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rivista semestrale

anno XXXVI - terza serie

numero 89

gennaio/giugno 2024

Simona Carretta, Il romanzo a variazioni

[ Mimesis, Milano-Udine 2019 ]

Il romanzo a variazioni di Simona Carretta è un saggio sul romanzo contemporaneo che utilizza la figura della variazione musicale come approdo per elaborare una visione d’insieme esemplificata su un ventaglio di autori molto ampio, con una evidente predilezione per Milan Kundera, ma con delle belle pagine su Thomas Bernhard e Danilo Kiš. Tale visione possiede indubbio fascino, ed è quella per cui la variazione (intesa come una struttura in cui lo stesso elemento viene riproposto di volta in volta leggermente mutato) sia un principio che il romanzo contemporaneo ha introiettato come veicolo per il rinnovamento dello schema romanzesco tradizionale («il romanzo realista di Balzac», p. 127). Articolato in due libri, incorniciati da un’«Ouverture» e un «Interludio», composti da dodici capitoli e ulteriormente raggruppati in due movimenti ciascuno, Il romanzo a variazioni procede non in maniera cronologica, ma con un susseguirsi di nodi in cui l’autrice affronta i testi avvalendosi di autorità critiche sempre pertinenti, come nel caso del capitolo V, dove l’applicazione della visione kierkegaardiana della «Ripetizione» illumina l’opera di Kiš in maniera davvero apprezzabile.

Il romanzo a variazioni si propone come una risorsa che può essere impiegata dal lettore in modo duplice. Se letto con occhio teorico, se ne può trarre una teoria del romanzo coerente, fondata sull’assunto principale dell’interconnessione della forma romanzo (nell’accezione rigorosamente kunderiana di “arte indipendente”, piuttosto che di genere) con la musica. L’autrice isola la variazione come momento segnante di questa relazione, che il romanzo contemporaneo accoglie a mo’ di principio di riorganizzazione formale e che sfocia in possibilità varie e variegate, e quasi antitetiche. Da un lato, in autori come Kundera e Kiš, la variazione ribadisce un’unità, una coerenza del romanzo, quasi una nuova “regola aristotelica” per il XX secolo, una sorta di volontà di arginare il caos dell’esistenza sfruttando «i principi compositivi organici […] necessari allo sviluppo di un’immagine coerente del mondo» (p. 161). All’opposto, nei casi, tra gli altri, di Robbe-Grillet e Calvino, la variazione è fatta assurgere a correlativo oggettivo della frammentazione della materia romanzesca, ad «agent[e] di disgregazione della forma» (p. 162).

Il lettore che voglia invece leggere il libro di Carretta storicamente, rintracciando un percorso anche cronologico in cui orientarsi, dovrà fare più fatica. Seppure l’autrice è chiara nel collocare (con Michel Butor) all’inizio del XX secolo una soglia simbolica in cui la variazione diviene una marca distintiva indispensabile per comprendere l’arte (e in particolare il romanzo) nel Novecento, la progressione di Il romanzo a variazioni è profondamente idiosincratica, e segue un percorso che non è avventato definire fortemente saggistico, molto difficile da imbrigliare in schemi e tassonomie “di servizio”. Questa caratteristica è il vero punto di forza del libro di Carretta, che procede quasi adattandosi alla materia trattata, e non si risolve mai a trasformarsi in una monografia scientifica. Non solo la disposizione “musicalizzata” dei capitoli, ma un vero e proprio investimento intellettuale dell’autrice nei confronti della forma romanzo, che è descritto spesso con toni di reverenza, non permette tassonomie riassuntive, e deve essere letto tutto d’un fiato. Carretta è una studiosa che crede fermamente nella ascientificità del romanzo (come dichiara nell’«Ouverture»), e ha scelto di affidarsi alla forma del saggio, «metodo ametodico» par excellence, per veicolare dei contenuti molto precisi.

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