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rivista semestrale

anno XXXV - terza serie

numero 88

luglio/dicembre 2023

Sophie Rabau, Carmen, pour changer

[ Anacharsis, Toulouse 2018 ]

Resa celebre dall’omonima opera di Georges Bizet, Carmen di Prosper Mérimée è una novella in quattro atti dove si immagina di produrre a beneficio di un uditorio il resoconto di un viaggio in Spagna, presumibilmente avvenuto nel 1830. Il fulcro del racconto – e dei numerosi adattamenti cinematografici e teatrali che ne sono stati tratti nel corso del tempo – è la burrascosa relazione sentimentale tra l’irruente Don José Navarro, in fuga dalla legge per aver ucciso un uomo durante una rissa, e la seducente Carmen, una zingara in grado di predire il futuro altrui, ma incapace di mettersi in guardia dal proprio. Analizzati nei dettagli, i comportamenti di questi due personaggi – che Mérimée afferma a più riprese di aver incontrato per davvero e dei quali sembra sforzarsi di esplorare la psicologia – finiscono col rappresentare, pagina dopo pagina e come per metonimia, modelli antitetici di uno stesso “stare al mondo”. È quanto affascina e disturba Sophie Rabau, che in un saggio scritto di getto, a latere di corsi universitari volti ad approfondire gli stessi temi, s’impegna, da un lato, a decostruire i paradigmi sociali che paiono aver influenzato la definizione di ciascuno di questi due “caratteri”, dall’altro, a suggerire delle alternative valide all’esito discorsivo di una vicenda che lascia intravedere, seppur in filigrana, l’eventualità di una risoluzione meno drammatica – quantomeno per Carmen.

«Si sono da sempre chiamate tragedie le storie che non si pensava di poter raccontare altrimenti», afferma Rabau con piglio provocatorio. A ben guardare, il progetto del suo nuovo libro – che intrattiene sul piano teorico un rapporto di complementarità perfetta col precedente B. comme Homère (2016) – ruota tutto intorno a questo postulato, del quale si tende a misurare non solo la complessità latente, ma anche e soprattutto la pertinenza, nel clima eteronormato e patriarcale di cui Mérimée, suo malgrado, si è fatto tramite. In questo caso non si tratta di riscrivere, reinventare, rivisitare; ma piuttosto di operare una serie di variazioni interpretative sul testo di partenza, col duplice obiettivo di suggerire modalità di ricezione diverse da quelle a cui siamo stati abituati e seminare il dubbio in merito a scelte diegetiche che avrebbero potuto configurarsi in altro modo, se solo le circostanze lo avessero permesso. Lungi dall’assecondare tentazioni di tipo anacronistico, Rabau insiste sul fatto che, a discapito dello scarto che separa noi contemporanei dall’ambito di produzione dell’opera in esame, alcune delle “trappole narrative” in cui è incappato Mérimée non hanno smesso, a più di un secolo di distanza, di mietere le loro vittime; non senza ironia, le sue analisi ci invitano ad affrontare i rapporti tra passato e presente mettendo l’accento sulle linee di continuità, anziché su ogni presunta “cesura epocale”.

A livello formale, la prosa di Rabau si caratterizza per un tono spigliato, a tratti giornalistico – di cui quanti hanno seguito gli interventi dell’autrice apparsi negli ultimi anni sulla rivista «Vacarme» non potranno non riconoscere la verve quasi pamphlettistica. Rispetto al senso dell’umorismo di cui fanno prova, esso contribuisce a meglio esplicitare le finalità di determinati argomenti, così come a desacralizzare i vizi di una certa scrittura accademica, colpevole anch’essa di aver alimentato i luoghi comuni, istituzionalizzando ulteriormente la norma, invece di metterla in discussione, se necessario anche in maniera radicale. Che il riso “protegga” Rabau sembra suggerirlo ripetutamente, soprattutto quando si esprime in merito al potenziale comico di Carmen – troppo spesso subordinato alle sventure fintamente ineluttabili che le sono state cucite addosso –; che il riso non solo protegga, ma addirittura “salvi”, contribuendo a palesare gli artifici e a metterne in evidenza i dispositivi di funzionamento, è quel che traspare fra le righe di una monografia pensata sia per instaurare un “corpo a corpo” con la tradizione, sia per rinnovare le ragioni ancora suscettibili, oggi, di legittimare un tale dialogo. 

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