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rivista semestrale

anno XXXV - terza serie

numero 88

luglio/dicembre 2023

Francesco Targhetta – La colpa al capitalismo

[ La nave di Teseo, Milano 2022 ]

Se lo spazio chiave del precedente Perciò veniamo bene nelle fotografie (2012 e 2019) è il non luogo magnetico del centro commerciale, la cifra esistenziale e sociale delle figure che popolano i versi dell’ultimo libro di Francesco Targhetta è segnata dallo spazio marginale e slavato del condominio di periferia. La colpa al capitalismo è intessuto di immagini condominiali, in un climax che culmina con La ballata dei condomini inesplosi (p. 123), dove la condizione di incuria e abbandono, perché «nessuno ormai si cura / di accomodarli o ridare la calce, / a nessuno nemmeno interessa / tirarli giù», dei condomini «di facce sbiadite / su cui finivano le città » è accostata, per contrasto, al «destino» cui «obbediscono» gli ecomostri, «al mattino presto, / con la dinamite sui litorali». Negate tanto la manutenzione quanto l’esplosione, ai primi è assegnata, piuttosto, la funzione di restare integri abbastanza per ospitare il disfacimento, lo scarto, l’aporia. Il condominio inesploso ed eroso è qui assunto a correlativo oggettivo di una soggettività cava, quella «cui si accorda ogni forma di vuoto» (Steli, p. 116) o che corrisponde a un «vuoto a rendere» (Vuoto a rendere, p. 131). È la soggettività di Nora, che «sente il vuoto scavarle là / dove ci sono stomaco e linfa» (Nora tra i fantasmi, p. 105) o di Fabio, che «ripensa al vuoto e al posto perso» (Per Marghera, p. 136), o di Zero, che «lui un po’ lo sa / che quel numero vuoto dice il terrore / di sbagliare ogni cosa, e disegna / il suo profilo rotondo» (Per Zero, p. 148).
Se il centro commerciale è il luogo dell’omologazione, il condominio inesploso è lo spazio dell’invisibilizzazione, dove al senso di appartenenza collettiva si sostituiscono, entrambe percepite come rassicuranti, la condivisione delle solitudini («è così, all’ora di cena, / sopra le sigle dei telegiornali, / che sente di vivere in società, / nell’abbraccio dei pianerottoli illuminati / e tra le chiacchiere e il respiro degli altri», Nostalgia per la vita comunitaria di un tempo #2, p. 64) o l’adesione a scatole identitarie predefinite («Denis si sente molto meno solo / da quando frequenta il mercoledì / la sede locale di Casa Pound», La solitudine di Denis, p. 89).
Cinque sezioni di poesie più brevi (La colpa al capitalismo, Vita associata, Individualismo occidentale applicato, Ad altezza d’uomo, Nothing left to do list) e cinque poemetti (La morte seconda, Tiziano tra le bandiere, Nora dei fantasmi, Elegia per Marghera, Per Zero) compongono la struttura del libro. All’eterogeneità della misura fa da contrappeso una costante retorica: il ricorso alla terza persona, al dispositivo del personaggio. La colpa al capitalismo espone allo sguardo del lettore un campionario di individui, ciascuno dei quali è fotografato in un micro-evento e cristallizzato in un gesto che resta in bilico tra ribellione e rassegnazione, finché la terza persona cede il passo alla prima; e ciò avviene solo nella strofa conclusiva del penultimo testo: «Al prossimo incontro / rallento e mi accodo: / a costo di perdere tutto / io voglio stare con loro» (Stare con loro, p. 155).
Il montaggio sembra disegnare un percorso verso la conquista di un’identità cava, di una soggettività che coincide più con il contenitore che con il contenuto: ne è un’immagine quanto mai riuscita quella degli «autocarri dei trasporti eccezionali, / incerta, se mai esiste, la loro / meta, nera la mole del carico», «non entrano, non / escono, non passano un casello: / sfilano soltanto in lento corteo,» al cui “non destino” di cieco disciplinamento desidera unirsi l’io che sbuca nell’ultima sezione, tutto proteso alla ricerca di una salvezza terribile, nel suo terribile reiterare il passo doppio di perdita e ingabbiamento.
«Data la colpa al capitalismo» (verso incipit del libro, che amplifica il titolo), nothing left to do list (illuminante fusione di nothing left to do e to do list che dà il nome all’ultima sezione), cioè nient’altro ci resta da fare che lasciarci disciplinare, in un ordine vuoto, il vuoto di destino a cui siamo condannati ad ambire.

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