimo libro, dopo aver riflettuto sull’utopia in quanto genere letterario – il secondo capitolo traccia un prezioso panorama critico sulla storia di questo concetto in rapporto all’ideologia, al potere, all’industria e alla crisi epistemologica di fine XIX secolo – Daniele Fioretti mostra in modo convincente l’importanza che essa riveste nelle opere di Pasolini, Calvino, Sanguineti e Volponi, Il presupposto della ricognizione è l’aria di famiglia che questi intellettuali-scrittori condividono: tutti quanti hanno infatti collaborato o pubblicato in importanti riviste letterarie dell’epoca («Officina», «il verri», «il menabò», «Nuovi Argomenti») e tutti quanti hanno creduto, influenzati dal marxismo, che le loro opere dovessero e potessero contribuire a edificare una società migliore. Per Pasolini, Calvino, Sanguineti e Volponi l’utopia ha significato anzitutto impegno, progetto di una trasformazione sociale, ciò che nel capitolo conclusivo Fioretti definisce «the precondition of utopian literature, always aimed at building a better society» (p. 195). Uno dei meriti maggiori del volume è chiarire la diversa concezione che i quattro autori hanno dell’utopia e di ricostruire sinteticamente la traiettoria che essa subisce nelle rispettive opere in relazione ad alcuni cambiamenti sociali e culturali. La doppia utopia di Pasolini – «a mythical utopia of the “origin”, and a utopia of history, strongly connected with society and political commitment» (p. 45) – instaura una contraddizione lacerante fino a rovesciarsi, dopo l’abiura e con Salò, in una distopia apocalittica. In Calvino, a una tensione utopica di tipo razionale e ideologico fondata sui valori della resistenza, segue un’utopia di natura epistemologica – la sfida al labirinto – caratterizzata dalla straordinaria rilevanza metaforica assunta dalla città (a partire dalla Giornata di uno scrutatore e La nuvola di smog) e da un’irrisolta tensione a comprendere la realtà senza arrendersi al caos (l’idea di letteratura come gioco combinatorio del Castello e di Se una notte d’inverno un viaggiatore, da una parte, e la ricerca di senso e lo sforzo di conoscenza delle Città invisibili e Palomar, dall’altra parte). Attraverso una disarticolazione strategica del linguaggio (mediata dal surrealismo e dalla psicoanalisi), l’opera di Sanguineti è fin dal principio «centered on dystopia» (p. 133), sull’idea che il mondo contemporaneo, neocapitalista e consumista, sia una palus putredinis (Laborintus). Se il bisogno di attraversare questa palude rigettando la sua logica, in particolare il principio di identità e di non contraddizione, ha un carattere conflittuale e politico e lascia presagire un varco (ben visibile in Purgatorio de l’Inferno), «a progression from a nuclear dystopia to the utopia of a new society» (p. 144), le opere successive (in modo esemplare Postkarten e Stracciafoglio) tendono alla disillusione e alla resa. Dell’utopia di Volponi, Fioretti evidenzia più «the bodily aspect» (p. 155) che non l’ispirazione industriale (Olivetti) e rinascimentale (Urbino): è nel compromesso tra corporalità e razionalità che il tema dell’utopia raggiunge in Volponi i risultati migliori, quando si presenta «chaotic, multifaced, even umpleasant and uncanny in its mostruosity» (p. 173) come avviene ad esempio in Corporale. È per questo motivo che l’ibridazione uomo-animale tematizzata nel Pianeta può essere interpretata dall’autore, anche alla luce della post-human theory, come la realizzazione di un’utopia che in Corporale era soltanto potenziale; ed è grazie a questa lettura “positiva” del Pianeta che persino nelle Mosche, dove compare un riferimento al futuro post-apocalittico del Pianeta, l’utopia sembra opporsi e resistere al dominio assoluto dell’artificiale. La macrodistinzione tra l’utopia “geometrica” di Calvino e Sanguineti e l’utopia “poetica” di Pasolini e Volponi proposta da Fioretti nel capitolo finale è solo uno schema: il suo libro è molto più ricco.
[ Pacini, Pisa 2017 ]
In questo volume, Maria Antonietta Grignani ha raccolto una serie di saggi riguardanti testi e temi sui quali ha molte cose da dirci: dodici saggi, in versioni rielaborate rispetto a quelle già edite in riviste o miscellanee tra 2007 e 2016, su poeti e prosatori a lei cari, come Sereni, Orelli, Luzi, Landolfi, Mastronardi e Bianciardi.
In particolare, il primo studio concerne la questione centrale della fuga dall’io, inteso anche come soggetto verbale, fuga caratterizzata da modi e momenti differenti dagli ermetici, ai Novissimi, a Sereni, a Caproni, a Orelli, a Pusterla, a Neri, ai poeti degli ultimi decenni, in cui semmai «pare profilarsi un soggetto collettivo, più partecipabile, forse, di quello che avrebbe governato, contornato e postillato il testo» (p. 22); l’autrice scrive perciò che «la mappa è cangiante» (p. 9), ma comporta affinità, sia etiche, sia estetiche. L’io nascosto attraversa la poesia del XX secolo così come in parte fa anche il settimo saggio del volume, che guarda alle Presenze della Divina commedia nella poesia del Novecento, per esempio in Giudici, Montale, Caproni e Sereni, ma anche in Primo Levi.
Gli altri capitoli sono dedicati a singoli poeti, mai isolatamente però, bensì sempre in rapporto a diverse voci e questioni più ampie, e nel contempo attraverso riscontri e citazioni puntuali. Due studi riguardano proprio Sereni: uno (Le voci «pausate e ritmiche» di Sereni: tra prosa e poesia) ricostruisce la «tentazione della prosa» fin dagli esordi di Frontiera, tenendo conto di carteggi, frasi in esergo, traduzioni, saggi, perché «sempre un poeta, quando parla di altri poeti, dice parecchio di sé» (p. 27); invece l’altro studio (Autocommenti obliqui in Sereni) mostra la distanza, e la presa di distanza, di Sereni rispetto a Montale, in un dialogo con autori stranieri quali William Carlos Williams o Francis Ponge.
Maria Antonietta Grignani considera Mario Luzi più vicino a Sereni di quanto altri critici non credano: così dice nel quarto capitolo del volume (Seme di Luzi: eclissi della metafora), ripercorrendo temi e modelli del Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini e di altre opere di Luzi, ed evidenziando i profondi cambiamenti intervenuti nel tempo, a livello non solo retorico, ma anche metrico, sintattico e lessicale, con l’emergere di «vari lui / lei» che possono essere fenomeni o creature del mondo.
Poesie che portano uno sguardo meravigliato sul mondo e sulle sue creature sono quelle al centro del saggio Pedagogia dello sguardo e declinazione dei colori nella poesia di Giorgio Orelli: si tratta qui soprattutto di testi che hanno come protagonisti bambini, come Che fa Matteo Delbrück, ma anche di una poesia «bellissima e testamentaria» come Ragni, dove i due ragni sono gli ospiti che tengono compagnia al vecchio poeta dal soffitto del suo appartamento (p. 71).
Un altro saggio ancora (Parole in guerra: Jolanda Insana) parla di Jolanda Insana, che dagli anni settanta alla morte (nel 2016) è stata una «pupara», come lei stessa si è definita, onomaturga, artefice di una poesia combattiva ed espressionista, tra lingua e dialetto.
Quanto ai prosatori, i Percorsi di Mastronardi risultano terribilmente attuali e il capitolo Aprire il fuoco: una scrittura in esilio fa venir voglia di (ri)leggere a fondo le opere di Bianciardi, non solo Il lavoro culturale («un libro che dovrebbe essere riproposto nelle scuole per la critica al linguaggio formulare», p. 155), ma anche le rubriche giornalistiche. Il penultimo saggio riguarda invece La stralingua di Giuliano Scabia, autore vivente che nella trilogia di Nane Oca unisce tratti macaronici e zanzottiani, tra «scorribande etimologiche» e composti inusuali (p. 182 sgg.). Infine, l’ultimo studio riguarda Raboni critico, citato anche in vari capitoli della prima parte.
[ a cura di M.A. Grignani e D. Scarpa, «Autografo», 58, 2017 ]
Nel 2016 ricorreva il centenario della nascita di Natalia Ginzburg, una delle più importanti figure del Novecento letterario italiano. Fra le iniziative che hanno celebrato la scrittrice vi sono state letture pubbliche, trasmissioni radiofoniche e convegni accademici. Fra questi si conta anche quello organizzato da Giada Mattarucco presso l’Università per Stranieri di Siena nel marzo 2017; e sono stati gli interventi a questo convegno a formare la base del numero 58 della rivista letteraria «Autografo», dedicato a Natalia Ginzburg e curato da Maria Antonietta Grignani e Domenico Scarpa. Esistono una biografia, due raccolte di saggi e alcune monografie su Ginzburg, ma questo è il primo numero intero che una rivista accademica le dedica, come ricordano i curatori (p. 8). A questo si può aggiungere che gli studi fondamentali di Domenico Scarpa – il suo studioso più importante – non sono mai stati raccolti in volume, mentre due fra i volumi più significativi su Ginzburg sono stati pubblicati fuori dall’Italia: la biografia scritta da Maja Pflug è uscita prima a Berlino presso Wagenbach; e la raccolta di saggi Natalia Ginzburg: A Voice of the Twentieth Century è apparsa presso Toronto University Press. Nel complesso si può quindi dire che Natalia Ginzburg non abbia ancora ricevuto dagli studi letterari in Italia un riconoscimento adeguato alla sua importanza come scrittrice e intellettuale pubblica.
Le celebrazioni del centenario e questo numero di «Autografo» possono forse contribuire a cambiare questa situazione. Com’è caratteristico della rivista, anche Natalia Ginzburg raccoglie sia saggi di studiose e studiosi, sia scritti dell’autrice inediti o difficili da trovare. Il volume si apre con la testimonianza della psicoanalista e figlia della scrittrice Alessandra Ginzburg, che ricorda come il periodo del confino nel paesino abruzzese di Pizzoli durante la guerra abbia segnato la storia personale e il profilo di scrittrice e intellettuale della madre. Il saggio di Grignani compendia i suoi studi sullo stile del teatro e della narrativa di Ginzburg e costituisce un’ottima e agile introduzione alla sua produzione letteraria. Segue uno studio di Scarpa sull’epigrafe posta da Ginzburg in apertura della Prefazione alla sua traduzione del primo volume della Recherche di Proust, intitolata La strada di Swann e pubblicata da Einaudi nel 1946; se si legge come un piccolo giallo, questo studio è un modello per la ricerca letteraria. Anna Stella Poli si occupa poi della biografia familiare La famiglia Manzoni, concentrandosi su come Ginzburg arrivi a scriverla e su come venga recepita al momento della sua pubblicazione nel 1983; mentre Mattarucco ricostruisce il rapporto fra letteratura e infanzia, intendendo sia ciò che Ginzburg leggeva da bambina sia come concepiva la funzione della letteratura per l’infanzia. Emmanuela Carbé ritorna a studiare l’autografo di Lessico famigliare, il libro autobiografico con cui Ginzburg vinse il premio Strega nel 1963, stabilendo le date in cui Ginzburg donò le sue carte al Centro Manoscritti di Pavia; e Giorgia Benedetta Erriu riconsidera i modi in cui, in seguito al suo soggiorno a Londra negli anni 1959-61, Ginzburg rimanga influenzata dal teatro di Harold Pinter e dalla narrativa di Ivy Compton-Burnett. In una lunga recensione a Lessico per Natalia di Giorgio Bertone, si sottolinea infine come la centralità del dialogo in Ginzburg trasformi in conoscenza la subordinazione di genere: proprio perché danno voce alle donne e altre persone dominate per secoli, la narrativa e il teatro di Ginzburg sono in grado di articolare una visione lucida della condizione umana come inevitabilmente segnata dalla vulnerabilità e dall’interdipendenza delle persone. E questa visione è bene riassunta nei due testi più importanti di Ginzburg raccolti in questo numero di «Autografo»: Breviario dello scrittore e Conoscenza e felicità, due scritti apparsi degli anni sessanta e pubblicati qui per la prima volta in volume.
[ Carocci, Roma 2017 ]
Una duplice dedica, al maestro e al figlio, è la chiave di ingresso con cui Massimo Palermo apre la sua descrizione dell’italiano scritto digitale: da e-migrato, in equilibrio tra due mondi.
Il libro è diviso in quattro parti: la prima ripercorre la storia della scrittura, dalla nascita passando per l’invenzione della stampa fino alle nuove tecnologie; nella seconda e nella terza viene spiegata la prospettiva teorica scelta, quella della linguistica del testo, e analizzato lo specifico dei testi digitali; la sezione finale si ricongiunge alla prima, chiamando in causa il ruolo della scuola come luogo di trasmissione.
Il filo rosso del capitolo iniziale è il rapporto tra il mezzo e il testo: dal testo tipografico a quello digitale (cioè nativo digitale, da tenere distinto dal testo tipografico e-migrato nella rete) cambiano, con i modi della trasmissione, anche quelli di fruizione e di produzione.
Il supporto digitale (dall’ingl. digital, derivato di digit ‘cifra’, dal lat. digitus ‘dito’), che l’immateriale codifica binaria rende senza peso, esalta infatti alcune caratteristiche della trasmissione scritta: la mediazione e la decontestualizzazione del messaggio si moltiplicano in modo esponenziale, tanto da dar luogo la prima a una disintermediazione nei fatti (tutto accessibile a tutti) e la seconda, con l’avvento della connessione in mobilità, a una continua commutazione di contesto (tutti ovunque – o sempre altrove). Dove l’orecchio non potrebbe, arriva tramite un monitor l’occhio; ma, così come carta e video non hanno lo stesso rapporto con le dimensioni spaziali, sguardo e ascolto non hanno la stessa relazione con la linearità del tempo. Ecco allora il testo (che nella sua forma scritta tradizionale è lineare e sequenziale) evolversi in iper-testo, insieme strutturato di unità di informazione e di collegamenti che infrange la linearità proprio per via del supporto digitale. L’autorità – conseguente alla potenza – del nuovo mezzo canonizza intanto il testo data base che contiene big data; e la banca dati viene interrogata invece che letta, con una svolta che apre la strada al fraintendimento che la quantità, se molto grossa, possa autoqualificarsi.
Nei capitoli centrali si precisa la nozione di testo coerente e coeso che l’autore prende come riferimento per cercare, contrastivamente, lo specifico del testo digitale, o meglio dei testi digitali, perché si tratta di un gruppo molto vario (messaggi istantanei, testi sui social, ipertesti).
Da una parte, l’illusione di una conversazione sempre in presenza porta nello scritto digitale alcuni tratti dell’oralità e del dialogo (con l’emoticon supplente del corpo assente). La deissi però esplode: You è il personaggio di copertina del Times nel dicembre 2006; si rivolge a noi, serie indistinta di interlocutori in perenne modalità fàtica, alla ricerca di un canale prima che di un enunciatario.
Itinerante e dialogico è divenuto d’altra parte il testo stesso, nel farsi ipertesto: prima ideato che realizzato, l’ipertesto è infatti il prototipo del nuovo testo liquido, che si adatta alla forma del contenitore perché discontinuo e sempre aperto, essendo stata scardinata una volta per tutte la porta di separazione tra scrittore e lettore. L’intertestualità esasperata ha dunque tra i suoi effetti il testo-frammento, la cui osservazione – rivelatrice come quella di ogni manifestazione parossistica – lascia vedere che la distinzione tra cotesto e contesto, spesso intesa come distinzione tra ciò che è dentro e ciò che è fuori della lingua, deve forse essere pensata altrimenti (l’autore parla di «dissoluzione dei confini fra testo e contesto»). Non è questo il solo caso in cui i fenomeni mostrati nel libro invitano a una riconsiderazione delle categorie in uso.
Palermo racconta così sottovoce un pezzo di storia della lingua italiana scritta, per la parte contemporanea quasi un diario di viaggio. Si congeda rivolto a insegnanti e alunni, fiducioso che la scuola, nel suo compito di tutela della memoria, si prenda cura dei testi, di tutti i testi, perché la capacità di lettura è capacità di scelta.
[ Palgrave MacMillan, London 2018 ]
A fronte del titolo, che lascerebbe intendere una ricognizione delle diverse posizioni assunte dagli scrittori modernisti, il libro di Ware dichiara sin dalla prima pagina di non voler fornire «an exhaustive account of modernism’s various “ethical turns”». Anzi, quasi a voler deludere le aspettative del lettore, gli unici autori presi in esame sono James e Beckett: i prodromi e le persistenze del modernismo. Questa scelta, benché funzionale a mostrare come il modernismo sia quella fase di svolta verso cui tende la fine dell’Ottocento e che permea l’intero Novecento, finisce per essere deficitaria: se si parla di modernismo infatti, Woolf, Joyce ed Eliot potrebbero anche essere chiamati in causa e non lasciati nell’ombra senza essere citati nemmeno una volta. Senz’altro ha agito in Ware la consapevolezza che le declinazioni che i modernisti assumono (in qualsiasi campo: narrativo e poetico, etico e morale, gnoseologico ed epistemologico) sono talmente divergenti e molteplici da non essere riconducibili a un’unica e coesa fotografia. Ma questo non significa che non si possa comunque trovare un minimo comun denominatore: in fondo tra i diversi autori di questa stagione culturale si registrano delle intraducibili “somiglianze di famiglia”, secondo quel principio stabilito a suo tempo da Wittgenstein («a “family idea” of Modernism»). E proprio Wittgenstein (alla cui matrice modernista Ware ha dedicato nel 2015 Wittgenstein, the «Tractatus» and Modernism) è uno degli elementi che guida l’intera riflessione.
I modernisti, si sa, rifiutano un insieme di valori trascendenti da rispettare: una morale superiore. Così come recalcitrano di fronte all’idea che sia elaborabile un sistema di comportamento, articolato in specifici dettami, capace di imporsi e di avere valore per tutti. Semmai, non cedendo al «tutto è lecito» di Ivan Karamazov, agiscono seguendo dei principi più profondi, volti a conciliare interesse personale (sia nel senso più nobile che in quello meno edificante) e rispetto dell’altro: credono insomma più nell’etica che nella morale.
In una discussione con Bloch, sapientemente rievocata da Ware, Adorno sottolinea che tutti gli uomini, nel loro profondo, e che lo ammettano o no, sanno che il mondo potrebbe essere diverso («otherwise»). Questa consapevolezza è ancora più marcata nei modernisti, i quali, muovendosi in un’epoca che ha visto sgretolarsi tutte le certezze condivise, sono naturalmente proiettati a leggere l’universo circostante come modificabile, plasmabile, costantemente rivedibile. Anzi, ritiene Ware, l’atteggiamento dell’eroe modernista è quello di «[to] see the everyday otherwise» (ancora Wittgenstein, quello delle Ricerche: «guardare altrimenti»). Più nello specifico l’uomo del modernismo misura sempre un «gap between the “actual” and the “possible” – the “now” and the “not-yet”». E proprio in questo scarto tra l’esistente e il possibile, tra l’ora e il non-ancora, prende corpo quella spinta all’azione che in qualche modo agita, fosse anche solo a livello mentale, l’eroe di raccolte poetiche e romanzi modernisti; un eroe inquieto e costretto a immaginare un assetto diverso del reale.
Questa insopprimibile proiezione verso il futuro è letta in ottica nietzschiana: nessun uomo può procedere senza uno scopo, si sostiene nella Genealogia della morale. Ma soprattutto la stessa tensione verso il domani è curvata su una questione espressa nel titolo e che si vuole imporre al lettore di oggi: guardare il mondo altrimenti apre una prospettiva rivoluzionaria, volta a istituire assetti economici e modelli di comportamento alternativi a quelli tuttora seguiti. Libera insomma l’immaginazione politica.
Questo processo è possibile perché i modernisti – ed ecco un altro insegnamento che si deve riportare all’oggi – sono antidogmatici e si sbarazzano dei principi morali, per sostituirli con un’etica che prevede solo principi: in altre parole, sottolinea Ware, un’etica formale come quella proposta nella Critica della ragion pratica da Kant; il vero antecedente del modernismo occidentale.
• Il saggio indaga sui modi in cui la narrativa italiana degli anni Zero si è appropriata della lotta armata come tema letterario di successo. Gli anni di piombo, segnati da un’ondata di violenza politica rossa e nera probabilmente senza precedenti in Europa, hanno lasciato in eredità alla cultura italiana un trauma che il ceto dei letterati ha a lungo eluso o rimosso; solo a partire dagli anni Novanta quel nodo ha cominciato a diventare cruciale, tanto nel sistema della comunicazione quanto in quello delle arti, per poi farsi addirittura ossessivo all’inizio del nuovo millenio, in concomitanza con la riapparizione di fenomeni brigatisti e più in generale di un minaccioso terrorismo globale.
[a cura di F. Buffoni, Marcos y Marcos, Milano 2012]
L’Undicesimo quaderno è, come gli altri della serie diretta da Buffoni, una “raccolta di raccolte” più che un’antologia; anche per questo, a tenere insieme i sette autori convocati non sono ragioni estrinseche come l’età o la provenienza (criteri frequenti nelle selezioni antologiche) ma una motivazione profonda: l’assunzione di un’identità, che incide tanto sul piano tematico, quanto su quello formale o, più precisamente, enunciativo.
Da un lato, al centro di queste poesie è infatti la ricerca di un rapporto tra il soggetto e la realtà (la storia, le esistenze), che le sospinge verso una soglia etica. È il caso del ticinese Yari Bernasconi; quella dei suoi personaggi è soprattutto un’identità di confine: tra Italia e Svizzera, innanzitutto; ma anche tra l’io e gli altri, che abitano le storie di una comunità, di una generazione che ha patito il trauma dell’emigrazione: «Non è lontana, l’Italia, ma noi siamo bloccati | in questi gorghi di pietraie, incollati a questi attrezzi | logori e scuri, sporchi di detriti e di sangue».
Dall’altro lato, l’identità si esprime nella grammatica del soggetto, che spesso non è un “io” ma un soggetto collettivo. Nei versi di Azzurra D’Agostino, per esempio, avviene quasi una spersonalizzazione dell’“io”, che si riconosce e si fonde nel “noi”: «attraverso una terra di chi | passiamo noi, noi la schiera | del coro scrostato del dipinto». La scelta del pronome è il segno della volontà di umanizzare e condividere il paesaggio con i «simili», con le creature, personaggi di un’avventura senza trama. In questo, c’è qualche affinità con la poesia di Mariagiorgia Ulbar, che racconta un transito perturbante attraverso gli oggetti, cui l’io delega una parte della propria identità, affidando a loro la responsabilità di esistere: «I ricci del castagno | la tua mano sinistra | non li tocca perché pungono | e pensa allora in gola || messi in gola a noi | che siamo troppi e troppo grandi | per una strada di bosco ondulata | che non svolta quasi mai».
In altri casi, l’affermazione dell’identità passa attraverso dislocazioni di genere letterario e di registro, che situano l’io in un contesto straniato, non necessariamente antilirico ma piuttosto metalirico. Nella poesia di Vincenzo Frungillo, ad esempio, l’esperienza è calata in una dimensione filosoficosapienziale (come nella silloge La fine di Lucrezio, ispirata ai modi e ai contenuti del poema didascalico). Nei versi di Fabio Donalisio, all’opposto, l’io mette la voce in maschera per nascondere l’espressione lirica del sé, sfrangiandola in un gioco allusivo di citazioni poetiche e musicali (da Leopardi, Saba, Montale fino a Leonard Cohen e agli Young Marble Giants di Colossal Youth).
Anche in Marco Simonelli risuona il falsetto; ma il pathos è autentico, anche sotto il controllo di una metrica arguta e vistosa e dietro il ventaglio dell’allusività: i versi di Alle Cascine-Battuage, per esempio, vanno ben oltre la parodia in chiave transgender del Luzi di Presso il Bisenzio: «Loro sono tre, non so se donne e uomini. | Uno la più smaniante del notturno lavorio, | mi si pianta davanti e sibila: “Tu? Tu non sei dei nostri”». Il punto è forse che la conquista di un’identità è parallela alla costruzione di una prospettiva socio-morale; lo si vede bene nelle poesie che rinarrano le esperienze del bambino o dell’adolescente – gli amici di famiglia, gli stili di vita, i luoghi – straniandole con l’umorismo della maturità.
Per Eleonora Pinzuti, infine, l’identità è nelle parole; l’idioletto dell’infanzia si proietta nell’esperienza successiva, non solo attraverso la rievocazione, ma anche per mezzo di una fusione di linguaggi: quello della nipote bambina e quello della studiosa di letteratura. È esemplare, in questo senso, la prima poesia della raccolta: «Come quando, in un bar per la strada, | suggeristi a noi, davanti al primo cappuccino, | “Bimbe, rumatelo bene”» – dove la situazione e il tratto lessicale, che rimandano alla dimensione larica, sembrano contaminati da un’altra poesia iniziale, La bufera, nell’omonimo libro montaliano.
[edited by G. Brock, Farrar Straus and Giroux, New York 2012]
Un repertorio antologico bilingue che riesca a dare un buon quadro complessivo della poesia italiana del Novecento è un’operazione di critica comparatistica pregevole. Per questo è importante segnalare l’uscita dell’antologia curata da Geoffrey Brock, che raccoglie settantacinque poeti italiani, dai modelli primonovecenteschi di Pascoli e D’Annunzio alla contemporaneità. La strada interpretativa del curatore ha per metro il grado di «eloquenza» nella scrittura e può essere descritta come una parabola che si sviluppa in crescendo fino alla fine degli anni Sessanta, per poi decrescere in una stagnazione («something like a taxonomic sleep») caratterizzata da una tendenza espressivistica monadica («“monadic” enterprise»), fino alle forme più recenti, per le quali Brock usa la denominazione ottimistica di «era of “New Eloquence”».
Se la visione d’insieme risulta condivisibile, anche a fronte della scelta accurata delle versioni in lingua, a uno sguardo ravvicinato si nota che il “principio dell’eloquenza” tende a semplificare un quadro letterario che si nutre di una complessità ben più articolata, lascia falle aperte per l’omissione di alcuni autori e di alcuni testi significativi, con il risultato di far apparire l’antologia un’operazione editoriale, piuttosto che culturale, il cui potere canonizzante può sembrare incompleto. Anzitutto, nell’introduzione si fa riferimento a un sistema che raggruppa i poeti “maggiori” della prima parte del secolo in triadi esemplari: Pascoli-D’Annunzio-Carducci e Montale-Ungaretti-Saba. La classificazione triadica è il primo punto da rivedere, decisamente obsoleta, memore di un approccio deduttivo e generalista definitivamente superato con Poeti italiani del Novecento di Mengaldo. Si può discutere, inoltre, se sia corretto parlare di Novecento poetico includendo in esso Pascoli, D’Annunzio e Carducci: ma si comprende che l’esigenza di presentare la poesia italiana a un pubblico non italiano possa aver forse reso necessaria questa inclusione.
Il “principio dell’eloquenza” porta Brock a usare anche espressioni semplificatrici come «minimalist masterpieces» per i versi del primo Ungaretti, ad accostare Saba a Robert Frost, a definire Montale un autore ermetico, senza considerare che, in una prospettiva comparatistica, proprio i legami con la tradizione anglosassone fanno della poesia montaliana uno degli esempi più notevoli di classicismo moderno. Inoltre, lo stile antieloquente della linea lombarda è descritto attraverso un’analogia con i poeti crepuscolari del primo Novecento, e gli autori le cui opere più importanti seguono cronologicamente la Neoavanguardia vengono lasciati in una imprecisa sospensione magmatica che non riconosce né il lirismo tragico di Sereni o Fortini, né il neocrepuscolarismo di Giudici o Risi, né la novità linguistica di Zanzotto. Forse l’assenza di alcuni testi fondamentali è dovuta proprio all’approccio generalista e deduttivo dell’antologia: mancano, per citare due esempi eclatanti, Arsenio di Montale e I fiumi di Ungaretti. In più, non compaiono poeti come Elio Pagliarani tra quelli più significativi degli anni Sessanta; tra quelli degli anni Settanta-Ottanta non si trovano autori come Giampiero Neri; mentre, tra quelli degli ultimi due decenni, non vengono riportati nomi significativi come Mario Benedetti.
Se il criterio di non dedicare spazio ad autori della Neoavanguardia o ad autori della contemporaneità più prossima può apparire logico per scelte di gusto critico, non può essere accolta la mancanza di alcuni testi imprescindibili della nostra tradizione poetica. Resta la pecca maggiore di questa antologia che pure rappresenta un volume considerevole per lo studio comparatistico e contrastivo della poesia italiana.
[a cura di D. Morante con la collaborazione di G. Zagra, Einaudi, Torino 2012]
Da lungo tempo annunciate, sono finalmente state pubblicate nell’ottobre 2012 le Lettere di e a Elsa Morante che compongono il volume L’amata, curato dal nipote ed erede Daniele Morante con la collaborazione di Giuliana Zagra: 596 documenti epistolari che, sebbene frutto di una corrispondenza irregolare, vede coinvolte in uno scambio ad alto tasso intellettuale ed emotivo con Morante alcune delle principali personalità del secondo Novecento italiano (Moravia, Calvino, Debenedetti, Landolfi, Parise, Pasolini, Natalia Ginzburg, Eleonor Fini, nonché De Filippo, Saba, Fortini, la generazione dei giovani intellettuali degli anni Settanta…), ma anche amici, conoscenti e ammiratori meno blasonati.
Indubbi sono i meriti del generoso lavoro svolto da Daniele Morante, alle prese con circa 5500 fra «lettere, cartoline e comunicazioni scritte» (p. VII), fortemente sbilanciate, peraltro, sul versante dei corrispondenti, tanto più che di molte minute morantiane ritrovate e qui trascritte non si sa se siano state effettivamente trasformate in lettere spedite ai destinatari; c’è da dire, tuttavia, che non ogni tassello dell’organizzazione del volume convince appieno. Innanzitutto, in conformità all’intenzione di conferire all’epistolario il valore di un’orientata «fonte biografica» (p. XI) – e tanto più orientata se si pensa che si è selezionato poco più di un decimo dell’archivio disponibile, lasciando fuori sia la corrispondenza di carattere commerciale ed editoriale che quella più genericamente ritenuta non «significativa » (p. XIX) –, i documenti sono stati distribuiti in quattro capitoli («…1940», «1941-1957», «1958- 1974», «1975-1985») preceduti, sul modello della Storia, da una cronologia della biografia morantiana. Sennonché, non solo su di essi aleggia la consapevolezza che «ogni periodizzazione del continuum temporale è arbitraria» (p. VIII), ma nemmeno è stata sempre rispettata la scansione temporale, con deroghe che, per quanto dichiarate nell’Introduzione, rendono più dispersiva la lettura; inoltre, in ogni capitolo, a lato dei vari carteggi nominali, è presente una corrispondenza varia che rivela un ordinamento un po’ ondivago e accoglie anche alcune missive di personaggi cui pure è dedicata a una sezione a sé.
Soprattutto, con un simile disegno strutturale, reso esplicito nella trama e nel sistema dei personaggi dal finale Commento epistolare alla vita di Elsa Morante, il volume rischia di trasformarsi in una «festa dell’intelligenza e dell’amore» (Gianni Venturi, 11/6/1973) in cui il secondo aspetto, più esistenziale, prende il sopravvento sul primo, più letterario, specie di fronte al predominante sentimento di gratitudine che attraversa le parole dei tanti che a Elsa si rivolgono e a cui essa, pur a fronte di una progressiva riluttanza allo scrivere lettere, risponde sul crinale di un inappagabile, ancora prima che inappagato, desiderio di affetto, stima e vita. Se così fosse, sembrerebbe di compiere, leggendo L’amata, non molto più che un gesto di indiscrezione, considerando poi che la stessa Morante ci teneva a ribadire che «le comunicazioni per lettera fra due persone si mandano chiuse […]. A meno che non si preferisca fare effetto sul portiere o sul fattorino…» (10/3/1971). Allora, per evitare l’impressione di stare aprendo le buste di una corrispondenza privata e restituire, invece, senso critico all’intera operazione, si tratterà di inglobare l’intelligenza nell’amore: in primo luogo, si dovranno individuare, sulla scia di quanto fatto da Zagra nelle note che accompagnano i capitoli, ulteriori rapporti intertestuali tra la scrittura privata e l’opera; più in profondità, poi, proprio queste lettere così personali serviranno a ricostruire il background della distinzione operata da Morante tra scrittori e letterati, nella quale solo ai primi è riconosciuta la capacità di indagare le relazioni umane nel mondo, e della costante rivendicazione, con ciò, del realismo della propria scrittura.
[Ponte alle Grazie, Firenze 2012]
Qualcosa di scritto è l’autodefinizione che Pasolini utilizzò più volte all’interno dello stesso testo per l’incompiuto Petrolio, l’opera ultima, «strutturalmente interminabile e programmaticamente incompiuta », alla stregua, del resto, di tutta l’opera pasoliniana, a recuperare invece l’ipotesi interpretativa di Antonio Tricomi, tra i massimi studiosi recenti dell’autore. Incompiutezza che si presta peraltro a definire anche quest’opera di Trevi, programmaticamente indecisa tra le memorie, il saggio e la ricostruzione autobiografica o romanzata di una sorta di triangolo d’amore-odio tanto più ambiguo e sfaccettato quanto più estremo ed esibito. Al centro della narrazione vi è infatti il periodo che l’autore trascorse presso il Fondo Pasolini di Roma, nei primi anni Novanta, alla ricerca di materiali per un mai più realizzato libro di interviste.
Custode e responsabile del Fondo, oltre che vestale della memoria (o meglio del culto) di Pasolini è una Laura Betti carognesca e infelice, autoritaria e sola, politically uncorrect e terminale. Una sorta di Laura petrarchesca all’incontrario, coi capelli da strega e l’andatura pachidermica. Il vincolo sadomasochistico che la lega alle sue vittime, tra le quali il Trevi personaggio è quella ideale, sfaccendato e squattrinato come si descrive attraverso gli occhi di Laura, sembra una versione parodizzata del rapporto fra carnefici e prigionieri in Salò: e sbaglia Carla Benedetti a vedere nella “sessualizzazione” abusata di Pasolini e nella sovrapposizione del piano biografico con quello autoriale un limite del libro di Trevi, perché è proprio di quella intersezione di piani e di quell’ossessione sessuale che Pasolini fece sia materia della propria opera, e di quella finale in particolare, sia cifra costante della propria vita, fino all’estremo rischio o sacrificio. Vittime e carnefici sono il tema in questione tanto di Salò che di Petrolio, opere cui Pasolini lavorò in contemporanea e che uscirono entrambe dopo la morte dell’autore.
Ed è dopo la morte di Laura Betti che Trevi ricostituisce il triangolo, o la catena degli amori impossibili: quello della stessa Laura per Pier Paolo, quello del giovane Trevi per Laura. Il ritratto di quest’ultima è infatti un ritratto di un impietoso così viscerale da non riuscire a mitigare se non occultare la fascinazione esercitata da una donna pure «insopportabile fino a risvegliare nei più miti un istinto omicida» (con definizione presa a prestito da Goffredo Fofi), in parole povere (sempre con Fofi): «un carattere di merda». Ed è persino un pretesto, l’interpretazione di Petrolio in chiave misterica che li conduce tutti, io narrante, Laura-la Pazza e il personaggio di Massimo Fusillo, anch’egli reale e contaminato con dati extratestuali (il côté sadomaso, tanto per cambiare), in Grecia, sulle tracce della chiave interpretativa eleusina.
Non convince, questa seconda parte, come non persuade la sottovalutazione della matrice politica di Petrolio, che viceversa di scandali e politica era intriso (anche senza voler per forza indulgere alla dietrologia delle informazioni segrete venute chissà come in possesso dell’autore, magari grazie ai contatti con l’ambiente della malavita e del crimine), com’era intrisa di politica la messa in forma dell’attitudine vittimaria e del suo contrario. Pasolini fu carnefice o vittima del suo mondo ideale o idealizzato, di una gestione libera e “pura” dei rapporti di potere, da quelli domestici e privati a quelli sociali e pubblici? Ed ogni vittima che si racconti come tale non diventa poi carnefice a sua volta, quando abbatte i confini del pudore e si racconta senza contorni?
Pier Paolo e Laura vorrebbero o potrebbero raccontarci, magari, un’altra storia, ma la vittima Trevi ha adesso il potere in mano, il potere della parola che sopravvive agli scomparsi.
[Laterza, Roma-Bari 2012]
Il titolo dell’ultimo libro di Marco Rovelli, pubblicato nella collana «Contromano» di Laterza, racchiude in una formula icastica il nucleo identitario delle terre di Massa, Carrara e delle Apuane che le circondano: «Per spaccare il marmo devi capire qual è la linea giusta, il suo verso. Se la segui, tagliarlo è facile. Se invece provi a tagliarlo diciamo al contrario, se vai contro il verso, non ci riesci: non c’è verso, proprio. E quello si chiama contro».
La narrazione – un ibrido che unisce autobiografia, reportage, analisi storico-politica – prende le mosse dal senso di inappartenenza del soggetto rispetto alla propria terra («L’ho odiata perché non ne trovavo l’anima») e al proprio presente: la Resistenza, le lotte anarchiche, il marmo e le montagne appaiono segnati da uno scarto che li rende inappropriabili, come se il passato si fosse chiuso definitivamente lasciando solo l’esperienza del vuoto a chi deve aprire gli occhi sull’oggi.
L’io narrante, «fuori sincrono, da sempre» rispetto alla storia, orfano del «padre putativo, quello che ha fatto il Sessantotto e gli anni Settanta», intraprende allora un percorso degno di chi ha il contro in testa e, liberandosi di una bile sterile e post-adolescenziale, tenta di ricostruire criticamente una trama che risolva le incertezze della propria identità.
Rovelli mostra come quella del margine sia una posizione privilegiata per raccontare la storia del mutamento che conduce al presente, e come la testimonianza delle vite particolari consenta di rispondere all’evanescenza dei padri – vicinissimo, in questo, alle posizioni di Recalcati: «Oggi possiamo usarli, quei padri, proprio in ragione della loro distanza. Perché non è con i loro simboli e le loro pratiche che cambieremo il mondo, perché il mondo ha cambiato formato. L’esempio, però, la loro testimonianza – è questo ciò che resta. E che ci rende liberi ». Il contro in testa si snoda dunque attraverso una pluralità di luoghi e di tempi; le osterie, le cave e i boschi della montagna, le piazze, le sedi storiche dei gruppi anarchici restituiscono le fasi di una storia che va dai moti del 1894 ai relitti della Zona Industriale. L’io narrante riesce a conferire una dimensione collettiva alla sua opera di traslazione della memoria (che sembra risentire del “maestro” Fortini) lasciando che la pagina si costituisca di una coralità di voci riportate come in presa diretta: i racconti di Carlo, Silvano, Ovidio Pegollo, Giovanni Pedrazzi, il Ciac – solo per citarne alcuni – e la tradizione dei canti popolari e d’anarchia sospendono momentaneamente il corto circuito tra il presente ed il passato consentendo a chi li ascolta di ricostruire pezzo per pezzo la propria genealogia, di accogliere e di rifiutare.
Non si tratta di un’operazione nostalgica né asettica: la scrittura di Rovelli è fatta dello stesso «materialismo viscerale» dell’Apuania, ma riesce ad incarnare l’asprezza così come il fondo poetico dei luoghi e degli eventi in una simbologia personale («Là, in quel silenzio intramato di campanacci di pecore al pascolo, e poi dai tonfi sordi delle cave, spalancai gli occhi alla circonferenza senza centro tutt’attorno, e sentii che i fantasmi incontrati nel cammino erano tutti lì, con me, e ognuno di loro era centro di quella circonferenza»).
Negli ultimi capitoli l’io narrante è pronto per setacciare il presente alla ricerca di nuove forme di resistenza, perchè solo dopo aver compiuto lo sforzo etico di ricostituire «le comunicazioni spezzate» la lotta di oggi può delinearsi e mostrare il nutrimento che riceve dal già stato; che si tratti di beni comuni – come comune era, un tempo, la proprietà delle cave – o di unirsi alle rivendicazioni dei nuovi emarginati, gli immigrati, con i fantasmi che, finalmente, «tornano a essere lo spirito di corpi che agiscono e costruiscono un mondo».
[trad. it. di E. Ferrero, Voland, Roma 2012]
A pochi mesi dall’edizione Seuil, uscita a marzo 2012 per il trentennale della morte di Georges Perec, Voland ha pubblicato in Italia Il Condottiero, romanzo giovanile finora inedito e a lungo considerato smarrito. La postfazione di Claude Burgelin fa luce sulle circostanze romanzesche del suo ritrovamento. Composto a partire dal 1957, il testo è sottoposto a Gallimard che in principio lo accetta e quindi lo rifiuta definitivamente nel dicembre del 1960. Nel 1966 a seguito di un trasloco il dattiloscritto è perduto da Perec insieme ad altri scritti giovanili, ma alcune copie vengono fortunosamente reperite negli anni ’90 da David Bellos, suo biografo e traduttore inglese.
Curiosamente, quello che Perec considerava il suo “primo romanzo compiuto” e in cui riponeva serie speranze di successo è la storia di un fallimento. Gaspard Winckler è un esperto falsario che da 12 anni opera per conto di un’organizzazione il cui vertice è Anatole Madera. Da oltre un anno è alle prese con l’ultimo e più importante lavoro commissionatogli, un quadro del Rinascimento per il quale ha scelto di rifarsi al Condottiero dipinto da Antonello da Messina nel 1475. La sfida alla realizzazione di un falso Condottiero assume però connotazioni che esulano dalla mera riproduzione tecnica. Gaspard non mira solo a eguagliare la perfezione formale di Antonello, ma alla «creazione autentica di un capolavoro del passato» (p. 30), alla riesumazione del milieu storico-culturale che nell’arte ha la sua sintesi, a una simbiosi totale tra realtà e rappresentazione. Il comandante dei mercenari di Antonello incarna inoltre l’antitesi ideale del protagonista. Con il suo sguardo sicuro e trionfante egli è il «ritratto della serenità, della forza, dell’equilibrio, della padronanza del mondo» (p. 80) mentre Gaspard percepisce con crescente consapevolezza la propria viltà e ipocrisia, l’estraneità di una vita vissuta per inerzia. Ormai prossimo al compimento dell’opera, Gaspard avverte l’insostenibile inadeguatezza del suo Condottiero e non può più terminarlo. È l’agnizione di un fallimento esistenziale. All’apice della disperazione, cerca il riscatto nell’unico gesto veramente creativo e liberatorio. La mano che impugnava il pennello brandisce un rasoio e cala sul collo inerme di Anatole Madera.
Fin dall’incipit («Madera era pesante») il lettore è posto di fronte al delitto appena commesso. Sorpreso mentre trascina il cadavere per le scale, Gaspard si barrica nel suo laboratorio sotterraneo. La sola possibilità di fuga è scavare un tunnel verso l’esterno prima che da fuori riescano a forzare l’ingresso. Nelle ore di concitazione che seguono l’omicidio, il sovrapporsi dei pensieri è reso in un monologo interiore a tre voci che alterna paragrafi in prima, seconda e terza persona. Con l’evasione dal laboratorio, nella seconda metà del libro il monologo si riversa in dialogo. L’interlocutore, Streten, figura anonima che offre riparo al protagonista, è più funzione fàtica che personaggio. In un procedimento a metà tra l’interrogatorio e la seduta di psicanalisi, lascia che Gaspard ricostruisca gli eventi, interviene con domande a forzarne le reticenze e guida la confessione verso il suo esito terapeutico.
«A cosa serve una coscienza?» è la domanda che percorre questo poliziesco in cui si intrecciano riflessioni etiche ed estetiche e nel quale si individuano facilmente, in fase germinale, molte delle tematiche della successiva produzione di Perec. Basti ricordare la presenza dell’alter ego Gaspard Winckler ancora in W ou le souvenir d’enfance e La Vie mode d’emploi. O il tema del falso che ne abbraccia tutto il progetto letterario e lo chiude circolarmente proprio nell’ultimo romanzo pubblicato in vita, Un Cabinet d’amateur. Il Condottiero, prova giovanile non priva di vizi e imperfezioni, ma greve di contenuti pronti ad esplodere, è allora già un testo imprescindibile per una comprensione completa del suo autore.
[trad. it. di S. Juliani, Le lettere, Firenze 2012]
La scomparsa della DDR e le ripercussioni sulle biografie dei singoli provocate da quel rivolgimento continuano a sollecitare l’intelligenza e la creatività degli scrittori tedeschi, in particolare di coloro che provengono dalla ex-DDR. Per chi è nato nei primi anni Settanta – è il caso di Julia Schoch (1974) – il dissolto Stato tedesco-orientale costituisce lo sfondo su cui prendono forma i ricordi legati a episodi dell’infanzia e della prima adolescenza, ovvero quelle memorie decisive per la formazione della coscienza individuale. Il subentrare alle soglie dell’età adulta di un nuovo ordine politico e sociale ha al contempo permesso a coloro che nel 1989-90 avevano vent’anni o poco più di usufruire di un’inaspettata libertà e di poter accedere a percorsi formativi e lavorativi sino ad allora preclusi ai cittadini della Germania socialista.
Le sorelle di cui si racconta nel breve romanzo della Schoch incarnano con i loro destini contrapposti le due strade che si aprivano a chi abbandonava le abitudini rassicuranti acquisite nella chiusa e stagnante DDR per affacciarsi sulla nuova realtà stimolante e caotica dell’Occidente capitalista. Il ripiegamento su se stessa e, al contrario, l’accettazione entusiastica delle nuove opportunità costituiscono appunto i differenti stati d’animo che colgono le due giovani donne: la sorella maggiore che, rimasta nel luogo di nascita, si spegne in una esistenza grigia e malinconica, e la sorella minore «sempre alle prese con partenze e arrivi». Il libro, che ricorda nel soggetto e nel tono le Riflessioni su Christa T. di Christa Wolf, si configura come una commemorazione intessuta dalla sorella minore, l’io narrante, in ricordo della sorella maggiore, morta suicida a New York. La narratrice, dopo aver rievocato la comune infanzia in una cittadina sulla baia di Stettino sede di una guarnigione militare (facile scorgervi Eggesin, la città dove è cresciuta l’autrice, figlia di un ufficiale della Guardia Nazionale), ricostruisce le vicende della sorella: sposatasi molto giovane con un uomo del posto, aveva avuto due figli e non si era mai allontanata dalla città natale, divenuta dopo la dismissione della base militare una città fantasma. La morte a New York, emblema della metropoli disorientante e alienante, si staglia dunque in simbolica contrapposizione con la stanzialità della donna. Ampio spazio è dedicato dalla narratrice alla relazione amorosa che la sorella aveva reintrapreso negli ultimi tempi con un uomo già frequentato negli anni Ottanta quando questi prestava servizio militare presso la base. La sorella, che continua a chiamare l’amante «il soldato», nonostante l’uomo si ripresenti sul posto come cittadino in borghese, vive la relazione all’insegna della memoria struggente del passato e delle possibilità non realizzate: «Quando passeggiava accanto a lui, passeggiava accanto a una variante della sua vita. Quando lo abbracciava, abbracciava il fantasma di un’altra vita».
Con una prosa laconica e sorvegliata la Schoch ricostruisce efficacemente l’atmosfera triste e desolante di un luogo di provincia sperduto e sonnacchioso e lo spegnersi di ogni slancio vitale in una donna stanca e immalinconita. L’evanescenza dei personaggi e l’esilità della vicenda rendono tuttavia il racconto debole e poco convincente. Troppo vaghi e imprecisati restano i motivi che hanno provocato la crisi esistenziale della donna; nulla è detto, ad esempio, del marito e dei figli e così il contesto familiare, che sarebbe risultato utile a comprendere la depressione della donna e la sua tragica decisione finale, risulta ben poco profilato. L’assunto narrativo di base, ovvero la formulazione di ipotesi sugli ultimi mesi di vita della sorella, non basta inoltre a giustificare la scarsa plausibilità di alcuni passaggi decisivi, quali la decisione di recarsi a New York per porre fine alla propria vita da parte di una donna che non si era mai allontanata da casa.
[trad. it. di A. Arduini, Neri Pozza, Vincenza 2012]
Il libro d’esordio di Miroslav Penkov, nato in Bulgaria nel 1982 e residente in America dal 2001, si compone di otto racconti, alcuni dei quali hanno già ricevuto importanti riconoscimenti: nel 2008 la «Southern Review» ha assegnato al racconto Buying Lenin – riproposto nella raccolta – il premio «Eudora Welty» 2007 per la narrativa; un mese dopo, lo stesso testo è stato inserito da Salman Rushdie e Heidi Pitlor nell’antologia 2008 Best American Short Stories; nell’ottobre 2012, infine, il racconto che dà il titolo al volume ora pubblicato da Neri Pozza ha vinto il «BBC International Short Story Award».
Il tema conduttore del libro è la Bulgaria, intesa come realtà geografica e politica. Questo aspetto si manifesta specialmente nel secondo racconto, A est dell’Occidente, dove il confine tra ciò che appartiene all’Occidente e ciò che ne rimane escluso per pochi metri diventa tangibile: è il fiume che taglia il paese di Bulgarsko Selo, separando la sponda serba (occidentale) da quella bulgara (sovietica). Un confine che può essere spostato, quando alcuni abitanti deviano il corso del fiume, oppure attraversato, come fanno Naso e Vera incontrandosi in una chiesa sommersa dalle acque. La relazione tra i due personaggi cresce nell’unico spazio di neutralità esistente e, proprio come l’acqua fluente di cui si alimenta, non riesce a creare un legame stabile, esaurendosi tra rinvii ed attese finché Naso ne trae l’amaro incentivo ad andarsene e a rompere ogni legame con la Bulgaria. Viene così negato il radicamento del personaggio alla terra nativa, inaugurando quella fenomenologia dell’esule che registra un’altra occorrenza nella vicenda della sorella di Naso e del suo fidanzato serbo, freddati da una sentinella mentre pianificano di fuggire in Germania, e che crea un legame diretto con la biografia dell’autore, emigrato dalla Bulgaria negli Stati Uniti non ancora ventenne.
Il prato opaco della copertina, contornato da un cielo cupo che giganteggia su una solitaria figura umana ritratta di spalle, è la sintesi di questa Bulgaria: una terra in cui resistere equivale ad arrugginire e in cui il significato stesso dell’esperienza si definisce in funzione dell’Occidente, sia come proiezione mentale e utopica (Una lettera, Ladri di croci, L’orizzonte notturno), sia come effettivo espatrio (Comprando Lenin, Una fotografia con Yuki, Devshirmeh). Ma nessun personaggio ottiene una piena redenzione. La Bulgaria diviene un corollario antropologico di lacerazioni insuperabili, nel senso che i personaggi non si liberano mai delle ombre del passato. Penkov tratteggia questo processo senza indulgere al patetismo, bensì affrontando una varietà di temi che include diversi gradi di giudizio sul comunismo (dal rispetto in Makedonija e dall’equilibrio in Comprando Lenin, alla condanna in Ladri di croci e L’orizzonte notturno); la denuncia delle aberrazioni religiose (Devshirmeh); le connessioni tra denaro, cultura e destino (La lettera); le minoranze etniche (Una fotografia con Yuki).
Di A est dell’Occidente convince lo stile maturo della narrazione, che sa mediare tra una scrittura metaforica propensa agli sconfinamenti nel fantastico, e una scrittura mimetica, più evidente nei dialoghi. La caratterizzazione dei personaggi è convincente, e resiste alla difficile prova della narrazione breve.
[Francia-Austria-Germania 2012]
Les Vieux, Ces deux-là, Quand la musique s’arrête, alla fine Amour.
Se può essere spiazzante il titolo (tardivamente) scelto da Michael Haneke per il suo ultimo film, non sorprendono invece la sorvegliatissima regia, gli attori impeccabili e la radicalità con cui ha espresso questo amore.
Parigi, interno borghese, una coppia di vecchi insegnanti di musica. Un ictus colpisce la donna che presto si trova paralizzato il lato destro del corpo. È solo l’inizio di un declino fisico e cognitivo senza scampo. Consapevole del suo destino, cerca di gettarsi dalla finestra ma interviene il marito. Il quale, quando la malattia è in stato avanzato, la soffoca con un cuscino. È un gesto d’amore compiuto con un atto di violenza. E la riflessione sulla violenza è il filo rosso che tiene insieme la filmografia di Haneke. Un percorso coerente, il suo, con tutte le carte in regola per farne un venerabile maestro, direbbe Arbasino.
Il livello di consacrazione raggiunto dal regista austriaco negli ultimi dieci anni è notevole. Il festival più prestigioso del mondo, quello di Cannes, ha premiato tutti i suoi film presentati in concorso; gli ultimi due – Amour e Il nastro bianco – con il massimo riconoscimento. Sempre in Francia – patria della “politica degli autori” – è appena uscito un librointervista sul modello del celebre Hitchcock/Truffaut (Michel Cieutat, Philippe Rouyer, Haneke par Haneke, 2012). L’ascesa del cineasta nell’Olimpo della regia è un fatto conclamato. Lo scorso 28 ottobre, sull’inserto culturale del «Sole 24 ore», Goffredo Fofi ha scritto che «il suo, come quello dei grandi registi del passato, è un cinema che constata e ci chiede di constatare. E che giustamente esige dallo spettatore che sappia alzarsi al livello del suo discorso e della sua espressione. Non più di questo, ma è il massimo. E andare a cercare il pelo nell’uovo sarebbe, di fronte a questo, più che irrispettoso ridicolo».
Non è difficile spiegare l’aura di rispetto che emana questo film, caratterizzato com’è da rigore formale (uso ascetico dell’inquadratura fissa, pochi movimenti di macchina), sobrietà recitativa, assenza di sentimentalismo e di happy ending. È quasi un protocollo da seguire per soddisfare le aspettative dello spettatore colto, che non va al cinema per vedere una convenzionale storia d’amore. Di storia d’amore comunque si tratta. Certo, il fatto che i titoli presi in considerazione da Haneke la volessero nascondere dietro un velo di malinconia (Les Vieux), di anonimato (Ces deux-là) o di senso della fine (Quand la musique s’arrête), e che quello definitivo sia stato suggerito da Jean-Louis Trintignant – protagonista con Emmanuelle Riva (ricordate Hiroshima mon amour?) – è significativo. Come se la mente del regista non potesse generare questa parola. Sollecitato sulla presenza, nei suoi ultimi due film, di aspetti positivi della vita, Haneke ha dichiarato: «À vrai dire, je pense que la capacité à montrer des choses positives, en évitant le kitsch, augmente avec le pouvoir artistique dont on dispose » (Haneke par Haneke, p. 305).Questa affermazione è illuminante, perché mostra come le sue scelte estetiche siano state sempre vincolate, come lo spazio dei possibili nel cinema d’autore sia costituito da norme cogenti.
A partire dagli anni Ottanta la tematizzazione della violenza contraddistingue il cinema austriaco d’essai. Con Benny’s Video (1992) Haneke ha iniziato a lavorare in questa direzione in modo radicale, contrapponendosi alla prospettiva spettacolar-hollywoodiana. Funny Games – nel 1997 film-scandalo a Cannes, dieci anni dopo autoremake shot-for-shot girato in America – ha come modello il pasoliniano Salò: questi accenni sono sufficienti per farsi un’idea del progetto estetico del regista. E della condotta che ha osservato per conseguire il potere artistico di cui ha parlato. Con la rappresentazione di sentimenti positivi Amour, ancor più che Il nastro bianco, certifica la nuova posizione raggiunta da Haneke, quella di un venerato maestro che senza timori può finalmente dare spazio anche a quelli che, da melomane amante di Mozart, potrebbe lui stesso definire «bei momenti».
[a cura di B. Scapolo, Mimesis, Milano-Udine 2011]
Il primo Novecento europeo è animato dalla discussione sulla capacità di alcune arti di afferrare l’assoluto, il sovraumano, il metafisico in genere. È noto a tutti, ad esempio, il fortunato recupero che conobbero le tesi sulla musica di Schopenhauer, arte, secondo il filosofo, capace di riprodurre l’invisibile Volontà, motore di tutta l’esistenza; un’arte che trovava la propria superiorità – rispetto alla letteratura, alla scultura e soprattutto alla pittura – nel suo non essere referenziale o legata al mondo circostante. Sulla stessa scia si mosse anche Nietzsche, con la sua proposta di musica dionisiaca, attraverso cui sprigionare la più intima essenza umana, e raggiungere così un livello che più tardi verrà definito superumano.
Valéry fa suo questo dibattito e, chiamato a partecipare al sontuoso e prestigioso catalogo Architectures, nel 1921 scrive un dialogo platonico: Eupalinos o l’architetto. Attraverso un genere che non esiste, quello appunto del dialogo (che si situa tra l’atto letterario e il saggio senza coincidere con nessuno dei due poli), Valéry colloca l’architettura al vertice delle arti: il motivo non è solo nella sua autoreferenzialità, ma anche nel fatto che la sua realizzazione prevede l’atto del “costruire”. In maniera simile a quanto teorizzava negli stessi anni Benjamin in Il concetto di critica riferendosi alla poesia romantica, l’architettura sarebbe un’arte che raggiunge l’assoluto su basi processuali e non immediate. Se ne ricava pertanto un prodotto decisamente concreto e contingente, in grado al contempo di offrire a chi lo contempla l’idea di universale: non sarà un caso, del resto, se Jauss nella sua Estetica e interpretazione letteraria citerà proprio Eupalinos come una delle proprie opere di riferimento. E opera di riferimento Eupalinos fu anche per Montale, all’altezza degli Ossi di seppia. Anche il poeta infatti rifletteva sulla paradossale condizione umana, condannata a non valicare mai l’«erto muro» che divide l’uomo dal miracolo, e allo stesso tempo a misurarsi sempre su un orizzonte metafisico irraggiungibile.
Ma non fu solo Montale a subire il fascino del dialogo di Valéry: la prima traduzione italiana di Eupalinos è licenziata da Giuseppe Ungaretti nel 1932; e a questa segue nel ’47 quella, altrettanto prestigiosa, di Vittorio Sereni. A ben vedere, i tre nomi chiamati in causa ruotano tutti, sia pure con differente partecipazione, intorno al concetto di modernismo (a cui afferisce lo stesso Valéry): Montale, infatti, del modernismo può essere definito il poeta maggiore, così come Sereni il suo più insigne erede; mentre Ungaretti, la cui matrice modernista è più controversa, non può essere comunque compreso se non in relazione al coevo contesto italiano ed europeo.
Dopo più di sessant’anni la casa editrice Mimesis, per le cure di Barbara Scapolo, ripropone meritoriamente un testo decisivo della più alta cultura europea di inizio secolo. La traduzione senz’altro non può competere, per tasso di poeticità ed eleganza, con le precedenti. Ma ciò che perde in letterarietà, lo recupera sul piano della fedeltà testuale (senza necessariamente essere una “brutta fedele”). Inoltre la scelta di accorpare al dialogo alcuni documenti epistolari in cui Valéry discute la sua posizione, aiuta senz’altro a rendere più perspicua l’opera. Ma ciò che interessa maggiormente, forse, è il quadro generale, lucidamente chiarito dalla curatrice nella puntuale postfazione al volume: anche queste pagine infatti permettono di valutare quanto Eupalinos sia stato decisivo nel dibattito europeo di primo Novecento.
Non può non colpire che un testo come quello di Valéry venga riproposto proprio in questi anni, nei quali le chimere di una letteratura puramente ludica si sono definitivamente eclissate, e riprendono piede il prestigio e la fiducia nei confronti della letteratura. L’alluvione che aveva sommerso il pack di oggetti importanti ma desueti, tra cui anche «il Valéry di Alain», è veramente terminata: e la riflessione sul modernismo, a cui partecipa anche questa nuova traduzione valéryana, sembra in qualche modo volerlo testimoniare.
[a cura di F. Schultheis, Ch. Frisinghelli, A. Rapini, Carocci, Roma 2012]
È l’ultimo libro pubblicato in italiano di e su Pierre Bourdieu. In attesa della traduzione di Sur l’État, l’ultimo corso al Collège de France, In Algeria va alle origini. È un libro ricco, composito, che impone al lettore attenzione e pazienza; raccoglie molti materiali, alcuni inediti altri già pubblicati, alcuni noti altri tradotti per la prima volta, alcuni di Bourdieu altri dei curatori, inframmezzati a fotografie bellissime, tutte di Bourdieu.
Il lessico e la prosa del sociologo sono quasi disorientanti per un neofita, ma l’apparato iconografico del libro ripaga abbondantemente il lettore ignaro, e magari solo appassionato di fotografia o di Algeria. La scelta dei testi bourdieusiani è stata accurata e soprattutto essenziale: ci sono quasi tutti gli aspetti rivoluzionari del suo pensiero, senza dover partire ancora una volta dai concetti. Non si parla di campo, ad esempio, ma le pagine riportate da Le Déracinement contengono il nucleo indiviso da cui sprigiona l’energia che fa muovere il sistema: è qui che si comprende quanto vitale sia la “cassetta degli attrezzi” del sociologo per svelare i dispositivi di dominio. Esemplare, da questo punto di vista, il passaggio tratto dal Senso pratico sull’hexis corporea, «mitologia politica realizzata, incorporata, diventata disposizione permanente, modo durevole di stare, di parlare, di camminare, quindi di sentire e di pensare » (p. 151). Con poche parole si libera il campo da pile di carta e sedicenti studi “di genere”.
Tutto questo ha un fondamento temporale e geografico, l’Algeria francese, il cui valore fondativo si coglie nell’Introduzione di Rapini: è in Algeria che prende forma l’auto-socio-analisi, il vero cambio di passo del “metodo” Bourdieu. Osservando il sottoproletariato urbano e i contadini sradicati, Bourdieu comprende che la rivolta dei sottoproletariati del mondo non sarà mai rivoluzione. Nasce qui la sua diffidenza per il terzomondismo, non certo un pensiero che si pone tra la speranza e il possibile, ma esclusivamente nell’ambito della speranza più pura, messianica, salvifica. Niente di più lontano da Bourdieu: il quale, come può capire benissimo anche chi legga per la prima volta i suoi scritti, non è per questo un anti-rivoluzionario, al contrario, è un fomentatore di rivoluzione, quella “vera”, non solo sperabile ma possibile. Questa è la risposta più semplice, ma evidentemente la più difficile da comprendere, a quanti ancora accusano Bourdieu di determinismo.
Un secondo testo prezioso è l’intervista a Schultheis del 2001. Qui c’è l’esercizio dello sguardo dell’etnologo portato su se stesso: il grande lascito di Bourdieu, ancor più grande ora che la cosiddetta democratizzazione dell’università degli anni Settanta- Ottanta del Novecento ha dato i suoi frutti. Quanti oggi siamo come lui, sradicati rispetto all’ambiente di provenienza, abbiamo sempre davanti a noi il bivio fra «il populismo e la vergogna di sé legata al razzismo di classe» (p. 96). In quel “sé” c’è un mondo proletario, piccolo-borghese, di provincia, che semplicemente non può comprendere le regole del gioco del campo accademico. E quelle regole, inculcateci in anni di università, sono entrate in crisi, e solo l’auto-socio-analisi può consentire a chi ancora vuole giocare in questo campo di certificarne la morte e andare oltre, rifondando i saperi di un’università che ha ormai esaurito il suo ciclo. Solo così si infrange l’illusione del luogo comune nel quale siamo, più o meno consapevolmente, tutti immersi: il rinnovamento generazionale. Tutto questo, Bourdieu lo scopre nell’Algeria della francesizzazione che, letta con queste lenti, diventa un laboratorio di costruzione sociale impressionante. Lontano dalle patrie europee dei diritti umani, l’individualismo moderno vi mostra la sua complessità, dove la trasgressione della regola diventa la regola e la nuova protezione dell’anonimato si sostituisce a quella del gruppo sociale tradizionale: «come la terra, come la pentola, l’onore ha cessato di essere indiviso» (p. 180).
[Manni, Lecce 2011]
Nella prima metà dell’Ottocento ha luogo una rivoluzione antropologica, che conduce alla nascita dell’individuo moderno, proiettato non più nella sfera pubblica e sociale, ma in quella individuale e privata. Un simile smottamento d’assetto, che comporta una ricerca della verità e del senso non più garantita da ruoli e istituzioni, apre un ventaglio maggiore, e terrificante, di possibilità, e impone all’io di confrontarsi con i concetti di assoluto e infinito. Il giovane Benjamin, nella sua tesi di laurea sul Concetto di critica nel romanticismo tedesco, aveva perfettamente colto il punto, tanto da leggere Novalis e Friedrich Schlegel unicamente nel loro rapporto con l’entità trascendente, e nel loro tentativo di cogliere ciò che è al di là dei limiti del contingente.
Guglielmi, in questi saggi leopardiani redatti tra il ’96 e il 2002, parte proprio da queste problematiche (inizio Ottocento, soggettività e infinito, Benjamin). In opposizione ad un certo ottimismo imperante (che pervase anche Ludovico Di Breme), e con un tempismo e una lucidità eccezionali, Leopardi colse la rivoluzione culturale in atto, indicando nella ragione non la via del miglioramento, ma lo strumento che uccise, senza possibilità di ritorno, le favole antiche, e nella verità non un innalzamento dell’uomo, ma solo un ulteriore passo verso il nulla. Sicché, privato dell’immaginazione produttiva e delle «favole che non erano come presso i moderni invenzioni di poeti o ornamenti di letteratura, ma animavano popoli e civiltà» (p. 145), ma non spogliato della tensione verso la ricerca del senso, l’uomo leopardiano si trova ad essere condannato a un costante ed irredimibile senso di mancanza (la penia platonica), da cui scaturisce un altrettanto inappagabile desiderio di piacere: un piacere svincolato dall’oggetto, ovvero talmente illimitato e infinito da rendere l’assoluto il naturale orizzonte dell’uomo moderno.
Un orizzonte, però, mai raggiungibile e riconducibile a sé, poiché la parola umana, in quanto finita, è sempre inadeguata e deficitaria nei confronti del trascendente: l’infinito pertanto si istaura nell’io, ma solo come dilaniante mancanza. Tutt’al più al soggetto rimangono l’indefinito, che in maniera neanche troppo ossimorica rappresenta l’inestinguibile telos verso l’assoluto e la denuncia dell’inaccessibilità dello stesso, e l’immaginazione, autentica protesta contro l’imperio della ragione. E proprio l’immaginazione, per il Leopardi di Guglielmi, rappresenta una risorsa inesauribile: non è certo quella degli antichi, capace di dare vita alla natura naturans, ma piuttosto la facoltà di aprire la prospettiva sulle molteplici possibilità; una facoltà che la poesia (il benjaminiano «medium della letteratura », p. 18) deve far propria e costantemente liberare nel suo farsi. Certamente, ed ha ragione la Lorenzini ad indicare in questo elemento un tratto peculiare della riflessione di Guglielmi, la letteratura, da quando ha cessato di essere organica al mondo circostante, necessita sempre di un lettore capace di mettere in moto il meccanismo immaginativo depositato e strutturato nel testo (ancora il Benjamin del Concetto di critica), pena il silenzio, la morte, l’inutilità.
Come spiega lucidamente Guglielmi nell’intervento posto in chiusura, questo è proprio il compito della critica, sia nella sua veste ricettiva (l’atto di lettura che permette al testo di vivere), sia in quella creativa (la critica «è essa stessa un genere letterario», p. 177): al pari dell’immaginazione leopardiana, la critica deve volgere lo sguardo su possibili universi, semmai addirittura crearli. Scrive infatti Guglielmi, nel ’96, in piena temperie postmoderna: «Si parla oggi di fine della modernità, e di post-storia. E la modernità sembra in effetti essere giunta a un punto di paralisi. Il domino del presente ha oscurato l’orizzonte storico. La storia, per altro, intesa non metafisicamente ma come orizzonte di possibilità, resta il rimosso della post-storia. Ed è al possibile che è interessata la critica» (p. 187): critica, ovvero Scienza del possibile.
[Salerno, Roma 2012]
Se la monografia è un testo argomentativo dedicato a una singola questione, ovvero a una sola personalità letteraria, scrivere una monografia su Ungaretti, come ammette Saccone stesso nell’introduzione, certamente è un azzardo. Il fatto è che in questo autore, tanto studiato apparentemente ma in realtà non così spesso affrontato per intero, il principio di separazione salta quasi sempre, non funziona; in Ungaretti di esclusivamente singolo, sia al livello della biografia che della scrittura, non c’è niente.
Tutto è frammento e tutto è sintesi; tutto, dunque, sta insieme, ma non secondo la banale mitografia del rapporto vita-opera, piuttosto dentro la concretezza, sempre cercata, dell’esperienza: «sono un gran soldato dell’arte» – scriveva il poeta nel 1918. La sua vita è “originale”, ma l’originalità in gioco è tanto diversa da quella che intendeva Zeno mentre passeggiava con Guido Speier su per giù negli stessi anni di stesura del Porto Sepolto: presuppone sempre uno scarto dalla norma, dai luoghi comuni, anche in senso incendiario e avanguardista, e nondimeno rivendica il diritto a un’espressione di sé individuale ma, nel medesimo tempo, tesa alla partecipazione totale e condivisa. La seconda stagione del Sentimento del Tempo certamente incurverà questa tensione verso un essenzialismo molto più decantato, ispessendosi nel frattempo di memoria letteraria e di un metro molto più regolare, come si spiega nel capitolo terzo che fa da cerniera alle due fasi; ma il gesto di offrire la vita (intesa pure come studio e lavoro: di saggista, critico d’arte, corrispondente di viaggio, insegnante, conferenziere, traduttore) in pasto alla scrittura rimane una costante.
Persino quando si fa più ordine, questo furore si consuma senza mai esaurirsi: le parole con cui Ungaretti definisce Jacopone da Todi in una lezione brasiliana valgono anche per lui: «l’interprete più completo, più essenziale, più intenso delle passioni del suo tempo» (p. 178). Del resto, stiamo parlando dell’autore italiano novecentesco più cosmopolita: nato a Alessandria d’Egitto, vissuto a Parigi, a Roma, in Brasile (dal 1937 al 1942), a New York. Di conseguenza, quando si parla di Ungaretti, come testimonia il titolo complessivo scelto per il corpus poetico (Vita d’un uomo), bisogna azzardarsi, per l’appunto, a unire e separare, comporre e scomporre, ossia fare i conti non con un singolo testo, un singolo libro, una singola stagione o una singola attività, ma con quello che si potrebbe chiamare il “sistema Ungaretti”.
Per stringerlo in un intero, la monografia di Saccone è composta da nove sezioni, dove i tre tempi fondativi dell’Allegria (cap. II), di Sentimento del tempo (cap. IV) e del Dolore e della Terra promessa (cap. VIII) si alternano e si arricchiscono del confronto con le esperienze culturali, lavorative ed esistenziali ad essi simultanee: così la poetica della memoria articolata in Sentimento conquista profondità dalla rilettura degli interventi su Dante, Petrarca, Vico, all’epoca dell’insegnamento in Brasile, oppure attraverso le traduzioni del sonetto XV di Shakespeare (dove «incostant stay» diventa «permanenza incostante »: p. 207), di Racine, o di Blake.
Il commento ai testi è rigoroso e aggiornato di categorie filosofiche che consentono di ripensare la dialettica di contingenza e durata, o ascensione e impurità attraverso Bergson; le considerazioni sullo stile, sulle varianti (Ungaretti è poeta dalle «incessanti revisioni »), sulla tessitura fonico-ritmica, o sull’architettura dei singoli libri cercano di capire e discutere nessi di senso (per esempio tra identità italiana e identità poetica: p. 58) e un’inquietudine sperimentale che vanno ben oltre il territorio della retorica, senza per questo trascurarla, anzi valorizzandone, tra le altre, le risonanze barocche o leopardiane (un paio di rapidi esempi: l’analisi di O notte e di Silenzio in Liguria, alle pp. 111-112; o di Danni con fantasia, alle pp. 126-127) – d’altronde il mito della scrittura immediata non regge già all’altezza del Porto.
[Edizioni d’If, Napoli 2011]
Quel «quanto di erotia» che all’inizio del Pasticciaccio il narratore convoca a spiegare la lapidaria affermazione di Ingravallo («i femmene se retroveno addó n’i vuò truvà»), non era sfuggito alla critica; ma Frasca ha voluto interpretare il termine «quanto » in senso tecnico-scientifico, come un richiamo alle teorie della meccanica quantistica, che in anni molto vicini al 1927 in cui il romanzo è ambientato aveva fatto un progresso straordinario grazie a Schrödinger e alla sua equazione che descriveva il comportamento statistico delle particelle nel mondo subatomico.
Ipotizzando l’intenzione gaddiana di trasferire le scoperte più recenti della fisica nella stoffa del romanzesco, e seguendo il collegamento, ben più che suggerito dal testo ma tutto da interpretare, tra microfisica e pulsioni sessuali, Frasca ha ricostruito un Gadda con Freud e Schrödinger, dove la preposizione conserva il duplice senso di vicinanza (o analogia), e di strumentazione con cui l’oggetto da indagare viene avvicinato. La tesi di fondo di questo libro è che l’autore del Pasticciaccio abbia voluto far muovere la struttura del romanzo secondo il principio quantistico di sovrapposizione, e abbia voluto articolarne gli snodi secondo gli effetti di quel principio, l’interferenza e l’entanglement. Due particelle sono entangled quando, pur non muovendosi lungo percorsi predicibili, sono così strettamente accoppiate che qualsiasi azione su una di esse produrrà istantaneamente una reazione anche nell’altra.
Appoggiandosi su tale presupposto, Frasca dà una spiegazione persuasiva ed elegante dei legami tra i personaggi del Pasticciaccio, leggendo come entangled le coppie e le serie che popolano il romanzo: i due delitti, le due refurtive, i due investigatori, e così via. «Gliuòmmero», argomenta Frasca, è una buona traduzione di entanglement.
Il libro rivela però il suo aspetto più importante quando illustra i motivi della scelta di Gadda. La fisica quantistica si addentra nel funzionamento della materia sulla scala del molto piccolo, e punta dunque alla conoscenza del reale, ma operando con mezzi matematici completamente formalizzati è priva di ricaduta intuitiva: dei suoi procedimenti e dei suoi risultati non si dà immagine. Il romanzo invece, e la letteratura tutta, sono per costituzione intrecciati all’immagine, e all’immaginario. Se Gadda è, secondo sua dichiarazione, un «realista non contrito », uno dei suoi problemi è combinare la nuova idea del reale con la necessità di darne conto in immagine, perché non si può vivere senza un’immagine del mondo. È a questo attrito, sembra dire Frasca, che si deve la brusca interruzione, e il dire-ametà, dell’opera. Credo che una attendibile riformulazione del quadro possa suonare così: il Reale è l’impossibile, ma pur senza presentarsi mai, è quel che continua a farsi sentire: occorre ascoltarlo come si può. Introduco questo lacanismo per segnalare un’altra e fondamentale interferenza, quella del critico con l’oggetto studiato: come Ingravallo, osservatore e insieme portatore di un guasto, ossia di un carattere singolare proprio perché deviante, indaga e deforma i casi (che diventano «i “suoi” delitti »), così Frasca descrive e modifica Gadda alla luce dei suoi temi e dei suoi autori-faro, secondo un progetto di «storiografia espressionista» che porta avanti da anni.
E che qui lo porta, seguendo l’interrogativo gaddiano sulle responsabilità che avevano condotto l’Italia al Ventennio e poi alla guerra, e tenendo a fronte l’esempio di Joyce, a veder tracciato nel romanzo il quadro di una società in preda alle tendenze sadiche e omicide, ma regolamentate nelle burocrazie, delle “forze dell’ordine” (maschili e omoerotiche), coadiuvate dall’«opera rimagliatrice» di Zamira-Alcina, maga e prostituta, che per Frasca è cifra dell’immaginario nella sua versione più incantatrice, paralizzante, e, gaddianamente, “femminilizzata”. A opporsi a questa stretta fatale saranno, secondo Frasca, nel Pasticciaccio del ’57, le isteriche, Liliana in testa: pagando il tentativo con la vita.
[Quodlibet, Macerata 2011]
La scrittura di Celati è come il cinema di cui parlava André Bazin: un’arte impura. Luogo privilegiato della «memoria disfatta», incapace di definirsi se non per sottrazione, essa tende ad esplicitare il proprio andamento interno, attraverso l’impiego che suggerisce di materiali diegetici preesistenti. Lungi dall’alimentare una semplice rete di richiami intertestuali, questi ultimi sono tenuti a rendere conto, non soltanto della posizione che occupano in seno ad un discorso estraneo – se non addirittura antitetico – rispetto a quello d’origine, ma anche e soprattutto del processo di rifunzionalizzazione critica messo in atto, spesso e volentieri a fini parodici. A ben guardare, proprio la declinazione in senso parodico di motivi desunti, per esempio, dalla tradizione modernista, rappresenterebbe una chiave d’accesso privilegiata all’intelligibilità dell’intera produzione autoriale – variopinta e poliprospettica, certo, ma tutta tesa a giocare con le forme altrui, per non prendersi gioco di se stessa.
Tale è l’ipotesi avanzata da Giulio Iacoli, che nel suo ultimo libro insiste sulla necessità d’intendere questa ed altre più complesse isotopie tematiche, sia come delle soluzioni di continuità – volte a far sì che i diversi tasselli di un percorso in fieri riescano ad organizzarsi e “fare sistema” –, sia come dei paradigmi indiziali, studiati apposta perché il lettore, decifrandone le ragioni, debba infine coglierne la portata semantica e macrostrutturale. A sostegno della sua posizione – e per mettere in evidenza le specificità di una prosa che sembra configurarsi sempre in maniera analoga, indipendentemente dagli ambiti editoriali a cui si rivolge – Iacoli ricorre ad esempi tratti da romanzi, saggi o contributi teorici, quasi a voler sottolineare – anche nella pratica – fino a che punto l’attraversamento di generi è necessario, qualora ci si sforzi di evitare il già detto, auspicando ragionamenti di ampio respiro.
La tecnica è quella, ben nota, dell’analisi a campione. Quanto alla scelta dei passi citati e discussi, si vede bene che è stata ponderata, affinché «la specie dei celatiani incalliti» possa riconoscervi degli spunti di riflessione inediti.Ciò detto – bisogna ricordarlo – si tratta di una scelta effettuata ad hoc per soddisfare lo specialista tanto quanto il curioso, ovviando abilmente – e come già in Atlante delle derive (2002) e La percezione narrativa dello spazio (2008) – ad ogni sorta di autoreferenzialità.
Sì, perché se è vero che La dignità di un mondo buffo è una delle prime monografie esaustive su Celati, è altrettanto vero che gli interventi che vi sono confluiti – testimoniando di una ricerca condotta in un arco di tempo superiore ai dieci anni – lasciano trapelare la volontà di condividere con un pubblico vasto ed eterogeneo un chiaro interesse di natura scientifica tanto quanto la passione per un intellettuale «anticlassico», «fuori dai canoni», e tuttavia destinato, suo malgrado, a «divenire canonico». Del valore affettivo che ha per Iacoli questo volume – articolato in sette capitoli distribuiti quasi equamente in due sezioni distinte, la cui asimmetria sembra pronosticare qualche approfondimento a venire –, portano un segno tangibile la nota introduttiva – redatta in uno stile più personale, a tratti diaristico – e le pagine dedicate – non senza ironia – al Celati eroticus. Significativamente collocate in chiusura, esse ambiscono ad affrontare la dimensione corporea – non per forza sessuale – di finzioni abitate da una fitta galleria di tardo-adolescenti inquieti, alle prese con pulsioni di vario genere, spesso «lesive dell’ordine sociale costituito».
Accompagnate da un apparato di note più dettagliato, ma meno erudito che altrove, le divagazioni che vi si trovano espresse servono – è ovvio – ad esplorare un terreno d’indagine finora un po’ trascurato, ma anche a lasciar indovinare – fra le righe – l’ammirazione ed il rispetto provati dal critico nei confronti dell’uomo – non esclusivamente dello scrittore –, in virtù della sua creatività disinibita, diversamente orientata a seconda dei propositi.
[Metauro, Pesaro 2012]
Frutto di una lunga e appassionata ricerca, l’ultimo, corposo libro di Hanna Serkowska fornisce un ricco contributo al campo degli studi sul romanzo italiano novecentesco, non solo storico. Entro l’arco cronologico di un sessantennio (compreso tra il 1948 e il 2008), l’analisi ricopre un vasto repertorio di testi fiction e non fiction, dedicati, in forme diverse, alla perlustrazione narrativa della storia italiana. Si va da Anna Banti, letta attraverso la doppia lente dell’«archeologia femminista» e dell’«anti-Risorgimento », a Tabucchi e Stajano, Flaiano e Brizzi, Sciascia e Morante, Consolo e Eco, Vassalli e Deaglio, setacciati alla luce di precisi nodi tematici, prospettati dall’autrice come veri e propri «anelli», e cioè come i momenti più forti e più controversi del nostro recente passato storico: il Risorgimento, il fascismo, il colonialismo, la Resistenza, gli anni di piombo, il Sessantotto.
L’ermeneutica testuale è sistematicamente supportata da una ricognizione ampia e puntuale del dibattito critico sul romanzo storico, soprattutto italiano. Il libro si prospetta, pertanto, come una rigorosa sintesi panoramica e, insieme, come una meditata proposta originale.
Il discorso è animato dall’idea per cui lo spazio letterario si ponga, nel Novecento, come uno dei terreni più fertili, anche rispetto alla storiografia, per affrontare le pagine oscure o rimosse della storia contemporanea. Anche se non più caratterizzato dal desiderio di «comportarsi da storici», l’inarrestabile interesse degli scrittori per la cronaca dei fatti palesa la fiducia in quel carattere «didascalico e moraleggiante» che rende il romanzo a sfondo storico il genere più «idoneo ad accogliere forme di impegno o attenzione verso il mondo extraestetico, con occhio ben fisso sul presente, mentre si rivisita il passato».
Il Novecento si prospetta, così, come un secolo che difende il valore di verità della letteratura, rivendicandone la capacità di intervento non solo sull’ermeneutica, ma persino, forse, sul farsi stesso della storia. Ne deriva che il romanzo storico, «piuttosto che un genere» sia, per Serkowska, «una variante genologica, una struttura di livello inferiore rispetto al genere letterario propriamente detto». Si tratta di un «modulo tematico», che comprende «frutti di metamorfosi, di incrocio, di ibridazione», intessendo «una serie di giochi con la convenzione codificata nel secolo decimonono».
Tali giochi conservano la tradizione, e tuttavia la innovano e rinnovano incessantemente. Per le scritture fondate sull’intreccio tra letteratura e storia, il paradigma ottocentesco è un presupposto insieme imprescindibile e dinamico. Il «dopo» del titolo, qui, non allude alla separazione di una fine, ma enfatizza il moto perpetuo di un’energetica rigenerazione.
[Il Mulino, Bologna 2012]
Se già la pagina iniziale della premessa, intitolata La creatività sta nel dettaglio, definisce l’argomento del volume, che non tratterà «di tutti i tipi di oggetto, indiscriminatamente. Ma solo di quelli che vengono investiti di valori simbolici, affettivi, emotivi: di quelli che diventano insomma feticci» (p. 7), l’introduzione fissa alcuni snodi essenziali della riflessione sul feticismo, «concetto chiave della modernità» (ibidem): l’esperienza colonialista dei culti animistici africani, la riflessione in chiave economica di Marx, la svolta psicoanalitica di Freud e, in tempi più recenti, il riuso nell’estetica camp, nel cui segno Fusillo getta sulla contemporaneità uno sguardo non esente da ottimismo, destinato probabilmente a non essere condiviso da coloro che vede arroccati «in una sterile difesa della tradizione umanistica» (p. 9). Dopodiché, seguendo un itinerario focalizzato sulla letteratura ma con frequenti incursioni nell’arte contemporanea, nel cinema e nell’immaginario erotico, sette capitoli affrontano le principali tipologie del feticcio dalle Argonautiche a Pig Island, installazione in progress dell’artista statunitense Paul McCarthy.
Come si evince anche dalla loro variabile estensione, i capitoli non hanno pretese di sistematicità, ma un andamento fluido e aperto, la cui impostazione tipologica non esclude tuttavia la scansione storiografica. Lo si nota nella capacità di individuare un decisivo spartiacque tra Sette e Ottocento e di seguire la progressiva scoperta novecentesca del fascino dell’inorganico; parimenti – ed è uno dei risultati più interessanti del volume – in nome della «teatralizzazione dell’oggetto-feticcio» (p. 111) Fusillo è abile nello stabilire una continuità tra l’estetismo ottocentesco e la sensibilità camp.
Nonostante la materia si presti ad associazioni dionisiache – per rimandare a un precedente lavoro dello studioso –, la rassicurante chiarezza dell’esposizione sembrerebbe spingere il saggio sul versante dell’apollineo; nel corso della lettura, però, si aprono intercapedini argomentative che chiamano a una ricapitolazione meno lineare di quanto si potrebbe credere a prima vista. Innanzitutto, è vero che la definizione del feticcio ci accompagna sin dall’inizio, ma essa si arricchisce e si completa mano a mano che avanziamo nelle pagine; in particolare, irraggia senso sugli altri il capitolo centrale sulla forza mitopoietica degli oggetti in Flaubert e Kazan, da cui siamo guidati a riconsiderare il feticcio come un oggetto mediatore tra due diversi paradigmi di realtà, uno psicologico-fantasmatico e l’altro, per così dire, fattuale. Inoltre, se Fusillo giustamente sottolinea che la mitopoiesi feticista evoca la creatività delle arti e della letteratura, d’altro canto il privilegio conferito al dettaglio finisce per costituire una mise en abyme della stessa attività critica, che sul particolare e sulla singolarità del passo lavora investendolo di senso per afferrare la totalità del testo. Ecco allora che lo studio letterario del feticcio si specchia in se stesso, aprendo scenari ermeneutici in cui il desiderio e l’erotismo svolgono un’imprevista funzione modellizzante che i critici, arroccati o meno che siano nella riserva dell’alta cultura, potrebbero anche non trascurare per uscire dal loro permanente stato di crisi.
La metafora della finestra – insieme ad altre fondate sul paradigma visivo-pittorico – è fondamentale nell’episteme della mimesi letteraria: il problema, che essa presuppone, dello scarto tra codici linguistici diversi è stato riproposto dalle analisi teorico-letterarie più recenti, ma ha alle spalle una poderosa tradizione di studi, soprattutto di area francese. La comparsa di questa metafora dalla forte pregnanza culturale nella novellistica verghiana, all’altezza cronologica delle novelle milanesi, non è casuale: la si può decodificare rapportandola per un verso alle immagini metatestuali di Verga stesso, per l’altro al lessico critico dell’epoca. Attraverso l’analisi delle diverse valenze assunte dall’uso dell’inquadratura e dei regimi scopici ad essa collegati, è possibile non solo mettere a fuoco la contraddizione teorica del realismo (diviso tra ambizione di aderenza totale alle cose e necessità, esteticamente irrinunciabile, di salvaguardare i confini dell’opera), ma anche cogliere la specifica evoluzione dell’iter artistico verghiano rispetto a questo ordine di problemi dal respiro largamente europeo.
Il saggio propone una lettura di Corno inglese di Eugenio Montale. In particolare si cerca di evidenziare come l’ambiguità sintattica che è alla base del testo sia funzionale a far smarrire al lettore i consueti punti d’appoggio spazio-temporali, così da proiettarlo, momentaneamente, in una dimensione altra. Tale costruzione testuale risente fortemente dell’influenza della musica di Debussy.
L’autore propone una interpretazione psicoanalitica del racconto incompiuto intitolato La tana, frammento composto da Kafka pochi mesi prima di morire. Dopo una rassegna di alcune letture critiche psicoanalitiche che si sono concentrate sul testo, l’autore propone di leggere La tana attraverso le categorie di simmetria ed asimmetria elaborate dallo psicoanalista Matte Blanco nel suo Inconscio come insiemi infiniti. La tana diventa così una rappresentazione complessa dei più profondi livelli della mente umana, laddove è possibile scoprire una vasta percentuale di logica alternativa a quella razionale.
Nella prima parte, il saggio analizza Resistere non serve a niente di Walter Siti soffermandosi in particolare su alcune sue esibite e apparentemente innovative caratteristiche strutturali, da ricondurre in parte a un modello letterario latente, Fabrizio Lupo di Carlo Coccioli, che ne chiarisce importanti implicazioni formali. La seconda parte collauda il sistema dei personaggi di Resistere non serve a niente nel quadro del rapporto più generale tra romanzo, etica e politica, situando l’opera di Walter Siti dalla parte di un realismo contemporaneo difficilmente riducibile a giudizi di tipo morale.
[ il Mulino, Bologna 2011 ]
Le agili dimensioni del libro svelano subito cosa Italia reloaded non è: non si tratta di un’indagine esaustiva sul presente della cultura italiana, né di un organico saggio di storia culturale.
Il pamphlet nasce dalla collaborazione tra uno storico dell’arte e un “economista della cultura”, due figure che non potrebbero apparire più agli antipodi: da una parte, un esperto di arte contemporanea, il campo sociale più autoriflessivo, a tratti quasi autistico, tra gli odierni universi di produzione culturale; dall’altra, il titolare di una cattedra la cui titolatura sfida gli automatismi percettivi che, dall’inizio dell’Ottocento almeno, ci presentano la Cultura e l’Arte come irriducibili all’Economia.
Le due mani non si sovrappongono perfettamente – una è evidentemente più felice nel destreggiarsi con l’agile scrittura richiesta dal genere – ma l’argomentazione prende origine dallo stesso punto di partenza: l’analisi logica della metafora, ben sedimentata nella lingua mediatica e mediatizzata, che identifica nella cultura il “giacimento di petrolio” dell’Italia.
I due autori smontano questa formula, riportandola alla brutalità del referente: che cos’è un giacimento di petrolio, infatti, se non un deposito di cadaveri sepolti e fossilizzati? Così straniata, l’immagine comincia a vibrare di echi, le cui implicazioni sono sviluppate nei tre capitoli del libro. Quello conclusivo, che tira le fila del discorso cercando di aprirsi a un cauto ottimismo, è il meno incisivo, mentre il primo e il secondo sviluppano fin dai titoli ulteriori sfumature di senso della metafora “petrolifera”.
Il sottotitolo del secondo, Il patrimonio culturale italiano e le sue rendite, ne mette in luce l’implicita serrata nei confronti del futuro: come i giacimenti di combustibili fossili, anche una cultura trasformata in “rendita” e limitata a prodotti classici e canonizzati non ha speranza di evolvere, ma si può solo sfruttare fino all’esaurimento; esemplare di questo processo è la spirale perversa che porta alla cimiterizzazione delle città d’arte, volte ad uso e consumo dei turisti e condannate alla morte sociale e civile.
Ma il capitolo più interessante è il primo, che fin dal titolo, Zombie culturali: l’Italia dei morti viventi, annuncia lo sviluppo della figura originaria in una catena di immagini che non teme di mischiare sacro e profano, opere canoniche e produzioni di massa. Se la cultura è un giacimento di petrolio, e dunque di cadaveri, lo scrigno che la contiene è una tomba, da cui le elaborazioni intellettuali del passato emergono come revenants, zombies dell’inconscio nazionale.
Attraverso l’uso suggestivo delle immagini (sia in senso retorico che proprio: al centro del volume si incastona un inserto fotografico), l’autore del capitolo si confronta con una domanda cruciale: perché il senso comune pone questa equivalenza sotterranea tra “cultura” e “cosa morta”? La risposta va cercata in un’identità italiana che si è costruita nel tempo su una serie di rimozioni, la più recente delle quali ci separa dal decennio irrisolto degli anni Settanta: tra gli anni della televisione in bianco e nero e quelli della tv a colori si apre una cesura che non è stata culturalmente elaborata.
L’autore del capitolo individua nella letteratura, e più specificamente nella narrativa, l’ambito culturale che con più creatività ha cercato di sopperire a questo vuoto, alla voragine che separa gli anni che si sono fossilizzati nell’immaginario con i colori del piombo e dei lenzuoli bianchi stesi sopra i cadaveri, e quelli variopinti dei cartoni animati, del Drive In e del Supertelegattone.
Questo giudizio fa del libro uno stimolo suggestivo non solo per ogni operatore culturale o cittadino cosciente, ma in particolare per i critici e gli storici della letteratura: è significativo che uno sguardo estraneo ai principi di visione e divisione propri del campo letterario individui proprio nella narrativa l’ambito di produzione culturale più innovativo del presente.
[ Laterza, Roma-Bari 2011 ]
La critica francese ha sempre manifestato un certo scetticismo nei confronti di un’intensa storicizzazione, tanto più quando volta ad indagare fenomeni artistici contemporanei o molto recenti. Questo lo si vede chiaramente (è lo stesso Zanotti a rimarcarlo) sfogliando le antologie poetiche, sempre propense ad accogliere centinaia di autori, scarsamente contestualizzati e sobriamente introdotti, anche se lo stesso discorso può essere verificato per quanto concerne la narrativa.
E tuttavia Dopo il primato è scritto da un italiano, appartenente ad una cultura che della “storia letteraria” ha fatto uno dei suoi generi principali, e più in generale dell’operazione di storicizzare, canonizzare e selezionare il suo costume abituale. Ebbene il libro di Zanotti sembra essere proprio una forma di compromesso, alto e ben riuscito, tra antologismo di marca francese e storicismo di impostazione italiana.
L’operazione, per quanto rischi di far perdere il lettore in una selva di nomi non sempre districabile (ma è anche il pregio del volume: ossia una certa tensione all’esaustività), riesce grazie all’impostazione di fondo del libro. Merito di Zanotti è infatti quello di non limitarsi, in questa sua ricostruzione della narrativa francese dal 1968 ad oggi, al solo campo letterario, ma di far interagire quest’ultimo con le più significative correnti filosofiche che hanno agitato la seconda metà del XX secolo (Sartre, e poi Foucault, Derrida, Lévy, ecc.), con il contesto socio-politico, con la situazione economico-editoriale. Del resto la comprensione del contesto francese richiede un atteggiamento volto a sondare nella sua interezza e complessità la società nella quale il romanzo nasce, prospera e si diffonde: almeno fino all’era Sarkozy infatti la letteratura e la cultura in generale hanno un prestigio tale, da modellare la fisionomia della collettività e da influenzare le scelte della classe politica dirigente.
È ricorrendo a questi strumenti che Zanotti riesce a suddividere il periodo che intercorre tra il 1968, vero spartiacque del secondo Novecento francese (e ultima rivoluzione di una nazione che ha sempre vissuto le proprie rivolte come momenti fondativi), e il 2011 in tre grandi fasi. La prima è quella si chiude con il 1980 (nell’80 muoiono Sartre e Barthes, nell’81 Mitterand sale al potere) ed è caratterizzata da un furore saggistico, ben sintetizzato nella formula del «tout théorique»: sono gli anni in cui gli intellettuali rifuggono lo specialismo per porsi come pensatori totali, e in cui l’avanguardia è ancora mainstream, la sessualità come tema scandaloso si impone (si pensi a Emmanuelle del 1974) e al tempo stesso, sempre in linea con una sperimentazione costante, si fa largo la letteratura di genere come il polar (Manchette) e il fumetto (significativi sono i rimandi alla rivista «Métal Hurlant»), così come, forse anche sulla scia di Lejeune, si assiste ad un “ritorno dell’io”, coniugato con un’attenzione nuova all’infra-ordinario (nel 1978 esce Vie mode d’emploi di Perec, autore al quale Zanotti accorda un’importanza strategica).
Tra il 1980 (anno immediatamente successivo alla pubblicazione de La Condition postmoderne di Lyotard) e il 1994 il saggismo imperante lascia il passo ad intellettuali più legati a problemi specifici (insomma distanti da un atteggiamento sartriano), e la narrativa ripiega sulla fiction biographique e sull’autofiction, «uno dei principali filoni della via francese al postmoderno» (p. 149), anche nella sua versione, particolarmente fortunata, di “Aids novel”.
Infine dal 1994 ad oggi il panorama si presenta particolarmente frastagliato, con una dominante di écriture blanche, un rigoglio di letteratura francofona (rappresentata esemplarmente dall’ivoriano Kourouma) e da esperienze che testimoniano il ritorno al romanzo lungo, capace di confrontarsi con la realtà circostante, come Les Particules élémentaires di Houellebecq o Les Bienveillantes di Littell: opere che testimoniano come la narrativa, anche “dopo il primato”, sia ancora particolarmente viva nella cultura e nella società francesi.
[ Bompiani, Milano 2011 ]
Peccato. Il nuovo libro di Alex Ross non conferma le grandi aspettative create dopo il precedente bestseller, Il resto è rumore. Ascoltando il XX secolo, che può annoverarsi tra i testi più accattivanti e stimolanti sulla musica del Novecento.
Ciò che colpiva era il metodo di ricostruzione storica che attingeva alle varie discipline (sociologia, psicoanalisi, storia, analisi musicologica, letteratura, storia dell’arte) attraverso una dinamica interazione di competenze. La scommessa di Ross consisteva nel rendere romanzesca (e documentata) la storia musicale del Novecento, e di integrare di dense osservazioni musicologiche l’evolversi storico del secolo breve.
Una scommessa vinta, un risultato stupefacente per ricchezza di dati, osservazioni, valutazioni critiche, intreccio di relazioni e scoperta di reciproche influenze.
Non si può dire lo stesso della sua ultima fatica.
Non che la competenza storico-musicologica venga meno, anzi. A questo proposito vale la pena sottolineare il capitolo «Ciaccona, lamento, walking blues. Linee di basso della storia musicale» in cui Ross affronta uno stereotipo compositivo (tra Rinascimento e Barocco) e ne rivela le ripercussioni romantiche o contemporanee, fino a Ligeti e ai procedimenti blues della canzone contemporanea. Qui il metodo eclettico funziona: approfondisce la natura topica e retorica di una costante e ne rivela il sotterraneo replicarsi fino a noi con un valore emotivo che il tempo trasforma, ma non muta nella propria identità emotiva e profonda.
Diverso, invece, è il messaggio di fondo del libro: la conciliazione fra musica classica e musica rock (pop ecc.) in nome della “musica”. È abbastanza facile, ma superficiale, ritenere che il giudizio di valore possa prescindere da una seria considerazione di mezzi, scopi e materiali. Su questo ha espresso opinioni illuminanti già Carl Dahlhaus in Analisi musicale e giudizio estetico (1987 [1970]), in cui si dimostra la centralità della competenza, la padronanza della metodologia analitica per mettere in luce, per esempio, il divario intrinseco fra produzione “colta” e musica leggera.
È davvero strano e inspiegabile come in ambito musicale non si riesca a ottenere la stessa obiettività di giudizio, così evidente nell’area letteraria. A nessun critico letterario (se non forse per interessi meramente sociologici) verrebbe in mente di considerare degno di attenzione un prodotto che non avesse determinati requisiti conoscitivi e strutturali. Né credo che il criterio valutativo possa restringersi all’impatto emotivo e al riscontro di risultanze viscerali.Come diceva Adorno, «de gustibus est disputandum», perché non vi è nulla di più ideologico dell’estetico, soprattutto quando dietro l’adesione “democratica” al presente si nasconde una vera incapacità di selezione intellettuale e valoriale.
Non è questo il caso di Ross, ed è proprio per tale motivo che il suo ultimo libro mi ha lasciato deluso e perplesso. E forse la migliore risposta a Ross viene da un altro musicologo americano, Lawrence Kramer, il quale, in un’appassionata difesa della musica classica, afferma: «Questa musica aiuta a conoscere tanto quanto invita a riflettere; studiarla e scriverne sono per me strumenti per meditare su grandi temi culturali e storici, sull’identità, il desiderio e il significato delle cose». Non tutto è Letteratura come non tutto è Musica.
[ Interlinea, Novara 2011 ]
Dopo gli esordi di Laborintus, segnati dalla volontà di fare tabula rasa della precedente tradizione poetica, nelle raccolte di Sanguineti si stabilizza una nuova figura di io lirico.
A questo protagonista, «fulcro enunciativo» dei testi scritti per quasi mezzo secolo (dagli anni Sessanta fino alla morte del poeta), Enrico Testa dedica il suo ultimo, densissimo, saggio. Il titolo del libro, Una costanza sfigurata, è preso in prestito da un verso di Rebus 5, e rimanda all’idea che l’io poetico sanguinetiano sia una costruzione in cui si combinano forze contrarie. La fedeltà a se stessi reagisce con spinte che stravolgono l’identità e il corpo, passando, secondo un gioco di specchi, anche per maschere e travestimenti. Siamo di fronte a una strategia compositiva deliberata che permette di trattare l’io alla stregua di una terza persona, come ha avuto modo di dichiarare lo stesso Sanguineti, agli inizi degli anni Novanta, nel libroconversazione con Fabio Gambaro (documento fondamentale e giustamente rimesso da Testa sotto la lente della critica).
È un soggetto che fa i conti con gli «effetti spiazzanti della moltiplicazione e della “figurazione”» e, allo stesso tempo, esibisce ancora «vere e proprie patenti di riconoscibilità biografica» (p. 41). Verrebbe da dire un sosia, un doppio dell’autore: marito e padre, impegnato nell’educazione dei figli, preso da responsabilità, doveri, compiti familiari. E poi un professore, chierico rosso, un intellettuale in dialogo con altri intellettuali o impegnato nell’attività politica; ma anche un’identità dinamica, raccontata nel suo continuo divenire e nella sua provvisorietà.
Nel corso degli anni alla lezione di Gramsci, Benjamin, Freud o Groddeck (per restare ai nomi da lui più citati nelle interviste) Sanguineti ha affiancato la lettura di Mauss e di noti antropologi ed etnografi; grazie a questi ultimi ha consolidato l’idea che l’io e la persona siano il prodotto di un “lavoro” incessante, e dunque un’entità spuria, impossibile da determinare una volta per tutte perché sottoposta continuamente alla manovra dialettica tra realtà e cultura.
Alla luce del discorso condotto da Testa, allora, apparirà appropriatissima la categoria di «narcisismo negativo», tanto più perché non colloca questa poesia al di fuori dei territori del genere lirico, scrittura egocentrica per eccellenza dove il soggetto rimane sempre il vero centro e contenuto. Arriva così la riprova che uno dei punti di forza di Una costanza sfigurata è nella capacità di Testa di smarcarsi da tanti saggi su Sanguineti apparsi negli ultimi decenni (il ricorso «alla formula di antilirica è operazione, a parer nostro, semplicistica e insufficiente», p. 36). Si potrà, a questo punto, provare a sviluppare ulteriormente le riflessioni contenute in Una costanza sfigurata, fino a chiederci dove affondano le radici di quest’idea di lirica e con chi sia imparentata «una persona testuale» che sembra tanto «anomala e originale nel panorama contemporaneo» (p. 35).
Con tutte le cautele del caso, possiamo domandarci, cioè, se dietro il disamore, il distanziamento (anche ironico) del poeta dal proprio personaggio, dietro i variati esiti di quello che lo stesso Sanguineti ha chiamato un «finto autobiografismo», non si intraveda l’ombra lunga di Gozzano, oggetto di tante attenzioni critiche proprio nel periodo successivo all’uscita di Laborintus.
Al di là dell’uso del montaggio, dello stile e del rapporto con la metrica tradizionale, la riluttanza a pensare l’io lirico avulso dall’«esperienza ordinaria del mondo» potrebbe così rivelarsi la fibra più spessa nel filo che unisce, a distanza di cinquant’anni, due grandi nomi del nostro Novecento poetico.
[ Einaudi, Torino 2011 ]
Nell’inferno di gelosia della Prigioniera, una scena resta impressa con particolare vivacità. Albertine è in camera sua, intenta a scrivere un biglietto che plachi le ossessioni del suo amante: «Come potete pensare che io sia seccata, e che qualcosa possa divertirmi quanto starvi vicina? Sarà carino uscire due noi insieme, e sarebbe ancora più carino uscire sempre così. Ma insomma, cosa andate mai a pensare! Che Marcel! Che Marcel!».
La traduzione di Giovanni Raboni nasconde solo in parte al lettore italiano Quel Marcel!, l’ambiguo titolo che Mario Lavagetto ha scelto per il suo ultimo libro sulla vita e la letteratura di Marcel Proust. «Questo libro è tutto meno che una biografia»: qualsiasi lettore minimamente acconto di Freud dovrebbe intuire la deliberata tendenziosità dell’incipit di un lavoro in cui i frammenti della vita di uno scrittore sono scandagliati con l’obiettivo di scorgervi riflessi dell’opera maggiore.
Lavorando su indizi davvero minuti, Lavagetto offre una ricostruzione genetica personalissima del capolavoro proustiano, venendo a comporre una “doppia biografia” che coinvolge anche quel materiale critico che lui stesso si era lasciato alle spalle nel corso della sua carriera.
Lettere, fotografie, articoli, saggi, oggetti e robaccia sono dissezionati alla ricerca di quel Je che tra biografia e letteratura non ha mai preso una precisa posizione. Il saggio di Lavagetto colpisce per ampiezza di riferimenti e per cautela metodologica: critico troppo attento per cadere nel più trito biografismo, Lavagetto si mostra a suo agio tra i cimeli della famiglia Proust e dà il meglio di sé nelle analisi degli articoli scritti dall’autore fin da giovanissima età.
I sette capitoli di Quel Marcel! non ricostruiscono, ma seguono i frammenti della vita di Proust concentrandosi in particolare sul principale tema della Recherche: quell’ossessione dello sdoppiamento tra io che osserva ed io osservato. A giudicare dal numero di lettere consultate e citate, Lavagetto preferisce mantenere la prospettiva sull’io che osserva, costruendo una mappa estremamente utile per chi volesse avventurarsi nell’universo proustiano.
In ogni punto in cui il narratore-testimone sembra lasciare intravedere l’autenticità del vissuto, Lavagetto è presente con la sua lente “telescopica” ed aggiunge un indizio alla propria ricostruzione. Quel Marcel! viene a comporre, per volontà del suo stesso autore, una biografia apocrifa e sotterranea in cui narrativa e vita si intrecciano con poche cadute (ancora sull’omosessualità proustiana sulla scorta delle posizioni di Stanza 43) e molti pregi.
In questo saggio sconfinato la scomparsa della madre, letta attraverso gli articoli dedicati al criminale Henri Van Blarenberghe, costituisce il cuore del discorso, là dove vita e capolavoro letterario entrano in cortocircuito. Sotto l’egida di Debenedetti, Girard e Freud, Lavagetto offre al lettore alcune tra le sue migliori pagine: gli articoli proustiani si trasformano in altrettanti specchi riflettenti il senso di colpa alla base della Recherche: «Se l’articolo di Proust suscitò una così profonda impressione, e conserva inalterato il suo impatto […], questo dipende dal fatto che tra le righe si avverte una sorta di subdola, grandiosa, empia e magnanima continuità con l’atto criminale: un’appendice necessaria, una ripetizione insieme programmata e coatta, di un matricidio compiuto non con le armi, ma con “parole come pugnali”».
È solo alla fine del lutto, dopo essere discesi nel regno dei morti, che è possibile iniziare a risolvere e raccontare le intermittenze del proprio cuore.
[ a cura di A. Cavalletti, nottetempo, Roma 2011 ]
«Non si può dedicare un certo numero di anni allo studio dei miti o dei materiali mitologici senza imbattersi più volte nella cultura di destra e provare la necessità di fare i conti con essa»: fin dalle prime righe Furio Jesi pone Cultura di destra (pubblicato per la prima volta nel 1979, e ora meritoriamente riproposto da Andrea Cavalletti) nel medesimo alveo della ricerca che lo ha impegnato per gran parte della sua breve vita, ricollegandosi esplicitamente ad altri suoi testi come Materiali mitologici (1979).
Ma qui viene resa ancora più evidente la partecipazione dello studioso al mondo contemporaneo, la sua tensione a utilizzare la riflessione per scopi squisitamente concreti e niente affatto mistici; una tensione soprattutto etica che era già molto chiara in Germania segreta (1967) – e che forse è ancora la cosa più interessante di un testo che sembra scritto in un’altra era geologica, per le preoccupazioni politiche che mette al suo centro e per lo scenario sociale che presuppone, così diverso da quello attuale.
In Cultura di destra ritroviamo il forte interesse per le varie espressioni e permanenze del mito – soprattutto in versione trasformata e «tecnicizzata» – nel mondo moderno. È proprio la sua «tecnicizzazione » a costituire il centro della riflessione, il modo in cui esso viene manipolato con precisi obiettivi di carattere soprattutto politico.
Queste manipolazioni mettono in evidenza il rapporto con il passato che domina nella cultura in cui esse nascono: la cultura, appunto, di destra, che secondo Jesi è quella «entro la quale il passato è una sorta di pappa omogeneizzata che si può modellare e mantenere in forma nel modo più utile». Ovviamente questo rapporto con il passato prevede assetti del presente e del futuro molto ben definiti, verso i quali si orientano gli obiettivi politici dei manipolatori.
I due capitoli del testo constano fondamentalmente nell’analisi – «frammentaria, eclettica ed empirica» – di materiali piuttosto eterogenei, che vanno da due commemorazioni di Carducci fatte nel 1907 da Percy Chirone (nonno di Jesi) ai romanzi di Liala, Salvator Gotta, Virgilio Brocchi, dalle opere di Julius Evola e Mircea Eliade agli scritti del fondatore della Guardia di ferro romena Codreanu alle canzoni cantate nella legione straniera spagnola sotto Franco.
Molto interessante è il discorso sulla religione della morte come punto essenziale della cultura di destra: non solo nei termini inquietanti del sacrificio umano di fondazione, al quale forse tendeva Hitler con la sua «soluzione finale» del problema ebraico; ma anche nella versione addolcita di una religione dei morti esemplari, come il culto fascista per il Milite Ignoto.
L’analisi proposta nel volume riporta questi materiali nell’ambito di una cultura caratterizzata soprattutto da quello che Jesi chiama il «lusso spirituale» fatto di «idee senza parole» (da un’espressione di Oswald Spengler). Il «lusso spirituale» è l’apparato che consiste nel rifiuto del “materialismo”, nell’omogeneizzazione della tradizione culturale e delle caratteristiche storiche e contraddizioni del passato, per poi comporre, con quella pappa, feticci positivi e negativi; strumento assai amato della destra tradizionale, utilizzato in maniera evidente dai fascismi, ma non solo da essi.
«La maggior parte del patrimonio culturale, anche di chi oggi non vuole affatto essere di destra, è residuo culturale di destra», afferma Jesi nell’intervista riportata in calce al volume; e dice anche che tutti i valori non discutibili, indicati da parole scritte per lo più con la maiuscola – «innanzitutto Tradizione e Cultura, ma anche Giustizia, Libertà, Rivoluzione» – rientrano in un meccanismo linguistico che alimenta una macchina mitologica funzionale a una cultura «fatta di autorità, di sicurezza mitologica circa le norme del sapere, dell’insegnare, del comandare e dell’obbedire»; una cultura che evidentemente è ancora tutta da superare.
[ a cura di G. Corbellini e M. Marraffa, Bollati Boringhieri, Torino 2011 ]
Il libro postumo di Jervis è curato dai suoi ultimi collaboratori. Corbellini è co-autore del discusso pamphlet La razionalità negata (2008), che fa i conti con 30 anni di psichiatria.
È in corso un confronto serrato sull’eredità culturale di questo grande intellettuale, noto per l’impegno di rinnovamento psichiatrico, ma capace di andare oltre lo specifico campo tecnico (psicoanalisi, politica, epistemologia). Infatti il sottotitolo è Tra psicologia e filosofia.
Consta di 9 capitoli: sono saggi poco noti, alcuni inediti, con un arco temporale dal più antico del 1962, sulla collaborazione con l’antropologo marxista De Martino, fino al dattiloscritto del 2008, Retoriche dell’interiorità: faceva parte dei materiali preparatori di un libro, in progress con Marraffa, sul «mito dell’interiorità, rivisto con un occhio ai materialisti del Settecento e un altro ai comportamentisti del Novecento».
Il libro tenta di colmare il vuoto di un progetto, troncato dalla morte, che ci porta dentro il laboratorio di Jervis: il continuo sottoporre a verifica critica ogni fatto o principio per stabilirne un grado sempre provvisorio di credibilità, valore e veridicità. I curatori scrivono l’introduzione (Marraffa) e la postfazione (Corbellini) con un apparato di note puntuale che connette il percorso qui proposto con le opere precedenti.
L’idea, il filo rosso del libro, è che la coscienza, in altre parole l’Io dell’apparato psichico freudiano e della psicopatologia e filosofia occidentali, è una «facciata» – come diceva Freud – o meglio un’illusione, che non ha base “sostanziale” nel cervello, una struttura narrativa che serve più a giustificare i comportamenti che a spiegarne le motivazioni: un insieme precario di funzioni sotto assedio delle istanze biologiche e dell’appartenenza al gruppo sociale.
Non è solo un’ipotesi filosofica, o una “metafora” psicologica, ancora utile per Jervis per il lavoro clinico, ma è il risultato di molte evidenze scientifiche che costruiscono una continuità tra il cervello animale, quello dei primati e l’evoluzione di quello infantile, con un richiamo continuo al darwinismo. Ogni percorso riflette l’ipotesi di chi lo traccia: mi sembra condivisibile il riferimento dell’evoluzione del pensiero di Jervis verso la psicologia sperimentale e le “scienze cognitive” (Marraffa), ma non si può sostenere una sua annessione alla psicologia cognitiva (pp. XXIII-IV) a spese della sua formazione e pratica psicoanalitica, il cui carattere conflittuale e materialistico Jervis ha sempre difeso.
Mi pare condivisibile la lettura di Corbellini, che rivendica una sostanziale continuità del pensiero di Jervis, capace di utilizzare «qualunque strumento teorico, o pratico sulla base della coerenza logica o della consistenza metodologica» (p. 223), ma è frettoloso liquidare la formazione marxiana dell’autore, che sarebbe stato indotto dal proprio orientamento critico «a intraprendere una riflessione da cui scaturiva che le premesse del marxismo, benché forse desiderabili […], erano non di meno del tutto sbagliate» (ibidem).
Jervis ha continuato a riconoscere l’opera di Marx nella costruzione delle «società democratiche » (Pensare dritto, pensare storto, 2007, p. 66), soprattutto è essenziale nell’idea per lui portante che la mente umana è capace di autoinganni, il riferimento alla definizione di ideologia e di falsa coscienza di Marx (Fondamenti di psicologia dinamica, 1993, pp. 326-27). Espungere dai riferimenti bibliografici ogni riferimento a Marx mi sembra un tantino “peloso” per accreditare l’approdo di Jervis al «pensiero evoluzionista darwiniano».
Il percorso teorico originale di Jervis anche qui emerge come un materialismo critico con riferimento a una linea di pensiero purtroppo minoritaria nella cultura italiana, che valorizza la continuità tra le scienze della natura e le scienze umane e va da Galileo a Leopardi, a Labriola, a Timpanaro, di cui c’è un grande bisogno nella crisi sociale, morale, civile e culturale del nostro povero paese.
[ a cura di M.V. Tirinato, Quodlibet, Macerata 2011 ]
Scritte in occasione di un ciclo di quattro conferenze tenute a Napoli nel 1989, le Lezioni sulla traduzione pubblicate da Quodlibet assommano l’esperienza del Fortini traduttore alla finezza della sua analisi critica.
Affrontando questioni apparentemente di dettaglio, Fortini schiude spiragli che illuminano – in modo efficace proprio perché parziale – il problema generale dell’essenza del tradurre. Forse neppure nei suoi celebri saggi degli anni Settanta Traduzione e rifacimento o Cinque paragrafi sul tradurre lo scrittore era riuscito a destreggiarsi tanto agevolmente tra teoria della traduzione e prassi traduttiva, coinvolgendo entrambe in un’unica riflessione senza però negare il necessario scarto tra l’una e l’altra.
Fortini prende le mosse dall’affermarsi, nel Novecento, delle traduzioni d’autore, punto d’arrivo di un processo che ha origine nella prima età romantica. Con lo sviluppo della consapevolezza della dimensione storica e con l’intensificarsi del contatto della tradizione occidentale con tempi o spazi lontani inizia il declino della traduzione di matrice “umanistica”, che tendeva ad assimilare l’“altro” rendendolo attraverso forme del “proprio”.
Finita l’età dell’appropriazione, sorge quella della collisione dei linguaggi e dei testi: nasce il bisogno di restituire le diversità e le specificità, anche attraverso gli strumenti della filologia, della linguistica e delle scienze storiche.
Nel secondo Novecento, però, ci si affida sempre più a poeti traduttori che sostituiscono alla lingua-cultura nella quale un tempo «trascinavano in catene i testi di partenza» le loro lingue private. Solo con gli idioletti poetici può coincidere oggi, secondo Fortini, lo «straniero», non esistendo più lingue-culture nazionali o comunque fortemente coese alle quali riferire la traduzione.
Sulla scorta di Benjamin e di Adorno, Fortini rileva il nesso, saldatosi nel dopoguerra, tra la lingua dell’alta cultura e quella tecnocratica della scienza e dell’industria; da ciò deriva un «metalinguaggio dominante» rispetto al quale ogni singola lingua è di fatto subalterna. In questa situazione l’alternativa per chi traduce sembra ridursi a quella tra traduzione di servizio e traduzione d’autore. Uno stallo, questo, che Fortini intende superare cercando una traduzione che superi la mera «parafrasi» ma eviti il «rifacimento », il quale, specialmente se privo di un progetto politico-culturale, genera uno stato di «falsa coscienza » che alimenta l’illusione di «un consumo pieno della parola poetica».
Lungi dall’offrire soluzioni facili o definitive, Fortini affronta questioni concrete come i «compensi», il tradurre in metrica o l’inserimento del testo a fronte rilevando in primis l’importanza dell’orizzonte culturale-ideologico di partenza e d’arrivo. La tradizione guida la traduzione: per questo il Rimbaud di Fortini suona volutamente come un «sonetto epigonico post-montaliano », mentre Milton viene tradotto con un italiano del Settecento (il secolo di chi ne mise i versi in musica: Händel), per di più costellato di dantismi. L’ampia trattazione fortiniana della zona intermedia tra traduzione e «memoria degli autori» culmina nel saggio sulle traduzioni immaginarie posto in chiusura.
Nella traduzione immaginaria si postula un testo inesistente e la sua riproduzione è quella di una traduzione possibile: si applicano modelli non di poesia originale ma di traduzione. È ovviamente un’operazione culturale: la creazione in potenza di un originale fittizio avviene combinando quegli elementi di un’altra cultura che si vuole trasferire nella propria.
L’idea di traduzione esposta nella seconda delle Lezioni (traduzione come ricombinazione della gerarchia degli elementi semantici e metrico-formali dell’originale) trova dunque un suo pendant in quest’ultimo saggio, dove il testo tradotto è descritto come un coacervo di echi culturali ottenuto per combinazione e attraverso consapevoli spostamenti di registro.
[ a cura di F. Frassati, Donzelli, Roma 2010 ]
[ a cura di T. Perlini, Mimesis, Milano-Udine 2011 ]
Il Tolstoj saggista, si sa, non va preso sul serio, soprattutto quando scrive di letteratura. È irricevibile. Il settantenne che nel 1897 dà alle stampe Che cos’è l’arte? assomiglia al suo Chadži-Murat, il guerrigliero ceceno che, sapendo di aver perso la battaglia, spara fino all’ultima pallottola.
Sceglie i suoi bersagli con spietata oculatezza: Dante, Shakespeare, Cervantes, Goethe, Puškin, Baudelaire e decine d’altri, incluso l’autore di Guerra e pace, cadono sotto i colpi della distinzione tra «arte buona» e «arte cattiva».
Ora questo bellicoso, e a tratti inconfessabilmente divertito, pamphlet torna in due riedizioni: Donzelli ripropone la versione di F. Frassati (Feltrinelli 1978), ancora valida, e Mimesis quella di T. Perlini (Gallone 1997), parziale e infestata di refusi, ma ottimamente introdotta. Perlini inserisce il saggio nell’ancora poco esplorata traiettoria dell’«altro Tolstoj» (l’espressione è di P.C. Bori): un Tolstoj a cui «l’arte non basta più» e dedica i suoi ultimi trent’anni a elaborare una «religione universale» che concili il suo razionalismo illuminista con un cristianesimo radicale.
La concezione tolstojana dell’arte non poggia infatti su basi estetiche ma etiche: l’arte deve trasmettere ciò che egli chiama «coscienza religiosa», vale a dire una visione del mondo universalistica (che per lui non può non avere un fondamento trascendente), e va dunque valutata non in ragione del bello (la forma), bensì in ragione del bene (il contenuto). L’arte non è intesa come fine ma come mezzo: un mezzo di comunicazione indispensabile per la vita di ciascuno e per il progresso dell’umanità intera verso la perfezione, poiché «trasmette i sentimenti più alti provati dalle generazioni passate e dai loro migliori rappresentanti». Non è un insieme di opere o di attività specifiche ma compenetra ogni aspetto della vita, dalle barzellette ai testi sacri.
Chiariti questi principi, Tolstoj passa a descrivere il processo che, a partire dal «cosiddetto Rinascimento », ha portato alla separazione dell’arte dalla «vita del popolo», facendone appannaggio delle sole classi superiori: il contenuto si è ristretto a pochi sentimenti (desiderio di affermazione, noia della vita, pulsioni erotiche); la forma è divenuta sempre più manierata e incomprensibile; e, quel che è più grave, si è perduto il concetto stesso dell’arte, ridotta a «contraffazione», a «produzione di fabbrica».
Di questo processo Tolstoj non vede il risvolto positivo, l’autonomizzazione della letteratura che si organizza, affermando le proprie leggi specifiche, per sopravvivere nell’ambiente inospitale del capitalismo; vede solo la divisione del lavoro, l’alienazione, la disgregazione in prodotti e circuiti sempre più autoreferenziali. E vi contrappone il suo radicalismo dell’universale: l’arte, scrive, deve essere «catholica nel vero senso della parola», deve unire tutti gli uomini, i viventi come coloro che furono e coloro che verranno. E può farlo solo suscitando due tipi di sentimenti: quelli che derivano dalla coscienza dell’origine divina e della fratellanza di tutti gli uomini («arte religiosa ») e quelli semplici della vita comune, come l’allegria, la tenerezza, il coraggio, la serenità («arte del quotidiano»).
L’arte dell’avvenire dovrà dunque sorgere su basi totalmente nuove rispetto all’attuale: sarà chiara, semplice, breve, prodotta da tutti, accessibile a tutti, rivolta a tutti. Come modelli Tolstoj propone l’Iliade e l’Odissea, la bibbia e il vangelo, la storia di Buddha e il cantico di S. Francesco, le fiabe e i canti popolari, tra i moderni I masnadieri di Schiller, Le due città di Dickens, I miserabili di Hugo e La casa dei morti di Dostoevskij.
Affiora, seppure inorganicamente, una storia della letteratura diversa da quella che conosciamo, e anche un diverso futuro: come se l’«altro Tolstoj» additasse la possibilità, tanto inquietante quanto auspicabile, di un’«altra letteratura». Ma il Tolstoj saggista, si sa, non va preso sul serio, soprattutto quando scrive di letteratura.
[ a cura di I. Vakar, E. Voronovic? , M. Lafranconi, Roma, Palazzo delle Esposizioni, 19.2.2011-1.5.2011 ]
[ a cura di M. Bown, E. Petrova, Z. Tregulova, Roma, Palazzo delle Esposizioni, 11.10.2011-8.1.2012 ]
Il 2011 è stato l’anno dello scambio culturale Italia- Russia.
L’intesa bilaterale ha consentito di vedere a Roma due mostre importanti, che hanno definito l’orizzonte della cultura pittorica sovietica: una monografica sul suo pittore più importante, Aleksandr Deineka, e una di taglio storico-antologico intitolata Realismi Socialisti, sulle correnti e le figure di spicco di oltre 60 anni di pittura, grafica, fotografia e cinema.
Per la prima volta fuori dai confini russi è stato possibile ricostruire il senso complessivo dell’esperienza figurativa sovietica e, soprattutto, rimanere incantati dal suo più affascinante interprete: Aleksandr Deineka.
Le due mostre consentono di recuperare un senso unitario dell’esperienza pittorica del ’900: negli stessi anni delle trasformazioni formaliste e antifigurative occidentali, in Urss si sviluppava una controforza estetica convincente, di cui non sospettavamo neppure l’esistenza. Il contrasto fra i due mondi è netto ed elementare. La nostra pittura, per quanto scomposta in un caleidoscopio di differenti possibilità espressive, ha raccontato in fondo un unico e solo tema: la modernità come perdita e crisi della presenza.
Nelle opere di Deineka ci impressiona l’esperienza vissuta di un’altra modernità: è difficile non emozionarsi di fronte alla serie di quadri dedicati alla rappresentazione della vita quotidiana, dove il realismo socialista brucia la retorica della pittura ufficiale mostrandoci un’inedita serietà gioiosa del quotidiano – l’esatto opposto di quanto fa, con gli stessi mezzi e più o meno negli stessi anni, Edward Hopper negli Stati Uniti.
Nei quadri di Deineka la raffigurazione severa e classica ci restituisce l’immagine di un’umanità in riposo, orientata verso un futuro che può turbare, ma è carico di speranza. Si respira in queste tele quel senso della rivoluzione d’Ottobre come forma di vita nuova che oggi è così difficile immaginare pensando all’Unione Sovietica; ma che sicuramente è esistito, quanto meno a cavallo fra anni ’20 e ’30.
Le tele di Deineka popolano questa modernità, transitoriamente conciliata e sospesa, di persone comuni, più spesso giovani, sportivi, donne. Tre adolescenti sulle rive di un lago, volti di schiena e nudi dopo un bagno, guardano le linee scomposte di idrovolanti in volo. Una donna vestita di rosso ha conquistato in bicicletta una salita ripida, e ora può lasciarsi alle spalle la guerra di gradazioni di verde che colora le colline che ha attraversato; un’altra si fa ritrarre nuda, sul balcone, davanti alla spiaggia di Sebastopoli, inondata di luce. Ragazzini in vacanza si tuffano in mare, altri escono da un lago dopo un bagno e senza vestiti guardano verso lo spettatore, mentre un treno nero, minuscolo, all’orizzonte, tratteggia il confine oltre il quale la modernità di cui è segno si arresta: al di là dei binari corre verso l’infinito la campagna russa, l’immenso mare di terra di cui parla Tolstoj.
La luce di queste tele, quasi sempre zenitale, meridiana, inonda le scene di pace, di riposo, di gioia, con un colore e un ritmo che vira, attraverso la lezione del nostro Rinascimento che Deineka amava, verso un’ipotesi di assoluto: quella presenza a se stessi come immagine di desiderio di cui Bloch discorre nel Principio Speranza. Questa volontà di assoluto vibra come un desiderio, ed è credibile ed emozionante perché prodotta da uno sguardo che ha attraversato la fatica e la passione delle avanguardie.
Le tecniche di quegli anni – i tagli obliqui della raffigurazione, il continuo movimento delle figure rappresentate – sono ora impiegate per immettere energia e moto in una realtà in pausa dopo la rivoluzione; e la fanno vibrare come un’immagine proiettata su una vasta superficie nera, su cui vuole espandersi, conquistandola. E ci commuove oggi la forza di quel desiderio perché sappiamo riconoscere, in quell’inquietudine appena pronunciata, la paura per l’avanzare dell’ombra che l’avrebbe divorato.
[ Victoria & Albert Museum, Londra 24 settembre 2011-15 gennaio 2012; catalogo a cura di G. Adamson e J. Pavitt, V&A, London 2011 ]
Divisa in tre sezioni, fondamentalmente cronologiche, dedicate all’architettura (gli anni ’70), al design (gli anni ’80) e alle icone pop (gli anni ’90), la mostra disegna la parabola del postmodernismo, che, nato sulle ceneri delle utopie moderniste come esperienza antagonista, si sarebbe infine congiunto con la cultura di massa e i suoi processi di omologazione, fino a imporci la domanda, con Jameson, sul perché il fine politico dell’arte si sia perduto.
Impostazione elitista, quindi, quella della mostra, che celebra, romanticamente, la sovversione rispetto allo stile, ma col merito di esplorare le pratiche (il postmodernismo) anziché le loro condizioni di esistenza (il postmoderno).
Due “morti” aprono la mostra: la Morte del Monumentino da casa di Alessandro Mendini (1974) e la demolizione del Pruitt-Igoe housing project a Saint- Louis (1972), che segna – a giudizio di Charles Jencks – la fine dell’architettura moderna.
Se il modernismo era morto, perché non goderne i resti? Il passaggio dall’oggetto al relitto e dal fatto alla memoria caratterizza tutta la prima fase, in cui il postmodernismo non riesce a liberarsi del modernismo, esaltandosi soprattutto nella sua epigonalità, nel riuso delle rovine e nella mortificazione della memoria, come nell’autocannibalismo messo in atto da Tadanori Yokoo.
Di fronte alle promesse di felicità del modernismo, con le sue architetture funzionali e le sue automobili a misura d’uomo, all’arte postmoderna toccava recuperare l’antitesi, rivolgendosi da un lato al classicismo e dall’altro alla cultura popolare, riproposti in simbiosi anziché in alternativa. Ciò che col modernismo era perduto – la natura – tornava alla ribalta, come nei collage di Nils-Ole Lund, dove gli edifici-simbolo del modernismo appaiono divorati da una natura che ne reclama gli spazi.
Dopo l’architettura, il design, con i gruppi Studio Alchymia e Memphis e le riviste «Casabella» e «Domus ». Le sedie di Pesce, Love e Landes mirano non solo al riuso di materiali poveri, al bricolage e alla rovina, ma soprattutto al senso di discomfort, precarietà e disagio che gli oggetti suggeriscono. L’uomo non domina più il mondo, ma deve costantemente sfidarlo per trovare la propria posizione. Allo stesso tempo la sovversione si trasformava in moda, provocando quel processo di iconizzazione di oggetti e persone che fa perdere il senso a favore del simbolo, fino alla distruzione dell’identità e della soggettività: in Blade Runner la replicante Zhora, inseguita dal bounty hunter Deckard, sbatte contro lastre e lastre di vetro fino a venirne uccisa, ormai uguale ai manichini che la circondano.
L’esplorazione delle zone di confine (tra realtà e replica, passato e presente, oggetto di consumo e oggetto d’arte, design industriale e giocattolo, maschile e femminile) diventa centrale in un’esperienza fatta, dice Kate Linker, di «luccicanti apparenze sintetiche che ostentano le loro origini artificiali». Di qui lo stupendo catalogo dei nuovi protagonisti della scena culturale dagli anni ’80, tutti a loro modo mutanti, all’insegna del pastiche, della decostruzione e del riassemblaggio: «dancers and choreographers, art directors, performance artists, drag queens, pop stars, partygoers, poseurs and nightclubbers».
Campeggiano Boy George, Laurie Anderson e Grace Jones. Ridotti a oggetti di prestigio, gli artisti s’identificano con la loro stessa produzione, come denuncia il simbolo del dollaro su fondo fucsia in una tela di Andy Warhol (1981).
Al centro due classicissimi busti, di Giulio Paolini (L’altra figura, 1984), identici, uno di fronte all’altro, che guardano a terra i frammenti di un terzo: malinconia verso il perduto, ma anche consapevolezza che la copia e l’appropriazione offrono nuove possibilità. Una riflessione sulla tradizione, infine: esistiamo solo in ciò che abbiamo subito o anche in ciò che sappiamo costruire, come suggeriva Jencks col suo culto dell’«ad-hoc-ismo», improvvisazione, reazione alla situazione e ricerca degli obiettivi?
[ Francia-Belgio-Italia 2011 ]
Era una delle formule preferite di Truffaut. «Perché un film sia un’opera d’arte – diceva – deve esprimere un’idea di mondo e un’idea di cinema». Ossia, «affermare qualcosa di sensato, in maniera cinematograficamente sensata».
Malgrado la distanza che separa lo stile dei fratelli Dardenne dai codici estetici ed interpretativi di uno dei maggiori esponenti della Nouvelle Vague, l’ultima fatica dei documentaristi belgi, ormai da alcuni anni votati alla finzione, non fa che confermare l’attendibilità di un tale assunto. E in effetti, privo com’è d’ogni retorica di circostanza, Le Gamin au vélo fa della storia di un ragazzino alla ricerca del proprio padre una lunga digressione di carattere gnoseologico, il cui procedere ellittico, ma senza soluzione di continuità, sembrerebbe avvalorare l’ipotesi di quanti attribuiscono al montaggio – piuttosto che a un più tradizionale impiego della sceneggiatura in fase di preproduzione – l’efficacia icastica ed argomentativa del lavoro finito.
Scandita dalle fughe di Cyril – dodicenne inquieto, incapace di scegliere una famiglia che non sia la sua –, la trama serve da pretesto ad un lungo ad articolato ragionamento sui limiti della rappresentazione, così come dei dispositivi che ne sono all’origine. Tutta giocata sull’alternanza fra piani-sequenza di tipo descrittivo e movimenti di macchina a spalla – tanto più convincenti quando accompagnati da qualche nota di musica classica, quasi si trattasse di sfumare i contorni di cose e persone che l’obiettivo rincorre, sottraendole invano allo spazio dell’inquadratura –, essa traduce in immagini i pochi momenti-chiave di un delicato racconto di formazione, certo inconcluso, eppure storicamente determinato, cioè non meno crudele di quelli che lo avevano preceduto, preparando il terreno ad un’analisi sempre più orientata alla denuncia dei diritti negati e delle sofferenze che possono derivarne.
A ben guardare infatti, il sistema dei personaggi e la caratterizzazione psicologica del protagonista paiono rispondere, non solo ad esigenze di copione, ma anche e soprattutto alla volontà di stabilire un dialogo fra la vicenda narrata ed altre vicende analoghe, già trattate, per esempio, in La Promesse (1996) o Le Fils (2002) – i cui titoli avrebbero potuto riferirsi entrambi, e forse a maggior ragione, anche a questo terzo capitolo della trilogia che sembra lasciarsi indovinare.
Ma c’è dell’altro. Lungi dall’attenuarne il coinvolgimento emotivo, l’opzione per un finale aperto – che permetta di intravedere le conclusioni tragiche dei film passati, senza pertanto cedervi – non può che infierire sullo stato d’animo dello spettatore, consapevole di abbandonare la sala su una nota positiva, non perché si tratti della “verità”, bensì “per gentile concessione degli autori”, manifestamente più interessati allo svelamento dell’impianto metadiscorsivo messo in atto, che non alla risoluzione dei numerosi conflitti di natura morale, affrontati per mezzo della diegesi propriamente detta.
Benché ridotta all’indispensabile, quest’ultima conferisce ai dialoghi un’importanza fondamentale. Magistralmente tradotti in “figure” dall’impiego di un campo-controcampo ravvicinato – che fa dei volti la geografia attraverso cui leggere i non detti di ciascuno – essi tendono ad esplicitare la complessità di ogni punto di vista, accogliendo le antinomie, e tuttavia rifiutando di risolverle. Connettivi logici, più che semplici elementi di transizione, è il loro lento succedersi – decisamente troppo ordinato per essere credibile – a determinare un senso ed ogni eventuale teleologia.
Quasi a dover suggerire, sottilmente, ma senza lasciare adito a fraintendimenti, che indipendentemente dal successo riportato – e al di là d’ogni facile assimilazione con il cosiddetto “nuovo cinema del reale” – quello di Luc e Jean- Pierre Dardenne resta un cinema refrattario alle classificazioni di comodo; desideroso di conciliare afflati lirici e indagine socio-ambientale.
[ USA 2010 ]
Conduttore radiofonico, disegnatore, professore universitario e musicista a tempo perso, Matt Porterfield torna sul grande schermo dopo il successo ottenuto con Hamilton (2006), mediometraggio fintamente documentario, volto ad indagare il delicato passaggio dall’adolescenza all’età adulta.
Questa volta non si tratta di raccontare, bensì di mostrare. In Putty Hill la macchina da presa si attarda sulle deambulazioni di un gruppo di ragazzi originari, come il regista, della periferia di Baltimora, e il cui contesto socio-ambientale di appartenenza sembra incidere più sugli stati d’animo che sui comportamenti – solo apparentemente autolesionisti – assunti da ciascuno, a pochi giorni dalla scomparsa in circostanze tragiche di un amico comune.
Tutto giocato sulla giustapposizione dei piani sequenza – manifestamente apparentati, dal punto di vista formale, alla pratica ormai desueta del cosiddetto “cinegiornalismo” – il resoconto dei fatti evocati procede dunque per gradi e per immagini, alternando a lunghe pause di carattere contemplativo, momenti di vero e proprio “corpo a corpo” coi protagonisti, filmati in primo piano e interrogati da un’improbabile voce off, come a volerne sondare i dubbi, le incertezze, la preoccupazione, nei confronti di un futuro “senza vie d’uscita”.
Certo, l’atmosfera ricorda quella di alcuni lavori di Larry Clark, ma un tale paragone sarebbe ingiusto – malgrado sia stato formulato da più parti – se riferito alle installazioni audiovisive di Harmony Korine o – per tastare un terreno più noto, almeno in Europa – alla “trilogia della morte” di Gus Van Sant.
A ben guardare, infatti, il primo fa della miseria un motivo portante della sua produzione artistica – sfortunatamente troppo poco impegnata, cioè non abbastanza ancorata al reale, perché se ne possano accogliere le motivazioni di fondo; il secondo insiste in maniera eccessiva sulla fascinazione estetica esercitata da una perdita, nel dialogo che viene ad instaurarsi fra soggetto e comunità, durante il processo di rielaborazione del trauma subito (e/o esibito).
Porterfield, dal canto suo, non intende tanto indugiare sulle dinamiche attraverso cui la sofferenza – di qualunque natura essa sia – investe la sfera privata, fino ad alterarne gli equilibri più elementari, quanto piuttosto descrivere – ove possibile, dettagliatamente – l’insieme dei cambiamenti materiali operati sulla persona dall’avvento di una catastrofe della quale presumibilmente nessuno si occuperà mai, al di fuori del microcosmo preso in esame.
Ritratto per mezzo di ampi gesti orizzontali – atti a suggerire la profondità di campo, senza pertanto appropriarsene, correndo il rischio di contaminare l’intimità che vi si cela – quest’ultimo serve ad alludere – per metonimia o per contrasto – all’eterogeneità che caratterizza qualsiasi collettività esistente. Lungi dal riassumere in modo schematico asserti constatabili per altre vie, esso permette di osservare, in virtù dell’esiguità che lo contraddistingue, traiettorie sennò irriconoscibili, a discapito della loro importanza dichiaratamente testimoniale.
Lo si constata, dapprima, grazie all’impiego che viene fatto dei raccordi – le cui parabole traducono in figure i percorsi individuali, assegnando loro una consistenza plastica; poi, prestando attenzione all’accompagnamento musicale, scelto perché possa far corrispondere alle stasi narrative – di tipo riflessivo – una sorta di commento, esplicitato appena coi mutamenti di tono.
Queste opzioni rivelano entrambe una propensione al lirismo mai davvero palesato, con cui Porterfield vorrebbe celebrare il vissuto di ognuno, quand’anche si trattasse di travisarne il senso; in altri termini, esse dicono il bisogno e l’incapacità di conferire un ordine al materiale girato, il cui montaggio non può che risolversi per successioni di lunghi movimenti circolari, simili ad altrettante “variazioni sul tema”.
[ Francia 2011 ]
Laure ha dieci anni e si è trasferita da poco in un sobborgo di Parigi con il padre, la madre incinta e la sorellina. La famiglia è unita, Laure ha un bel rapporto con la piccola Jeanne, che accudisce con complicità e dolcezza, e non ci mette molto a conoscere i bambini del vicinato grazie alla mediazione della nuova amica Lisa.
C’è però un dettaglio che turba la semplicità della trama: nel mondo en plein air dei giochi infantili Laure è diventata Mikäel, il nome con cui si è presentata quando al primo incontro, prendendola per un maschio, Lisa le ha chiesto, subito affascinata, «Sei nuovo?». Ci penserà la madre, dopo che ha scoperto l’equivoco, ad accompagnarla a rivelarsi all’amica, anche in vista del prossimo rientro a scuola, quando la verità sarebbe comunque venuta a galla. Ma qual è, a ben vedere, questa verità?
Tomboy di Céline Sciamma non enuncia in modo esplicito il suo messaggio, ma lo affida alla suggestione delle immagini. Già lo si intuisce alla prima sequenza. Dapprima vediamo la nuca di Laure, i suoi capelli corti, le sue spalle esili, e dal rumore di un motore in sottofondo capiamo che sta viaggiando su un mezzo decappottabile; dopodiché, quando l’inquadratura si sofferma sulle mani seguendo con cura le dita che sfidano l’aria, impariamo subito a identificarci con lo sguardo obliquo della macchina da presa: Laure non sarà mai sola in scena, ma in palpabile compagnia di noi spettatori che ne carpiamo i gesti e i movimenti.
E in nostra compagnia Laure, interpretata con gentile sensibilità da Zoé Héran, osserva allo specchio il proprio corpo con occhi ora stupiti ora indagatori, accoglie con un lento sorriso il primo bacio di Lisa e poi, adeguandosi al sempre più impegnativo ruolo di maschio, si toglie la maglietta per giocare a calcio, si inventa una piccola protesi di pongo per simulare di avere un pene sotto il costume, fa a botte con un ragazzino per difendere la sorella.
Tuttavia, lo sguardo che lambisce il corpo di Laure/ Mikäel, non se ne impossessa mai veramente: non vira in una presa di posizione netta che preannunci a chiare lettere il destino omosessuale o transgender dell’età adulta. Piuttosto, la tecnica del “fiato sul collo” dei personaggi praticata dai Dardenne incontra il tocco alla Truffaut degli Anni in tasca e crea un effetto ossimorico: Tomboy risulta un film in levare che si regge su rarefatti equilibrismi, ma non per questo è meno fisico ed efficace. Così, quando nell’ultima scena, di nuovo con Lisa, la protagonista si riappropria del nome “Laure”, sentiamo che sta avendo inizio una nuova fase in cui le scelte identitarie, qualsiasi esse siano, non saranno più forzate in un’aderenza coatta al femminile (il vestito che la madre la obbliga a indossare al momento della rivelazione) o in un sofferto adeguamento agli stereotipi maschili (gli sputi e le prove di forza): Laure potrà porsi al di là dell’aut aut femminile/maschile e liberamente essere una tomboy – e non sarà un caso che un equivalente di questo termine manchi nel nostro vocabolario, che per denotare le infrazioni alle ripartizioni di genere usa le sfumature dispregiative di “maschiaccio”, così come sull’altro fronte vige “femminuccia”.
Di converso, alla tomboy Laure, non più al finto Mikäel, Lisa potrà volere bene in una forma che la regista lascia volutamente in sospeso, considerando la definitezza dell’epilogo secondaria rispetto all’affermazione del diritto a una più flessibile costruzione del sé.
[ Douglas & McIntyre, Vancouver-Toronto 2010 ]
Originariamente pubblicato presso Gaspereau Press, le cui tirature, sovente rilegate a mano, non possono superare le mille copie settimanali, l’ormai celebre romanzo di Johanna Skibsrud, The Sentimentalists, è infine accessibile in una versione aumentata e corretta, la cui diffusione è stata resa possibile grazie al sostegno, non solo materiale, del prestigioso Scotiabank Giller Prize.
All’età di soli trent’anni, l’autrice è entrata a far parte dei dieci autori canadesi più quotati all’estero. Inutile aggiungere che il successo riportato da quest’opera prima – appendice e glossa delle poche poesie che l’avevano preceduta – non è dovuto ai numerosi dibattiti suscitati in ambito accademico – e riguardanti lo statuto, potenzialmente documentario, della prosa.
Infatti, se il libro merita la visibilità che si è guadagnato – riuscendo nonostante tutto a non scendere a compromessi con un mercato editoriale saturo qual è quello nordamericano –, è senza dubbio in virtù della sua tesi di fondo. Diversamente formulata in funzione dell’uso che se ne fa negli svariati luoghi del testo, essa potrebbe declinarsi come segue: (a) il concetto di spazio in quanto «aggregato di materia significante» è il risultato di quella che i sociologi non tarderebbero a definire una riasserzione dello stesso ai danni del tempo; (b) lo studio dello spazio – inteso come “ciò che ci separa da” – procede necessariamente «per un’osservazione dell’esperienza vissuta»; (c) qualsiasi indagine di carattere speculativo sulla capacità potenzialmente reificante dello spazio sembra non poter prescindere da un importante processo di aggiornamento delle coordinate topologiche tradizionali, né dal primato che queste detengono, in materia di riqualificazione del soggetto e delle istanze enunciatrici che lo abitano.
Lungi dall’adottare uno stile dichiaratamente argomentativo, l’analisi si articola intorno ad assunti la cui pertinenza viene di volta in volta misurata sulla base di un trascorso probabilmente autobiografico. Così, desunti dalle conversazioni di una figlia col proprio padre, i racconti di un reduce del Vietnam forniscono lo spunto a quella che avrebbe potuto essere una tesi di dottorato, ma strada facendo diventa finzione – malgrado la veridicità del dettato e una sempre più chiara volontà di riportare i fatti «così come sono accaduti».
Sul piano della forma, alternando abilmente le sequenze di tipo teorico con quelle, di più ampio respiro, tese a ricostruire una serie di eventi, non tanto per definirne il reale svolgimento, quanto piuttosto la natura – in senso concettuale e metastorico – la sintassi, oltre che i differenti registri di lingua impiegati, pare adattarsi progressivamente alle circostanze e garantire una coesione altrimenti minata dall’interno.
Forse è proprio in questa delicata impresa di labor limae che traspaiono, insieme, il rigore della ricercatrice e la sensibilità della testimone (seppure per conto di terzi). Mentre la prima tende a prediligere le questioni epistemologiche, la seconda non può fare a meno di esporsi e ammettere ch’esse funzionano da copertura. Sì perché in fondo è chiaro fin dal principio che l’unica reale preoccupazione di entrambe è il tentativo di allontanare un passato doloroso, ovvero il ricordo di una sofferenza ereditata, benché mai vissuta in prima persona.
Se da un punto di vista (geo)critico il valore dell’intera operazione riposa sulla necessità di fondare empiricamente ciascun enunciato, come a volerne comprovare i contenuti “sul campo” – ma ammettendo a priori l’imprudenza di ogni eventuale bilancio –, letterariamente parlando è lo sforzo di trattare dei luoghi materiali quali oggetti privilegiati della memoria a catturare l’attenzione di chi legge – indeciso se continuare come se avesse fra le mani un saggio, o invece abbandonarsi al potere affabulatorio del racconto.
[ trad. it. di M. Gini, Adelphi, Milano 2011 ]
L’umorismo british, contraddistinto da understatement, reticenza, ironia impalpabile (la cosiddetta tongue in cheek), è una di quelle categorie così invocate e allargate da risultare ormai irrimediabilmente slentata e vaga: applicata alla verve polemica di Shaw come allo smontaggio del linguaggio convenzionale di Wilde, al caustico pessimismo di Waugh come alla messinscena di tic e incidenti quotidiani di Jerome K. Jerome; inoltre spesso tirata in ballo per valorizzare, e magari un po’ sopravvalutare, autori più recenti.
Ultimo caso quello di Alan Bennett, prolifico narratore e romanziere, versato – per riprendere una celebre distinzione – più nel comico di situazione che in quello di carattere o di linguaggio, abile nel congegnare vicende animate da figure schizzate velocemente, e imbastite di dialoghi mediamente brillanti, in cui l’effetto ilare nasce da una sterzata della routine, sia questa una novità proveniente dall’esterno, o (come nella Sovrana lettrice, uno dei libri più riusciti) una passione inattesa, uno scatto della personalità.
Nel dittico che compone l’ultimo libro, Due storie sporche, le sterzate nascono dalle accensioni e dalle varie pieghe del desiderio erotico, esplorate con brio, ma senza particolare originalità. Nel primo racconto, Mrs. Donaldson ringiovanisce, una vedova di mezza età con alle spalle un matrimonio smorto riscopre i piaceri della vita grazie a due svolte, una piuttosto prevedibile (e già sfruttata più estrosamente in Occhi sulla graticola di Tiziano Scarpa), l’affitto di una camera a inquilini giovanissimi, una più originale (ma non abbastanza sviluppata), il gusto di sfogare un insospettato istinto teatrale, lavorando come “paziente simulata” nei corsi di medicina.
Il secondo racconto, Mrs. Forbes non deve sapere, più corale, inscena una pochade aggiornata in salsa postmoderna, in cui un matrimonio malissimo assortito funziona sorprendentemente bene (naturalmente tra segreti, bugie e tradimenti), una situazione torbida come la relazione tra suocero e nuora – di solito svolta in chiave sommamente meló, come Il danno di Josephine Hart e il film che ne ha ricavato Malle bastano a dimostrare – è subito riassorbita nella tranquillità domestica, poliziotti modello si rivelano biechi ricattatori, le preferenze sessuali ondeggiano, insomma dietro la sobrietà del tono gli echi di Feydeau si intrecciano a quelli di Almodovar.
Senza svecchiarlo o elaborarlo veramente, Bennett maneggia con perizia questo repertorio familiare, tra l’altro utilizzando una tipica risorsa della forma breve, la capacità di prendere (come osservava Pirandello), «il fatto per la coda», di far gravitare tutta l’invenzione su una sorpresa conclusiva: nel primo racconto un guizzo di trasgressività più inatteso sovverte ulteriormente i rapporti generazionali; nel secondo le dinamiche della simulazione e i rapporti di forza si rivelano ancora più ingarbugliati di come apparivano.
Indubbia la prova di mestiere, certo godibile la consumazione delle storie; resta da discutere la loro superiorità appunto sulla buona letteratura di consumo.
[ trad. it. di P. Del Zoppo, Del Vecchio, Roma 2011 ]
Il tavolo di lavoro utilizzato da Seiler per questa raccolta di racconti, pubblicata in Germania dalla Suhrkamp riscuotendo grande favore di critica e di pubblico, non è distante da quello dei suoi libri di poesia che lo hanno rivelato come una delle più valide nuove voci liriche della letteratura tedesca. I nodi che sostengono la sua scrittura in prosa sono gli stessi che emergono in quella in versi: ricognizione scrupolosa e sofferta del paesaggio della memoria; legame tra il proprio vissuto e il perimetro storico della ex-DDR mai fatto scadere a tema da esibire, ma reso consustanziale alla scrittura.
La lingua essenziale delle sue poesie sembra nutrire anche lo stile di questi racconti, vicini alla forma di un memoriale composto per frammenti, attraverso cui i gesti, gli eventi e i luoghi sono presentati con un’impressionante intelligenza percettiva (che l’ottima traduzione di Paola Del Zoppo ha il merito di mantenere pressoché intatta) in grado di saldare assieme la precisa traccia fisica del ricordo e una tensione riflessiva rigorosa. Un’essenzialità che punta all’esattezza e risponde così a un’aderenza morale ai fatti, come si legge in uno dei racconti: «Era solo importante non falsificare nulla, non inventare nulla, o comunque non far prendere il sopravvento all’invenzione, che deve servire a rendere più esatto ciò che si vuole raccontare…».
Il raccontare di Seiler sembra difatti ricondurre alla radice del verbo, è letteralmente un “rendere conto” del passato, affrontando gli sfasamenti del tempo differito della propria memoria. Non c’è però nessuna volontà di risarcimento in questo ricordare e la forza di Seiler sta tutta nell’umiltà di indicare i limiti della sua esperienza e quindi della sua stessa scrittura, assumendosi consapevolmente il peso dell’angolo cieco sempre presente nella visuale sugli eventi, privati e storici; lo fa senza mezzi termini, ma sempre lontano dal cinismo.
Buona parte dei racconti – di impronta autobiografica ma dal tono tutt’altro che intimistico e quasi privi di dialoghi – tracciano una sorta di percorso di formazione dall’infanzia fino alla prima maturità. Seiler, nato nel 1963 in Turingia, prende spunto da eventi minimi della vita di provincia della Germania Est, come ad esempio i primi affetti e inquietudini provati durante la scuola (Il bacio sul cappuccio), un merlo ferito e accudito ma lasciato morire per una dimenticanza (Il merlo della colpa), il rapporto con il padre minatore vissuto attraverso taciturne partite serali a scacchi (L’ultima volta), una storia d’amore del periodo universitario sullo sfondo della città industriale di Halle (Gavroche).
Il mondo della DDR è inquadrato “dal basso”, per interposti oggetti e contesti, nomi, prodotti, atmosfere, odori tipici dell’epoca: il rapporto con la storia è prima di tutto “tattile”, e nel ricordo gli eventi vengono consciamente lasciati intatti e precisi, quasi non elaborati, come se solo in questo modo disarmato potessero non smarrire una loro proposta di verità.
Pur con le loro differenze, tutti i racconti trovano il loro nucleo in un senso di colpa e di mancanza (tanti i frangenti in cui il protagonista manca l’occasione di una parola detta o di un dialogo), il loro soppesare il tempo registra sempre degli scarti e una perdita, storica e individuale: non è un caso che nell’ultimo racconto del libro l’autore, in una Berlino appena riunificata e in ricostruzione, segua da vicino i gesti «puri e compiuti» di un operaio durante la sua pausa pranzo che di lì a poco morirà fulminato; dalla sua morte, come in un passaggio di mano in sottrazione, avrà inizio il primo gesto di scrittore. A questa perdita non si rimedia, sembra indicare Seiler, e non ci si può che affidare alla schiettezza con cui la si registra.
Il titolo originale del libro, Die Zeitwaage (alla lettera «la bilancia del tempo»), lo ribadisce: è il cronocomparatore, lo strumento, presente nell’ultimo racconto, in grado di amplificare, registrare e trascrivere su carta il ticchettio degli orologi, per poterne cogliere con precisione le sfasature del meccanismo.
[ Einaudi, Torino 2011 ]
Non saremo confusi per sempre è composto di cinque racconti a metà tra fiaba e non-fiction. Le storie raccontate, infatti, sono riscritture di cronache di casi giudiziari di forte impatto emotivo e di grande rilevanza mediatico-televisiva. L’uccisione di un ragazzo tedesco ad opera del principe Vittorio Emanuele (1978), la morte in un pozzo di Alfredo Rampi (1981), l’incidente, il lungo stato vegetativo e l’eutanasia di Eluana Englaro (1992-2009), l’omicidio nell’acido del figlio di un boss pentito di Cosa Nostra (1996) e il pestaggio a morte dello studente Federico Aldrovandi ad opera della polizia (2005) sono, nell’ordine, i pezzi di realtà trasfigurati nel libro.
L’operazione dello scrittore è ridare un senso a queste storie «che hanno traumatizzato e commosso la nostra coscienza»: non è una ricostruzione analitica volta ad accertare i fatti perché il lato cronachistico e giornalistico è dato per scontato e riassunto in poche righe. Quello che Mancassola prova a fare, con alterna fortuna, è una riscrittura letteraria di quelle storie, che riscatti e dia forma al dolore e alla morte di cui sono impregnate.
Nel primo racconto il “meccanismo trasfigurante” è svolto dal teatro perché la messa in scena della tragica vicenda modifica il “vero” finale negando la morte del ragazzo e concedendogli, invece, una fuga indolore.
Il secondo racconto attua una strategia differente: attraverso una costruzione squisitamente fiabesca fa virare la tragedia in fantastico, permettendo al bambino di incontrare i personaggi di Viaggio al centro della terra.
Nel terzo racconto il meccanismo che trasforma una morte (seppur desiderata) in vita è dato dalla gravidanza di una ragazzina conosciuta dal narratore; i parallelismi fra la vicenda reale e quella inventata sono fin troppo espliciti, ma l’intensità dell’esperienza e della scrittura che la esprime riescono meglio dei racconti precedenti a dar conto dell’intento poetico.
Il quarto è forse il racconto più riuscito. L’atroce morte di un ragazzino di dodici anni è riferita, come in tutto il libro, in maniera cronologica e fedele alle fonti giornalistiche e giudiziarie, ma il suo senso ultimo è detto attraverso un’operazione letteraria più ardita. Il legame fra fatto reale e racconto è meno pretestuoso perché più squisitamente finzionale: la protagonista, compagna di banco ai tempi delle medie di Giuseppe di Matteo, fa rivivere il bambino nei suoi fumetti, trasformandolo in supereroe. Prigioniera delle sue fantasie e autisticamente isolata dal mondo reale, riuscirà ad aprirsi alla vita solo liberandosi del ricordo di quella storia di omertà e connivenza familiare.
Il quinto e ultimo racconto narra dell’acquisizione di consapevolezza di Federico Aldrovandi. Il meccanismo trasfigurante è qui dato immaginando che il ragazzo, subito dopo essere stato pestato a morte, diventi un fantasma che insieme ad altri fantasmi di ragazzi uccisi dalle forze dell’ordine venga portato nella casa del Grande Fratello, corpo a corpo con la gioventù per antonomasia defraudata dall’illusione mediatica. Il suo uscire da uno stato di confusione funge da sintesi e raccordo per tutti gli altri racconti, per i quali valeva la stessa sfida di fondo: trovare nella finzione la ragione di quei fatti che la non-fiction non può dare.
Tuttavia per far questo non è sufficiente costruire un mondo altro in cui sviluppare le eventualità che non si sono date. Certi accostamenti risultano troppo velleitari e poco coraggiosi e solo a sprazzi le storie riescono ad esplorare davvero il territorio del possibile oltre l’avvenuto e a costruire racconti che vadano oltre la pur condivisibile lettura socio-antropologica. Se la spettacolarizzazione del reale è cosa assodata, il tentativo di forzare nel fantastico quelle trame, anziché nel cronachistico o nell’autofinzione, è un esperimento nuovo e sicuramente significativo. Gli esiti, tuttavia, non sono omogenei e non restituiscono un’opera potente e davvero immaginifica.
[Mondadori, Milano 2011]
I libri di Arminio hanno un pregio raro: nascono da un’idea. Un’idea fissa, e pertanto costantemente a rischio di sconfinare nel «vaneggiamento egotico», ma che non si risolve mai in ossessione privata. È, anzi, un’idea “generale”, ed è grossomodo questa: lo sviluppo che a partire dagli anni ’50 ha insediato anche in Italia la civiltà dei consumi è stato al tempo stesso una distruzione, che ha disgregato civiltà contadine millenarie, sfigurato il paese e condannato chi lo abita a una nevrotica tristezza.
Niente di nuovo, è l’idea che anima l’intera opera di Pasolini. Mentre però questi puntava il dito sul lato oscuro della modernizzazione capitalistica nel momento della sua decisiva accelerazione, gli anni ’50-’70, lo sguardo di Arminio si posa sul paesaggio quale appare dopo il diluvio, all’indomani della morte delle lucciole, del genocidio culturale, del trionfo del nuovo fascismo, della mutazione antropologica.
La «paesologia», questa «via di mezzo tra l’etnologia e la poesia», non è altro che una pratica efficace per sottrarsi all’incantesimo frastornante dei mass media e guardarsi intorno coi propri occhi, per descrivere «il luogo» – della storia – «in cui ci troviamo ».
La notizia che lo scrittore riporta dalle sue ricognizioni, a partire da Viaggio nel cratere (2003) fino a questo Terracarne, che ne è una sorta di summa, è bifronte: la catastrofe della modernizzazione è compiuta, «la vita è sparita» tanto nei paesi «invisibili » dell’aspra Irpinia d’Oriente quanto nei paesi «giganti» dell’hinterland napoletano, e persino là dove tutto sembra funzionare, conciliandosi senza frizioni con la civiltà precedente, per esempio in Alto Adige, si ha la sensazione di «non avere scampo »; d’altra parte, proprio perché compiuta, la catastrofe comincia a rivelarsi tale, il mito del consumo perde smalto, e insieme alla nudità del re iniziano a manifestarsi le premesse di una «nuova religione », una nuova narrazione del mondo indispensabile alla sua trasformazione.
La metafora della malattia (dell’ipocondria), intorno a cui Arminio costruisce la sua prosa, appare dunque perfettamente funzionale non soltanto a mettere in evidenza il nesso tra la comunità (dell’«autismo corale») e l’individuo (inscindibilmente vittima e carnefice), tra la spossatezza del corpo e quella del paesaggio, ma a esprimere la tensione in cui la nostra civiltà è sospesa: tra angoscia di morte e speranza di guarigione.
Nonostante Terracarne sia stato immesso nel medesimo flusso mediatico-discorsivo di Gomorra (la stessa collana mondadoriana, con la “faccia” dell’autore a tutta pagina in quarta, l’evidente simmetria di titolo e sottotitolo) e nonostante gli elementi che effettivamente accomunano i due scrittori (l’impegno civile, l’attiva presenza sul web, l’innovativa riformulazione di una “questione meridionale”, la rivendicazione di un ruolo politico, ampiamente inteso, per la letteratura), l’operazione di Arminio è radicalmente diversa da quella di Saviano. Lo si evince, peraltro, dall’uso assai differente della “funzione” Pasolini: mentre Saviano raccoglie il testimone dell’intellettuale corsaro, portando quelle «prove» che l’autore del Romanzo delle stragi affermava di non avere, Arminio va sulle tracce del regista che per il suo Vangelo secondo Matteo sceglieva le campagne di Barile, in Lucania, perché più vicine alla civiltà dei tempi di Cristo di quanto non fosse la Palestina degli anni ’60. Saviano, narratore che si fa cronista, opera per addizione; Arminio, poeta che si fa antropologo, per sottrazione (di qui la straordinaria reticenza dei suoi resoconti di viaggio, che non documentano nulla, se non il lento precisarsi di un’idea attraverso «il passare del corpo nel paesaggio»).
Questo diverso atteggiamento dà luogo a scritture che, altrettanto indispensabili e in certa misura complementari, si collocano, anche formalmente, su due crinali opposti della storia, corrispondenti a due opzioni alternative: correggere la modernizzazione capitalistica, oppure disertarla.
[Einaudi, Torino 2011]
Siamo tutti onniscienti consumatori di cronaca e ricordiamo l’incesto protratto, scandito da sette gravidanze, di un padre austriaco con la figlia diciottenne. Forse ricordiamo anche il bunker, quel sottosuolo domestico che racchiuse l’evento intollerabile, facendolo esistere e durare.
Questa trama già nota Paolo Sortino l’ha trasformata in romanzo, guidato dall’idea di distillarne un surplus di esperienza e caricarla di quell’ampiezza di vibrazioni che secondo Benjamin manca all’informazione. Per farlo aveva molte possibilità: se si volesse contarle dovremmo fare l’inventario dei giudizi di gusto. Dall’elenco virtuale delle poetiche Sortino estrae la propria, che non è quella della sottrazione, scavata da digiuni sintattici, né quella dell’allusione, storta e velata. Sortino sceglie di riprodurre la tonalità gotica della cronaca, esasperandola e insieme sublimandola, al punto da farne – come hanno osservato Walter Siti e Giorgio Vasta – una narrazione mitica.
È così che in Elisabeth il patetico torna al suo nucleo etimologico, graffiandosi via la crosta che lo apparenta al kitsch grazie ai lampi di una scrittura che trasmette esplicita la violenza delle sensazioni: «Con un morso a metà tra un bacio e uno strappo tirò via da una parte la fronte di lei come una striscia liquida. L’immagine di Elisabeth divenne qualcosa che lui poteva modificare con le dita e i palmi delle mani. Disarticolava il corpo della figlia in chiazze e campiture fugaci» (p. 28).La descrizione dell’incesto fissa qui il grido della carne macellata fuggito via dai quadri di Bacon; ma non è questo il fulcro della narrazione di Sortino.
Verso la fine del romanzo la voce narrante avverte: «Non si dica di lei che è cresciuta nel bunker. Elisabeth è cresciuta insieme al bunker» (p. 208). Dobbiamo stringere gli occhi intorno a una preposizione per capire che a essere protagonista, più che la relazione delittuosa tra umani, è quella tra la ragazza e il suo ambiente. È una relazione a tutti gli effetti, saldata dalla corda che lega Elisabeth alle pareti di roccia, aderenti come placenta. Il bunker è un utero esponenziale che fa gonfiare la pancia della ragazza, sfera d’acqua e sangue incastonata nella sfera di pietra. Non da subito la caverna è ospitale: l’ingresso al suo interno è violenza olfattiva e storpiatura muscolare.
Ma col passare dei giorni Elisabeth comincia a pensare al bunker «come a una sua natura espansa» (p. 80). I confini del corpo proprio si diluiscono e la friabilità delle ossa contagia l’armatura del cemento. La simbiosi col bunker ne permette la domesticazione e questa è un’assurda metamorfosi – eppure lo spazio concentrazionario diventa davvero protettivo. Questo globo di sottosuolo Elisabeth finirà per preferirlo al mondo esterno, che non verrà mai rimpianto: diventerà un abnorme da auscultare con orecchie vigili ma non ansiose di abolire diaframmi.
Attraverso la parabola della sua Elisabeth – la cui iniziale «volontà di fuggire» si ripiega in «desiderio di restare rinchiusa» (p. 175) – Sortino compie un’analisi esistenziale della spazialità, che potrebbe trovare un responsorio nella filosofia delle sfere di Sloterdijk e nelle variazioni sul mito della caverna (compreso il suo rovesciamento) studiate da Blumenberg. Essere contenuto dal proprio mondo, dalla perfezione sferica del proprio limite – e tenere alla larga la realtà: ecco ciò che vuole l’uomo. Ma l’equilibrio di una sfera è instabile, perché «condivide con la fortuna e il vetro il tipo di rischio che tocca tutto ciò che va facilmente in frantumi» (Sloterdijk, Sfere I, p. 97). E quando la cappa pietrosa diventata perla di vetro si romperà, sarà La deportazione (così si intitola, scandalosamente, l’ultimo capitolo del romanzo, quello in cui Elisabeth e i figli vengono trovati dalla polizia e liberati). “Libertà” è una parola vuota: va abitata.
Per Elisabeth: «la libertà non consisteva più nell’andare lontano, ma nel diritto di creare le condizioni necessarie a essere felici. Fuori dal bunker, quelle condizioni ebbe timore di averle perdute per sempre» (p. 211).
[Articolo sostenuto dal fondo 2012 della Hankuk University of Foreign Studies]
[ a cura e con un saggio introduttivo di M. Zancan, Mondadori, Milano 2011 ]
La pubblicazione dei Romanzi della scrittrice italocubana Alba de Céspedes (1911-1997) curata da Marina Zancan per «I Meridiani» Mondadori ha il merito di recuperare all’attenzione di studiosi e lettori una produzione narrativa su cui grava ormai da decenni un lungo silenzio.
Lungi dal rappresentare un tardivo risarcimento nei confronti di una scrittrice che, pure, ha riscosso un significativo successo di pubblico e di critica tra gli anni Trenta e Settanta del Novecento, l’iniziativa promuove una complessa operazione di revisione di un canone ancora percepito come monolitico e immutabile. In questa più ampia prospettiva, il volume rende dunque esaurientemente conto di una serie di questioni che riguardano non solo la scrittura ma anche la significatività della presenza intellettuale di Alba de Céspedes nel panorama italiano e internazionale.
L’ampia Introduzione della curatrice delinea infatti il ritratto di una protagonista della scena letteraria impegnata su più fronti – narrativa, poesia, giornalismo, cinematografia e teatro –, sempre in prima linea anche nell’attività di promozione della sua produzione, come prova l’importante rapporto epistolare con Arnoldo Mondadori.
I cinque romanzi inclusi nel volume rappresentano il nucleo di una produzione caratterizzata da una netta cesura tra gli anni romani (1934-67) e quelli parigini (1967-1997), la cui analisi è condotta da Marina Zancan alla luce di alcune strutture portanti: la memoria, l’autobiografismo, i diari come «specchi di carta», il «grande tema della scrittura» quale forma espressiva di una soggettività storicamente e sessualmente connotata, centrale anche nelle annotazioni presenti nei quaderni.
Si inizia con la vicenda corale narrata in Nessuno torna indietro (1938) per poi passare alla novità di un io narrante esplicitato dal flusso memoriale (Dalla parte di lei, 1948) sino a Quaderno proibito (1952), che declina il tema della solitudine in una scrittura che è insieme espressione di una vicenda personale e storia collettiva. In coincidenza col definitivo trasferimento a Parigi matura una fase più dichiaratamente sperimentale.
Alla ricerca di un rapporto con la scrittura che incarni il diverso contesto sociale e culturale, de Céspedes pubblica infatti dapprima in francese (Sans autre lieu que la nuit, 1973) poi in italiano Nel buio della notte (1976): una forma-romanzo destrutturata in cui frammentarietà e sovrapposizione temporale creano consonanza tra le molteplici voci parlanti in una notte parigina del ’68.
Monica Cristina Storini offre infine una sapiente selezione del romanzo cubano incompiuto e inedito Con grande amore, un ingente corpus di materiali raccolti dal ’39 al ’67 e rielaborati sino alla morte: pagine in cui la continuità tra storia familiare e storia di un popolo – la guerra di indipendenza guidata dal nonno della scrittrice e la rivoluzione guidata da Castro – crea un rapporto tra il prima e il dopo di grande vigore.
L’ampia e dettagliata Cronologia rende un profilo completo delle vicende biografiche e della rete di connessioni intellettuali della scrittrice, mentre le Notizie sui testi (a cura di Sabina Ciminari, Laura Di Nicola, Monica Cristina Storini e la stessa Marina Zancan) ripercorrono nel dettaglio le vicende critiche e di pubblico di ciascun romanzo attingendo a quello straordinario strumento rappresentato dall’Archivio de Céspedes, attualmente collocato presso la Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, e ai materiali documentari conservati presso altre istituzioni.
Chiude il volume l’accurata Bibliografia delle opere e della critica curata da Laura Di Nicola, uno strumento prezioso per orientarsi all’interno di una attività letteraria di portata internazionale che ha al suo attivo un centinaio di traduzioni in almeno venti paesi.
[ Mondadori, Milano 2011 ]
Il libro con cui Villalta ha vinto il Premio Viareggio 2011 è una composizione di testi inediti e parti di raccolte precedenti, un itinerario che indaga i luoghi d’origine dell’autore, esplorando il dissidio tra la dimensione corporea e quella mentale dell’individuo.
Le quindici sezioni hanno fisionomie stilistiche diverse, dalle liriche prosastiche alle colate di versi cadenzate all’uso del dialetto veneto (Revoltà), modulate su una medesima tonalità di fondo, che è il tratto distintivo dello stile di Villalta: un ritmo che ordina suoni e sintagmi secondo un principio strutturale geometrico, una comune medietà stilistica che sembra impiantare una trasparente architettura ordinatrice, mentale e intellegibile, sulla realtà fisica e corporea.
Il motivo della capacità di una visione ulteriore rispetto a quella sensoriale era già stato affrontato in Vedere al buio (Sossella, 2007), che contiene in nuce gli sviluppi articolati e diversificati di Vanità della mente. Persiste, in questa raccolta, una migrazione continua tra due poli: «la compulsione a esporsi nella realtà», ossia la tendenza o tentazione a vivere corporalmente l’esistenza, fenomeno di cui sono ricche – spesso debordanti – la poesia e la società dagli ultimi decenni a questa parte, e «la certezza che sia del tutto vano» (NdA, p. 156), ossia l’accorgimento che le facoltà mentali e intellettive annientino e rendano vana la contingenza esperibile.
La continua migrazione di significati (il termine «migrazioni» è anche il titolo significativo dell’ultima sezione del libro) consente di osservare in parallelo le caratteristiche della dimensione corporale e di quella mentale, e di accorpare testi tematicamente e cronologicamente eterogenei, che si legano gli uni agli altri producendo quasi un’iterazione di racconti minimi. In bilico tra uno «sconfinare del corpo dal pensiero» (p. 13) e un «insistere teso / tra due misure» (p. 95), la mente è descritta come un’«intellezione » (p. 133) che fa capo al dominio del tempo, del buio, dell’ombra, del ricordo, del sonno/sogno, del rapporto tra vuoto e volume; il corpo, invece, è la materia, la natura, la terra, gli animali, l’infanzia, la storia.
Inoltre, attraverso i campi semantici della mente e del corpo, si può individuare un paradigma autunnale-invernale che governa le presenze e i tratti paesistici del libro: ci sono «le alte montagne di neve» che «risplendono» sul ricordo dei morti e pesano sulle spalle dei vivi (p. 57), gli ambienti domestici e contadini che sanno di terra bagnata, di foglie umide, di raccolti di pannocchie, di oggetti ferrosi accatastati nelle cantine, e in cui si parla quella lingua definita «’sto parlar lastra-degiass » («questa lingua lastra-di-ghiaccio», pp. 79- 81).
Con evidenti richiami ad alcune poesie di Benedetti (Umana gloria) e a certa lirica di ascendenza tedesca, Villata ricostruisce un mondo delle origini in cui trionfa un senso di asprezza e di profondità. L’esplorazione della terra è esplorazione del corporeo e scansione delle presenze materiali che la mente astrae e trasforma in elementi intellegibili (Sanno di cenere le labbra e sabbia…). Nel testo Ti vesti da gran sera… l’io inscena una personificazione della mente ed esalta la paradossale prigionia della visione astratta, vincolata a un pensare che si spinge oltre il corporeo, ma ne elude anche le possibili verità, facendo del suo vero una vanità mentale. Tra questo dubbio conoscitivo e le geometrie formali che vorrebbero conferirgli una sicura struttura lirica sta il carattere più incisivo di questo libro.
La capacità razionale di narrare tracce composite di realtà nel dissidio tra una tensione inquieta e un logico equilibrio dà a Vanità della mente – soprattutto nella forma di miscellanea d’autore tra testi editi e inediti – una tenace misura in cui il lettore si sente al riparo dagli usi anarchici e espettoranti dell’espressivismo contemporaneo.
• «L’americano che per il suo “tempo”, per il ritmo del narrare mi gravò sulle spalle davvero, nessuno al tempo di Paesi tuoi [1941] lo seppe dire: era Cain», dichiarò Pavese nel 1946. Il romanzo The Postman Always Rings Twice (1934) ispirò anche Le Dernier tournant di Pierre Chenal (1939) e Ossessione di Visconti (1943). Riavvicinando queste esperienze, il saggio discute la “funzione Cain”, ovvero gli scambi tra cultura americana, francese e italiana, con tre principali obiettivi: riposizionare la narrativa americana nella sperimentazione neorealistica; ricostruire uno sguardo più attento ai fatti di linguaggio e di stile del Neorealismo (per esempio alla reinvenzione del paesaggio); infine, definire un nuovo modo di considerare letteratura e cinema.
• «Nobody understood that the American writer, who had a major influence on me while I was writing Paesi tuoi [1941], was Cain»: so stated Cesare Pavese in a 1946 interview. Cain’s novel The Postman Always Rings Twice (1934) also inspired the movies Le Dernier tournant by Pierre Chenal (1939) and Luchino Visconti’s Ossessione (1943). The essay, by reconnecting the novels and the films, analyzes the “Cainfunction”, namely the exchanges between American, French and Italian cultures during the Thirties and the Forties. By drawing a specific attention to Neorealistic language and style (for example, how Neorealist authors reinvented the Italian landscape), the essay aims at giving a new perspective on the relationship between American narrative and Neorealistic experimentation, but also on the one between literature and cinema.
• Le lettere di Montale a Irma Brandeis danno l’opportunità di ricostruire l’evento biografico che sta a monte di alcune poesie delle Occasioni; precisamente, i “mottetti” Lo sai: debbo riperderti e non posso e Addii, fischi nel buio, cenni, tosse. Inoltre, la scrittura privata lascia trasparire tracce linguistiche che riaffioreranno nelle poesie temporalmente vicine alle lettere, permettendoci di entrare nel vivo del processo artistico montaliano.
• Montale’s letters to Irma Brandeis provide the opportunity to identify the biographical events behind some poems of Occasioni, namely the “mottetti” Lo sai: debbo riperderti e non posso and Addii, fischi nel buio, cenni, tosse. Moreover, an examination of the poet’s private writings allows us to identify some linguistic traces that will return in his poems of the same period, and offers us therefore an insight into Montale’s creative process.
Il testo che segue è frutto del montaggio di differenti incontri con Francesco Orlando a Pisa in un arco di tempo che va dal febbraio 2007 al giugno 2010. La nostra prima conversazione è avvenuta al termine di un suo seminario su Mallarmé all’Università di Pisa: le domande poste allora erano funzionali agli studi che stavo conducendo sulla rappresentazione del sogno in letteratura.
• L’incremento progressivo delle novelle d’amore dall’Ur-Novellino al Novellino al Decameron registra la novità per la cultura medioevale del tema amoroso che, a partire dalla lirica cortese e dai cicli romanzeschi francesi, darà origine all’«invenzione della cultura eterosessuale». Fino a quel momento l’uso del linguaggio amoroso era stato detenuto dall’amicizia virile, sostenuta dalla cultura religiosa che indicava nel celibato il modello ideale di vita e vedeva nella donna lo strumento diabolico della lussuria. Il confronto tra i testi esaminati nelle due stesure del Novellino e lo sviluppo che uno di essi riceverà nel Decameron evidenziano il mutamento del rapporto tra i sessi e il capovolgimento della gerarchia esistente fra amicizia e amore.
• Il dialogo tra Gilda Policastro e Daniele Giglioli prende spunto dall’ultimo libro di quest’ultimo, Senza trauma, per riflettere sulla narrativa contemporanea, e, più in generale, sulla possibilità di fare esperienza in senso tradizionale per le generazioni dei nati fra gli anni Sessanta e Settanta. Inoltre propone un confronto sulla necessità o meno per la critica di formulare dei giudizi di valore, soffermandosi sui parametri guida della lingua e dello stile, e sulla loro importanza e centralità nella valutazione di un’opera letteraria.
• Taking as a starting point Daniele Giglioli’s recent essay Senza trauma, the dialogue between Gilda Policastro and Giglioli himself develops a reflection on contemporary literature and disputes whether the last generations of writers can still “experience” the world the same way as their predecessors did. The discussion also questions the opportunity for literary critics to pronounce value judgments and compares the authors’ ideas on language, style and how important they are in the assessment of literary works.
(intervista a cura di Daniele Balicco)
Daniele Balicco: Per iniziare la nostra conversazione le chiederei un giudizio sull’impatto dell’opera di Said sulla cultura araba contemporanea.
Biancamaria Scarcia: La mia opinione sull’impatto dell’opera di Edward Said nel mondo arabo parte da una premessa. Esiste ormai una ricca bibliografia sul lavoro teorico di Said, una bibliografia importante con cui tuttavia raramente mi trovo in sintonia perché personalmente imposto il problema Said in tutt’altra maniera. Io lessi Orientalismo all’Istituto di Studi Palestinesi a Beirut, quando non era ancora stato pubblicato. Va detto che in quegli anni, parlo della fine degli anni ’70, non era ancora così chiaro ed esplicito, nella critica letteraria e nella storiografia, un problema che invece è molto chiaro adesso. Intendo la dipendenza totale dalla produzione teorica statunitense nel veicolare e mediare gerarchie di questioni e grandi personaggi.
Pur ammettendo tutta la buona volontà del personaggio, io credo che “l’operazione Said” non abbia favorito lo sviluppo nel mondo arabo di un pensiero critico autonomo. Possiamo dire lo stesso, restando a questi ultimi anni, del successo del pensiero di Gramsci, soprattutto fra gli arabi palestinesi. Non sarebbe corretto negare la vivacità di questa riscoperta e tuttavia non può neppure essere considerato irrilevante il fatto che il loro è un Gramsci letto in inglese e interpretato attraverso modelli ermeneutici statunitensi.
Questa condizione di dipendenza impedisce due cose importanti: anzitutto, l’emergere di una rielaborazione teorica autonoma dall’interno del mondo arabo, perché i mediatori sono tutti esterni e tutti appartenenti alla medesima area culturale e linguistica; in seconda battuta, ma è in realtà il problema centrale, questa condizione impedisce la conoscenza diretta dei testi. Una volta era un’idea condivisa, oggi non più e quindi dobbiamo ripeterla in continuazione: ogni traduzione è un’interpretazione. Ogni traduzione è una mediazione culturale.
Mi sembra evidente che leggere Gramsci in italiano o su una traduzione araba, ma filologicamente accurata e basata sul testo originale, non è la stessa cosa che leggere Gramsci in inglese o su una traduzione basata su una versione inglese. Questo per me è un punto dirimente.
L’articolo prende spunto dal fascicolo 64 di «allegoria» e in particolare dall’importante saggio di Raffaele Donnarumma Ipermodernità: ipotesi di congedo dal postmoderno. Del saggio vengono discussi il metodo storiografico e la tesi principale che con con la fine del secolo e l’inizio degli anni Zero il postmoderno sia terminato, e che il nuovo periodo si possa chiamare, accettando una proposta di Gilles Lipovetsky, “ipermodernità”.
• Il saggio analizza i principali cambiamenti intercorsi nell’industria editoriale nel passaggio, alla fine degli anni Novanta, dalla vecchia gestione imprenditoriale alla nuova economia di mercato, in cui il profitto è l’unico parametro considerato dal responsabile di una casa editrice. In particolare il saggio documenta l’emergere della questione della “bibliodiversità”, ossia la necessità di tutelare l’editoria e le librerie indipendenti, a partire dalle teorie di André Schiffrin e Pierre Bourdieu; infine pone il segno sulla situazione dell’editoria italiana, riflettendo sulle affinità e le differenze rispetto al panorama internazionale.
• The essay analyses the main changes in the publishing industry that occurred in the transition, at the end of the Nineties, from an old management to the new market economy, in which profit is the only parameter for the managing editor. In particular, it reports on the appearance of the new question of the “bibliodiversity”, or the need of safeguarding independent publishers and bookshops, according to the theories of André Schiffrin and Pierre Bourdieu and finally puts the focus on the Italian condition, reflecting on similarities and differences with international publishing.
L’articolo sintetizza e riprende l’introduzione a un’antologia di narratori degli Anni Zero. Dopo aver tracciato un rapido quadro della situazione editoriale e della ricezione critica della narrativa a cavallo fra gli anni Novanta e il decennio successivo, l’articolo passa in rassegna l’opera dei ventisei autori raccolti, esordienti tra 1999 e 2010, evidenziandone i rapporti con forme di narratività diverse dal romanzo tradizionale, e il trattamento da essi operato delle categorie di tempo storico ed esperienziale, e soprattutto di quelle di spazio e di luogo.
• The article abridges the introduction to an anthology of the most significant Italian narrative texts published during the first decade of the XXIth century. The essay begins with a short survey of the publishing situation and the critical reception of the Italian narrative prose since the Nineties, then analyzes the writings of twenty-six authors, whose debut literary works appeared in the time span between 1999 and 2010. The essay highlights the relation of these texts to narrative forms different from the traditional novel; their interpretation of the category of time, from the point of view of historical or individual experience; the categories of space and place they use.
• Il postmodernismo si è esaurito: questo saggio propone di definire ipermoderna la nuova fase, che si è aperta a metà anni Novanta. Essa non segna una frattura violenta con il momento che la precedeva e rivela l’impossibilità sia di uscire dalla logica della modernità, sia di liberarsi da alcune mutazioni che si sono consumate con il postmoderno. La caratterizzano una generalizzata svolta narrativa, negli stessi generi argomentativi e anche al di là dell’egemonia del romanzo; la volontà di distinguere tra fiction e non fiction; il successo dell’autofiction e delle scritture dell’io; il ripensamento del realismo, per effetto dell’invadenza massmediatica; l’emergere di poetiche di documento e di testimonianza; nuove forme di partecipazione civile. Sebbene il centro della ricostruzione sia la letteratura italiana, l’autore considera anche alcuni dei maggiori romanzieri contemporanei di altri paesi.
• In this essay, the author focuses on contemporary Italian literature seen in a transnational perspective. He argues that Postmodernism is over. In the mid-1990s we entered a new phase of cultural history, which he proposes to term Hypermodernity. The author acknowledges that the logic of Modernity and some of its Postmodern developments still impact on Hypermodernity. However, Hypermodernity is characterized by distinctive features, such as: the narrative turn in social and political discourse; the distinction between fiction and non-fiction; the popularity of autofiction and writings of the self; a reassessment of realism; the emergence of documentary poetics and poetics of testimony; new forms of social and political commitment.
[Guida, Napoli 2011]
Tema di Alessandro Viti, inserito nella collana «Parole chiave della letteratura» (diretta da R. Luperini, G. Ferroni e C. Vitiello) assume, nello stile e nella struttura, l’intento di saldare saggismo e alta divulgazione e vi riesce in modo impeccabile, a partire dalle forme con cui veicola le proprie idee: chiare, onestamente argomentate, mai banalizzanti. Finalizzata a questo progetto è l’interna tripartizione del libro che esamina la storia e lo stato attuale delle interpretazioni e, infine, la loro concreta applicabilità.
Il volume, infatti, è introdotto da un capitolo diacronico che ricostruisce esemplarmente i mutamenti del termine “tema” nella storia della critica (pp. 13-64), ha il suo nucleo portante in un vasto capitolo centrale (pp. 65-152) che esamina con chiarezza le principali «questioni aperte», e culmina in un agile capitolo propositivo (pp. 153-190) in cui si enumerano le risorse della tematologia: l’apertura alla realtà, l’interdisciplinarietà, il tema come «mezzo di conoscenza».
A ben guardare, niente nel libro è lasciato alla pura descrizione: la storia del concetto-termine e le “questioni aperte” si saldano alle proposte operative e ad esse sono funzionali. Discutere se il tema sia o meno il frutto di una costruzione dell’interprete o la vexata quaestio che attraversa la tematizzazione, opponendo forma e contenuto, è indispensabile premessa alla rivendicazione del tema come risorsa ermeneutica. A marcare l’intento saggistico sono innanzitutto le spie stilistiche che rivelano il pacato coraggio e la vigile attività giudicante dell’autore («imperdonabile miopia», p. 71, «non serve a fare passi in avanti», p. 67, e simili, detti a proposito di lavori critici di cui pur si riconosce tutta l’autorevolezza) nonché la sua postura propositiva e finalistica («è quindi da», «ciò permette di», «non deve trasformarsi in», «è pur sempre necessario», pp. 166-167).
Grazie a questo lavoro, che integra l’ottima monografia di Giglioli (2001), si chiariscono le ragioni del senso di disagio e, al contempo, della necessità (p. 9), di ogni lavoro tematico. Se la tematica strutturale o topologica aveva in sé il rischio di una concezione monadica o stereotipata del tema, incapace di aprirsi al campo delle interpretazioni, a partire dal mutamento di prospettiva attestato dal primo dei convegni parigini (1984), dai lavori di Bremond e dal saggio di Sollors (1993), prevalgono la prospettiva “genealogica” e l’apertura interdisciplinare. L’una e l’altra rendendo meno «anemica» (Giglioli) la critica, rischiano tuttavia di eguagliarla al culturalismo merceologico dominante.
La soluzione prospettata da Viti, che recupera a tal fine un lemma fortiniano, è «l’uso servile» del tema, vale a dire la proposta di trattare il tema come «grimaldello metodologico» (p. 189), chiave di accesso ai significati del testo. L’uso critico dei temi, sia esso funzionale a una storia della mentalità o della cultura (Ceserani, Domenichelli) o a una nuova e non convenzionale ipotesi storico-letteraria (Pellini, Luperini) è in sostanza la via maestra per mettere in rapporto letteratura e realtà.
«La stesura del mio verbale è stata quanto più scrupolosa possibile. Ogni parola del mio resoconto è esatta. Ma tutte le frasi nel loro insieme non spiegano un bel niente». Con queste parole inizia il resoconto di un esperimento scientifico – la trasformazione, per un periodo determinato, di una donna in uomo – attentamente riportato dalla narratrice-protagonista di Autoesperimento. Il racconto è stato scritto nel 1972, quando il percorso di affrancamento di Christa Wolf dai principi del realismo socialista si era ormai pienamente realizzato…
• Il saggio ricostruisce le fondamentali acquisizioni teoriche del libro di Said, soffermandosi, in particolare, sul rapporto che l’autore intrattiene con la tradizione filosofica di matrice strutturalista e materialista. Pur evidenziandone i meriti, l’autore pone in risalto una serie di contraddizioni che spingono a riconsiderare criticamente il lavoro saidiano.
• The essay recontructs the most important theoretical effects of Said’s Orientalism, with a particular attention reserved to the relations between the Palestinian intellectual and the philosophical tradition of structuralism and materialism. In spite of the remarkable value of the book, the author underlines some of its contradictions in a critical reconsideration of Said’s work.
L’articolo analizza i criteri di selezione adottati dagli agenti che, all’interno del campo editoriale italiano, contribuiscono alla selezione e produzione degli inediti di narrativa, con particolare enfasi sugli autori esordienti. Attraverso interviste qualitative e con l’aiuto di strumenti statistici di content analysis, si studia il discorso di editor, agenti letterari ed altri intermediari importanti per la ricerca di testi inediti, per mettere in luce le principali caratteristiche ricercate nei manoscritti. Si sottolinea come attori che occupano posizioni diverse all’interno del campo in oggetto siano focalizzati verso differenti elementi distintivi riguardanti forma, sostanza e comunicabilità dei manoscritti. Il saggio è tratto da una più ampia tesi di dottorato, il cui obiettivo è studiare il processo di ammissione alla produzione di autori esordienti.
Nelle letterature del Novecento, da sfondo e contorno, lo spazio diviene sistema, assumendo, a detrimento del tempo, un posto sempre più rilevante. Se in generale, in letteratura, sono i mutamenti dello spazio a rendere sensibile la percezione del tempo, a creare cioè quell’unità espressa nella nozione di cronotopo, le “cose nuove”, sfornate a ritmi sempre più rapidi a partire dall’età industriale, a detrimento di quelle consacrate dall’abitudine, dalla memoria e dalla tradizione, contribuiscono a determinare, nell’immaginario, la liquidazione o il collasso delle categorie temporali a vantaggio di quelle spaziali: ne conseguono, tra l’altro, le procedure stilistiche della simultaneità, della frammentazione e il discredito della sequenzialità.
si è addottorata all’Università degli Studi di Siena nel 2017 ed è attualmente ricercatrice post-doc presso il Département de Langues et Littératures Romanes dell’Università di Ginevra. È redattrice delle riviste «Allegoria» e «L’ospite ingrato online» e membro dell’International Network for Comparative Humanities promosso dall’Università di Princeton. Si occupa di teoria del romanzo, storia dei generi letterari, letteratura italiana e russa dell’età moderna. Ha pubblicato i volumi Leggere storie. Introduzione all’analisi del testo narrativo (2014) e Riempitivo e realismo. Uno studio sui romanzi di Lev Tolstoj (2016).
received her doctoral degree in 2017 at the University of Siena, and is currently a post-doc researcher at the Department of Romance Languages and Literatures of the University of Geneva. She is editor of the journals «Allegoria» and «L’ospite ingrate online», and member of the International Network for Comparative Humanities fostered by the Princeton University. Her research interests include theory of the novel, history of genres, Italian and Russian modern literature. She has published the books Leggere storie. Introduzione all’analisi del testo narrativo (2014) and Riempitivo e realismo. Uno studio sui romanzi di Lev Tolstoj (2016).