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rivista semestrale

anno XXXVI - terza serie

numero 89

gennaio/giugno 2024

Milo De Angelis, Quell’andarsene nel buio dei cortili

[Mondadori, Milano 2010]

Cinque anni dopo Tema dell’addio, Milo De Angelis ha pubblicato cinquantasette nuovi testi. Quell’andarsene nel buio dei cortili è un libro esile e denso, in cui si intrecciano molti temi presenti nelle opere precedenti, ma rimodulati e declinati in nuove forme. Le cinque sezioni della raccolta sono scandite da costanti lessicali, da parole-segno: vocaboli legati a linee di ricerca che ricorrono nei suoi libri fin dal 1976, l’anno di Somiglianze. “Estate”, “asfalto”, “notte”, “buio”, “sangue”, “sillaba”, “attimo”, “pioppi” sono le spie linguistiche di una scrittura che è anche l’inseguimento di alcune ossessioni, lessicali ed esistenziali. Qui sono riproposte in diverse combinazioni e formano un nuovo collage di significati. Questa riscrittura procede per spostamenti minimi e coinvolge anche il titolo. In uno degli ultimi testi (p. 73) il verso finale è quasi identico a quello che dà il nome al libro: «quell’andarsene dei cortili nel buio».

L’unica variazione è nello scambio di posizione fra i due segmenti finali; ma in questo modo cambia anche il potenziale soggetto del verbo. Il primo nucleo lessicale che emerge dalla raccolta ha come centro semantico la parola “buio”. L’assenza di luce è metaforica, esistenziale: un «buio senza notte» (p. 75), una condizione totalizzante che pervade anche la pienezza estiva, creando situazioni ossimoriche. L’oscurità è doppiamente necessaria, innanzitutto in quanto condizione della scrittura, suo strumento indispensabile: il sangue «bagna la parola» (p. 17); inoltre è l’unica possibile rappresentazione della lacerazione, del nucleo tragico alla base della realtà. Per questo anche nell’ultima sezione, nonostante sia intitolata Canzoncine, lo sguardo del soggetto lirico è sempre tagliente ed amaro, fino alla tragicità manifesta dei testi finali di Voci.

La drammaticità delle poesie è incarnata in luoghi e situazioni concrete e vicine: portoni, cortili, quartieri, bar, piazze, strade, citofoni. «L’ultima frase sfiora la prima», si legge nell’ultima sezione del libro. E così anche i luoghi di quest’ultima raccolta sono gli stessi di Somiglianze, poi di Millimetri e, soprattutto, di Biografia sommaria. Ancora una volta la dimensione temporale dominante è quella dell’«attimo» (pp. 9, 34, 71): il tempo è concentrato come la scrittura che lo esprime, e possono esserne rappresentati solo frammenti. «È la solitudine dell’uomo, / il suo unico quartiere. Devi guardare». L’uso dell’imperativo è un’altra delle costanti della poesia di De Angelis; la scrittura è pervasa da una tensione etica ed è intesa come «obbedienza ad un mandato». A questa sfera sono riconducibili altri percorsi lessicali, altre ripetizioni di parole-segno: le sillabe («nostre amate», «solitarie », «disperse), la «parola data», l’«alfabeto del momento». Il testo-chiave è al centro del libro, nella terza sezione: «Abbiamo scritto per un mandato / certo come il nostro smarrimento, / eravamo lì, in un fervore di ceneri, / murati vivi, mentre una foiba scendeva / nella bocca, sigillava tutte le parole date ».

La poesia è una forma di traduzione di una parola già data: quest’aspetto, già accennato nei libri precedenti, è qui declinato più esplicitamente nella forma del colloquio con i morti. Il testo finale è quasi un’invocazione: «insegnatemi il cammino, voi che siete / stati morti, attingete la nostra / verità dal pozzo sigillato, staccatevi dal tempo […] / torneremo a casa, vi diremo». Nell’Introduzione all’Oscar Mondadori del 2008 Affinati ha scritto che per De Angelis «esiste un ordine che ci precede al quale dobbiamo attenerci. Scrivere vuol dire azionare un meccanismo di andata e ritorno nel tempo e nello spazio». In Quell’andarsene nel buio dei cortili andarsene e ritornare sono due dimensioni opposte, entrambe necessarie: «Per nascere occorre un ritorno» (p. 41). L’allontanamento è violento, è una frattura drammatica: ma è necessario perché la scrittura stessa prenda corpo. Solo in questo modo la voce dell’io poetico può diventare «oscuramente esatta», e la poesia può essere un’esperienza conoscitiva.

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