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rivista semestrale

anno XXXVI - terza serie

numero 89

gennaio/giugno 2024

Silvio Soldini, Cosa voglio di più

[Italia-Svizzera 2010]

Si comincia con un parto. Con un padre assente perché deve lavorare. La vita che chiede di uscire e l’esistenza sotto ricatto delle necessità: proprio questa polarità dà forma e significato a Cosa voglio di più. Anna, segretaria a Milano, svegliata d’urgenza dalla sorella con doglie, si precipita all’ospedale assieme al suo compagno. «Non me lo immaginavo che era così violento. Nascere», dirà in fondo alla giornata, mentre stappa una birra nel trilocale di uno dei quartieri-dormitorio della periferia dove abita; pronuncia parole che sulle prime suonano strane, perché stupisce che Anna viva quell’esperienza identificandosi nel bambino, piuttosto che nella madre. Man mano che il film va avanti però tutto diviene chiaro: anche Anna, infatti, cerca di nascere di nuovo dando vita a una relazione extraconiugale con Domenico, operaio calabrese tuttofare di un’impresa di catering, sposato e con due figli piccoli.

Il film di Soldini è forse il più bello di una stagione italiana particolarmente significativa (La prima linea, De Maria, 2009; L’uomo che verrà, Diritti, 2009; La bocca del lupo, Marcello, 2009; La nostra vita, Luchetti, 2010; La prima cosa bella, Virzì, 2010). E ciò dipende non tanto dalla vicenda in sé, che ridotta allo scheletro sarebbe di una banalità insuperabile, ma dalla capacità di raccontarla attraverso le situazioni – situazioni, non cause – che la fanno esistere. È prodigiosa, da questo punto di vista, la prima battuta che Anna rivolge a Domenico quando si conoscono: «Scusa, sono trasparente?», dove subito risaltano due motivi centrali del film: in primo luogo un modulo femminile come rivendicazione arrabbiata contro un maschile in fuga dalle responsabilità che caratterizza l’intero sistema dei personaggi (che i rispettivi hobby dei due amanti siano il disegno e le immersioni subacquee è un dettaglio che fa significato); in secondo luogo, l’ansia di protagonismo, ovvero di una dimensione romanzesca della vita che sembra spingere Anna prima e più di tutto il resto, a prescindere dalla direzione.

La mancanza di punto interrogativo, nel titolo, suggerisce anche un’insoddisfazione senza possibilità di tensione, nel senso del cambiamento; e se la frase – ha spiegato Soldini – potrebbe essere quella che si ripete Domenico canticchiando Battisti, quando torna a casa dopo il primo tradimento, ciò a maggior ragione conferma, ritmandolo, uno stato di inerzia permanente. Situazioni mentali e materiali divengono allora un corpo unico, come quello di Anna e Domenico quando fanno l’amore, grazie a una prosa quotidiana straordinariamente descritta: spesso di spalle, con camera a mano mai eccessiva; con attenzione ai personaggi secondari; con l’impassibilità di uno sguardo posato su dettagli che raccontano tutto un modo di stare dentro la vita: dove gli spazi dell’esistenza condivisa sono il parcheggio dell’Ikea, il supermarket, i balconi di cemento, la pizzeria, i motel a ore. Anche i tempi sono espressivi: scanditi dal lavoro nero, dai viaggi sui treni per i pendolari, da vacanze esotiche low cost, mentre intanto si scivola nella socialità preverbale di ritorno del gioco dei mimi.

E si va avanti: a forza di cibo mai cucinato – se non dalla famiglia – e riscaldato nel microonde, tonno in scatola e broccoli ripassati, bambini isterici adultizzati, patchouli, salsa e caipiriña, gite gastronomiche («per la polenta e capriolo si fa questo e altro!»), relazioni fittizie via sms – ma i corpi son troppo belli, e per giunta senza nemmeno un tatuaggio. La relazione sentimentale che nasce dentro questa forma di vita, con un’intesa fisica mai provata prima, è impensabile al di fuori del contesto oggettivo, che è, al tempo stesso, punto da cui si fugge e condizione di esistenza del rapporto. Per quanto bello, o proprio perché così bello, il sesso produce una specie di implosione. Non è la passione che porta via – in quanto reale alternativa –, ma la passione partorita da quel mondo, che alla lunga sprofonda gli eroi, e li aliena ancora di più rispetto al cosa voglio. «“Il mio capo domani si sposa per la terza volta”. / “Eh, cià i soldi!” / “Sempre di quelli si finisce a parlare”».

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