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rivista semestrale

anno XXXV - terza serie

numero 87

gennaio/giugno 2023

Attilio Scuderi, L’ombra del filologo. Romanzo europeo e crisi della cultura umanistica

[Le Monnier, Firenze 2009]

In un capitolo decisivo della Nuvola di smog, il protagonista e Claudia discutono dell’essenza della bellezza, proponendo due tesi contrapposte: per il primo è una categoria prevalentemente storica, suscettibile di mutare nel tempo, per l’altra è invece un valore assoluto, universale, primigenio. Questa dualità, presentata brevemente da Calvino, percorre tutta la discussione occidentale sul senso della classicità, dell’umanesimo e della cultura in genere, dalla fine dell’Ottocento fino ad oggi. Un utile termometro per misurare l’intensità di tale dibattito e le sue evoluzioni è offerto, oltre che dai saggi, dalle opere narrative.

E proprio di queste si occupa il libro di Scuderi, concentrando la sua attenzione sulla rappresentazione del personaggio del filologo (e in alcuni casi dell’umanista in genere) nella narrativa del XX secolo. Ma ciò non induca a credere che L’ombra del filologo sia un libro di critica tematica (senza dare alcuna accezione, né positiva, né negativa, a tale etichetta). Piuttosto si tratta di un coraggioso esame sulle sorti della cultura umanistica, sul significato che essa ha avuto ed ha oggi, e su possibili prospettive per l’immediato futuro.

Per questo motivo il personaggio del filologo, rintracciato solo in alcune specifiche opere (comunque sempre altamente rappresentative: La montagna incantata, la Recherche, Memorie di Adriano, ecc.), viene messo costantemente in corto circuito da un lato con le riflessioni sul proprio compito che i filologi stessi proponevano nella prima metà del secolo (Pasquali su tutti, e poi Curtius, Auerbach, ecc.), e dall’altro con il ripensamento dell’organizzazione scolastica, con particolar attenzione al liceo classico, a cui si delegava la formazione delle future generazioni. Sono tre i momenti cruciali che Scuderi individua nel corso del Novecento. Il primo si colloca a cavallo della Grande Guerra.

È a quest’altezza infatti che, recuperando un’impostazione tardo ottocentesca che ribadiva la natura aristocratica della cultura, la classicità, intesa all’insegna dell’identità e dell’immutabilità, diventa antidoto contro la massificazione e l’imbarbarimento della società civile: il Diario e le Lettere di Otto Braun o le pagine di Rupert Brooke lo dimostrano ampiamente (mentre in Italia, area che risulta tutto sommato marginale, è il Gadda della Meditazione a svolgere questo compito).

Tuttavia tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta, assorbita la tragedia della guerra, la funzione di classico è costretta a confrontarsi con il magmatico mondo contemporaneo: così se la Leavis in Fiction and Reading Public (1932) demolisce «il “classico” arnoldiano chiuso nella sua perfezione atemporale», gettando un’occhiata al «circuito del consumo» e all’«articolazione del pubblico », Orwell invece si interroga sul modello di lettore ideale, ritratteggiandolo non più sul colto aristocratico, bensì sull’immagine del piccolo borghese; mentre Virginia Woolf, ingaggiando una polemica a distanza con Eliot (che pur avversandole non riesce ad essere impermeabile alle istanze della nascente sociologia), invita ad aprire un nuovo discorso sul mito. Insomma è tra le due guerre che il classico cessa di essere un forte baluardo contro la decadenza dei tempi, per entrarvi invece in rapporto dialettico: è il segnale inequivocabile di una crisi.

L’ultima fase si estende per tutto il secondo dopoguerra, e vede tre emblematici esempi italiani: Gadda, Meneghello e Pontiggia. In questi autori il classico suscita un misto di repulsione (patrimonio sterile ed elitario, detenuto da accademici, eruditi e pedanti) e di venerazione, secondo una contraddizione mai sanata, frutto di una fragilità sempre più imperante. E proprio questa fragilità diventa oggetto anche di film (De Oliveira), e spinge a ripensare radicalmente la prassi didattica della cultura umanistica. Operazione già compiuta, tra gli altri, da Settis, nonché dallo stesso Scuderi nelle due appendici che chiudono il volume.

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