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rivista semestrale

anno XXXV - terza serie

numero 88

luglio/dicembre 2023

Irvine Welsh, Skagboys

[Guanda, Milano 2012]

L’ultimo romanzo di uno dei più prolifici autori degli ultimi vent’anni pare un sforzo di sintesi del mondo raccontato nei suoi libri precedenti: dipendenza da eroina, da cui il titolo (“Skag” è il nome della polvere marrone che ha sostituito quella bianca); stagione del thatcherismo vista da una decentratissima Scozia; giovinezza e pulsionalità feroce; vuoto comunicativo tra i ragazzi di fine anni Settanta e una generazione, quella precedente, che, mentre magari marcia con i figli durante gli scioperi, non può avvicinarsi davvero a loro anche perché non sa, letteralmente, cosa pretende il sangue che scorre nelle loro vene.

Welsh cede la voce narrante ai personaggi, come già in passato; tutto, per il suo lettore abituale, evoca i luoghi del ricordo: tra la periferia di Edimburgo e Amsterdam, passando da Londra e finendo anche su una nave commerciale chiamata “Libertà di scelta”, si ritrovano, soltanto un po’ più giovani, i protagonisti e le tecniche diegetiche di Trainspotting (1993). A distanza di quasi vent’anni, si riempiono i vuoti consapevolmente lasciati dal libro precedente.

Così tornano in scena, qualche anno prima di quella vicenda e agli albori della loro tossicomania, il duo di testa formato da Marc Renton e Sickboy, l’ingenuo eppure acutissimo Spud, il sanguinario, appassionato e perturbante Bagbie, Alison dal disincanto perpetuo e sempre in cerca di particelle di mondo che le diano torto, di solito attaccate al corpo di un maschio e quindi deludenti quanto il loro supporto. Ognuno racconta, mosso da necessità proprie e nel suo modo, l’incontro con gli altri e quello con le sostanze, ma una voce onnisciente e limpida unisce le parti e mette in sequenza elementi documentari da romanzo storico: date, cifre, ricostruzioni e persino un elenco di necrologi. Ce n’é abbastanza per neutralizzare quell’effetto di poliprospettivismo sul disarticolato che era la cifra più forte di Trainspotting. Questo perché pare che si persegua uno scopo più ambizioso: realizzare l’unità di senso puntando a un più di oggettività e quindi svincolandosi dalla pur geniale sintesi del più bravo dei narratori interni, Marc Renton (molto probabilmente la deliberata incarnazione dello stesso Welsh). A Renton, eroe dicitore, resta la furia autodistruttiva degli aforismi: «Non è questione di aiuto, è questione di essere. Se essere scozzesi si identifica in qualcosa, quella cosa è farsi […] per noi gli additivi non sono solo un bel fracco di ghignate, e nemmeno un fondamentale diritto umano. Sono un modo di vivere, una filosofia politica». In Trainspotting una frase del genere sarebbe stata definitoria, qui no. Qui nessuno può dire tutto per tutti e il mondo resta aperto. Il racconto in terza persona e dall’esterno esegue quell’armonizzazione cronologica che, impossibile in privato, diventa necessaria nella sincronia artificiosa e responsabile della condivisione.

Allora forse il maggior pregio di Skagboys è, abbastanza semplicemente, il pieno sviluppo delle frasi scelte come esergo: «Una cosa come la società non esiste» versus «Quel senso calvinista di innata depravazione e peccato originale dalle cui visite, nell’una o nell’altra forma, nessuna mente volta a pensieri profondi è mai del tutto libera». La prima è di Margaret Thatcher, la seconda di Herman Melville. Quando si deve scrivere un romanzo corale di questa natura, entrambe le affermazioni hanno il loro peso e fanno sentire l’urto della contraddizione. Ma la prima deve essere sconfitta, rovesciata di segno dal racconto. Forse la confluenza di istanze così forti è la più ambiziosa scommessa di quest’opera. E, a mio parere, Welsh riesce a vincerla lasciando pochissimi dubbi sul fatto che, effettivamente, una cosa come la società tende a esistere con una certa pervicacia.

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