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rivista semestrale

anno XXXV - terza serie

numero 88

luglio/dicembre 2023

Giorgio Manganelli, Estrosità rigorose di un consulente editoriale

[a cura di S.S. Nigro, Adelphi, Milano 2016]

«Estrosità rigorose» è espressione dello stesso Manganelli, che la usa nell’Encomio del tiranno (scritto all’unico scopo di fare dei soldi). Là, le estrosità sono quelle con cui lo scrittore buffone diverte il suo tiranno, l’editore, che seppure analfabeta conosce il piacere raro che danno «i ludi e i motteggi» della letteratura, piaceri «per anime disoneste» (e ipocrite). Sotto questo titolo d’autore, Salvatore Nigro raccoglie materiale proveniente dall’attività editoriale dello scrittore: risvolti, pareri e schede di lettura – «assaggi» di «ghiottonerie» o bocconi avvelenati –, corrispondenza, «expertises» su traduzioni dall’inglese, progetti di collane; il tutto redatto in un periodo che comincia nei primi anni sessanta, quando è consulente Garzanti sotto Citati; passa per il decennio di collaborazione einaudiana che termina nel febbraio ’75 – dopo aver costeggiato una inconcludente relazione con Mondadori via Sereni –; e si conclude con una breve ripresa presso Adelphi, suo editore in vita e ora in morte, dopo che Rizzoli – meno avaro di Einaudi – lo aveva sollevato dalle consulenze con edizioni generose e più fruttuose collaborazioni giornalistiche. È un libro assemblato dal suo curatore con libertà ma anche con un certo rigore (l’apparato di note, manganellianamente chiamato “commento”, è poco serioso e tuttavia dettagliato), nel quale viene ricostruito uno spaccato significativo di vita editoriale e letteraria, non priva di valore anche per il critico. Forse per le vicende della letteratura autoctona, il momento più interessante riguarda la serie italiana della collana «La ricerca letteraria», con cui Giulio Einaudi, in ritardo, cerca di portare verso le sue sponde l’onda avanguardistica (che è in realtà già riflusso). Manganelli – che dopo aver esordito con Hilarotragoedia (1964) presso Feltrinelli, la casa dell’avanguardia, passa a Einaudi anche come autore – dirige con Davico e Sanguineti, facendo la sua parte, senza la partigianeria di Sanguineti («questi libri che stanno a mezza strada da Mastronardi a Finnegans Wake mi danno il capogiro»). Interessanti anche le letture di letteratura e critica anglosassone e i giudizi su grandi autori ancora non affermati (una memorabile stroncatura di Lessing, un affetto quasi compassionevole per Gordimer, l’intuito su Kadaré, il sospetto su Naipaul).

Ma il meglio naturalmente è lo stile di Manganelli, spesso all’altezza delle sue opere letterarie, soprattutto quando trova interlocutori congeniali come gli einaudiani Guido Davico Bonino, Giulio Bollati, o anche Paolo Fossati e Daniele Ponchiroli. C’è un Manganelli consulente che precede la pubblicazione di Hilarotragoedia, quello garzantiano, solerte e noioso nelle sue schede, e ce n’è uno successivo, meraviglioso, sfacciato, disforico, scoppiettante, che regala giudizi e sintesi formidabili: «romanzetto psicologico naturalista (suicidio del padre frustra, svelando le tare ereditarie di una famiglia, le speranze matrimoniali di giovane figlia, Australia)». Oppure: «Libro ambizioso e rudimentale, di una noia psicomoralistica intollerabile, e pertanto di probabile successo presso lettori sommariamente inclini ai pedagogici disagi dell’anima». O in una sola riga, politicamente scorretta, per Adelphi: «romanzo lesbico-trotskista, molto educativo e nobilmente progressista. Al diavolo». I giudizi sui critici non sono da meno e infilzano tanto i critici militanti («legge tutto, sa tutto. Ma da recensore»), quanto quelli accademici («soffre di una certa carenza di fantasia critica concreta, e di una ipertrofia retorica»). Quale che sia la categoria del critico, l’anglista Manganelli lo vuole witty, dotato di acume, arguzia, spirito.

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