allegoriaonline.it

rivista semestrale

anno XXXV - terza serie

numero 87

gennaio/giugno 2023

Nanni Moretti, Habemus papam

[Italia 2011]

«Secondo me gli italiani sono cattolici e laici, ma anche ai più laici piace la benedizione del papa. Non si sa mai». Non è tanto in riferimento a una scaramanzia tutta italica – meglio avere i santi dalla propria parte – che l’aforisma di Gaber viene in mente guardando una loggia di San Pietro vuota, su cui si sofferma per pochi, pesanti istanti, la macchina da presa di Habemus papam. Fa pensare piuttosto che ci sia una necessità – a sua volta italica – che spinge anche l’occhio non complice a guardare alla loggia di San Pietro cercandovi un’autorità dalla quale magari dissentire. Ma la grande finestra balconata, da cui una folla in attesa da giorni spera di vedere affacciarsi il nuovo pontefice, resta un buco nero intorno a cui nel silenzio si agitano le tende rosso cardinalizio mosse dal vento. Nessuna figura benedicente si offre ai milioni di occhi puntati su un’assenza che turba, come turba il venir meno dei pilastri portanti, siano essi amati o odiati, avvertiti o meno nella loro indispensabilità.

L’autorità in questione ha caratteristiche tali da installarsi con efficacia in un immaginario archetipico coltivato in secoli di pastorale meticolosa: infallibilità, potere di assolvere o di dannare, trascendenza, nelle mani di un apparato terreno. Habemus papam mette in scena il culmine di questa contraddizione: la crisi di un’istituzione che si fa carne – fragile, sofferente, umana – nella persona di un vecchio cardinale (Michel Piccoli) che non riesce ad accettare la nomina di pontefice, caduta su di lui come una condanna. Melville, eletto papa, cede all’insostenibile peso della universalità (della “cattolicità”, letteralmente) caricata sulle sue spalle di vecchio, e rifiuta con un urlato «Non ce la faccio!» di mostrarsi al mondo nella sua nuova, troppo pesante veste. Che sia molto umano lo dice il suo busto gonfio, il suo petto irsuto di peli grigi auscultato dal medico, ed esposto con inclemenza agli sguardi dei cardinali elettori.

Che la radice del suo male sia somatica? Che sia psichica? Si consulta allora uno psicanalista, e si ammette così nelle stanze vaticane (ricostruite con un realismo forse più vicino all’immaginario che alla realtà, ma per questo riuscito) la disciplina osteggiata per decenni dalla Chiesa non solo come materialista e pansessualista, ma anche perché rivale nel monopolio del segreto delle coscienze. Impossibile, però, intraprendere una terapia. La presenza obbligatoria di uno stuolo di cardinali preclude qualsiasi costruzione di un setting; il divieto di indagine sui sogni e sull’infanzia disarma lo psicanalista e nega al papa, il cui nome stesso è irrivelabile, lo statuto non solo di paziente, ma, vuole dirci Moretti, anche di persona. Solo fuori dalle mura vaticane, mescolato al mondo, può avere diritto a un’umanità altrimenti negata. La crisi della Chiesa di fronte alla implicazione con l’umano non è nuova alla filmografia morettiana.

Se per don Giulio, il giovane protagonista di La messa è finita (1985), proprio la mescolanza con il mondo era fonte di destabilizzazione tanto da indurlo, sull’orlo del crollo, a cercare l’isolamento, l’anziano cardinale alle soglie del pontificato implora ora di essere lasciato nella propria fragilità. Accolto in una compagnia di attori (il teatro, la sua passione di ragazzo) siede alla loro tavola, assiste alle loro prove. Paziente, seppur con indosso l’identità- maschera di quello che avrebbe voluto essere (un attore, lui che nella realtà è incapace di sostenere la recita del potere), di una terapeuta donna, ne conosce la quotidianità fragile e implicata col mondo.

Spogliato della veste papale, è un vecchio che nella sera parla da solo in autobus, affetto agli occhi dei presenti da probabile demenza senile. Mentre, dentro le mura della città vaticana, una macchina organizzativa disumana (che prescinde dall’umano) si arrabatta nel far credere al mondo che il papa esiste e che la Chiesa gode di ottima salute. Rappresentazione potente, e tanto più riuscita perché capace anche di ironia e leggerezza, della crisi di un’istituzione – tutta maschile, anziana – sempre più distante dal mondo.

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