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rivista semestrale

anno XXXV - terza serie

numero 87

gennaio/giugno 2023

Kevin Powers, Yellow Birds

[ trad. it. di M. Colombo, Einaudi, Torino 2013 ]

«It is normal to have stress reactions after a traumatic event. Your emotions and behavior can change in ways that are upsetting to you. Even though most people have stress reactions following a trauma they get better in time». Queste, le prime linee guida fornite dal National Center for PTSD (Post- Traumatic Stress Disorder) of USA a chi voglia intraprendere un percorso di recupero. Si parla di PTSD in rapporto a eventi come gli attacchi terroristici o la guerra; è un disturbo sensibilmente in crescita, specie dopo i conflitti di Afghanistan e Iraq, ma sull’argomento vige una forma di pudore che sfiora l’ottundimento. Yellow Birds, romanzo primo di Kewin Powers, arruolato nell’esercito americano a diciassette anni, mitragliere in Iraq tra il 2004 e il 2005, mette in scena una vera e propria fenomenologia del trauma attraverso la perdita dell’innocenza e la scoperta della memoria come unica dimensione con la quale risignificare la vita tra il prima e il dopo della guerra.

Al Tafar, Governatorato di Ninawa, Iraq, 2004; Richmond, Virginia, 2005. Sono questi i confini spazio- temporali entro i quali Powers concentra la narrazione. Il plot è minimo. Alternando il racconto dell’esperienza passata a quello del presente, procede in una continua oscillazione tra ricordo e oblio: due continenti, due mondi, il passato recente della guerra, la perdita di un commilitone, la rielaborazione del lutto, il presente vischioso del ritorno in patria e il senso di colpa del sopravvissuto. Tuttavia, l’elemento traumatico si innesta nella scrittura destrutturando l’evento che lo ha originato e costruendo il racconto secondo nuove modalità. Memore della lezione di Addio alle armi e di The Things They Carried, Powers dispiega una psicopatologia della guerra vissuta come evento assoluto e fondativo: «adesso so che qualsiasi cosa avrà mai importanza nella mia vita ebbe inizio allora» (p. 6).

Ma la guerra oltre che creare una cesura è anche momento di verità: la personificazione che si legge nell’incipit («La guerra provò a ucciderci in primavera ») si apre sul baratro dell’assenza di futuro e sulla minaccia della morte, e la sua reiterazione rivela di un trauma sempre presente alla coscienza, che fa uscire il linguaggio dal codice della guerra per divenire espressione di un’interiorità frammentata. Un’interiorità che, narrata in prima persona, si configura come un’enorme riserva in cui le situazioni neutre, che compongono la vita, intessono una fitta rete di corrispondenze che sfuggono al soggetto e ne sovvertono l’ordine conoscitivo: «Il consueto era divenuto straordinario, lo straordinario tedioso, e nei confronti di qualunque cosa stesse in mezzo provavo solo una confusione inquieta» (p. 89).

Ed è per questo che gli sforzi del narratore di ricordare e ricostruire il passato possono essere letti come un lungo percorso di risalita verso le origini dell’evento primo, verso l’esperienza realmente vissuta, il cui trauma derivante assume una doppia funzione: da un lato si incide in modo permanente nel tessuto psichico del soggetto, e dall’altro si offre come possibilità alla narrazione. Ne emerge un racconto delicato e potente, mai lineare, che procede a strappi, per squarci lirici, ricco di descrizioni e riflessioni, come se l’interiorità traumatizzata si riversasse, incontinente, sulla pagina: «mi resi conto che le tacche non si potevano organizzare in alcun modo. […] Rappresentavano la casualità della guerra, e venivano tracciate nel momento in cui le ricordavo: il disordine si imponeva» (p. 183).

Tra disordine e casualità, l’entropia delle esistenze in stato di guerra fa sì che le stesse si cristallizzino in un nucleo difensivo e riflessivo a dispetto di quelle vite ignare che seguono il loro corso, al riparo da tutto il resto. Conscia di questo scarto, come dell’impossibilità di trovare una logica negli eventi, l’interiorità finisce per abbandonarsi alla consuetudine, che sottilmente si insinua sottraendo spazio ai dettagli e al dolore, nel tentativo di recuperare un’apparenza di normalità e di dare senso di durata alla discontinuità.

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