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rivista semestrale

anno XXXV - terza serie

numero 88

luglio/dicembre 2023

Paolo Cognetti, Sofia si veste sempre di nero

[ minimum fax, Roma 2012 ]

In Manuale per ragazze di successo (2004) e Una cosa piccola che sta per esplodere (2007), la short story era usata da Cognetti come strumento privilegiato per raccontare il superamento dell’oppressione o l’assenza delle figure familiari, la disillusione – talvolta più aspra della delusione – amorosa o generazionale da parte di giovani soggetti prevalentemente femminili. Nella seconda raccolta di queste Bildung-short stories si assisteva a un’evoluzione da trame strettamente soggettive a vere e proprie mappe affettive, in cui spesso le vicende venivano filtrate mediante la sovrapposizione di narratori intradiegetici, come nel racconto Le cose che non so di lei, in cui la ribellione giovanile della madre è riferita tramite la testimonianza della nonna.

In Sofia si veste sempre di nero la sperimentazione sulle voci narranti si evolve nel passaggio alla forma del romanzo di racconti, mutuata dall’Hemingway dei Racconti di Nick Adams e dalle opere recenti di Elizabeth Strout e Colum McCann. Mantenendo l’ampiezza del mondo romanzesco, l’autore addensa il racconto della quotidianità nel tempo dell’avventura, facendo di ogni capitolo una short story indipendente dalle altre. Ogni racconto ha per tema il distacco della protagonista dall’alveo relazionale della propria educazione sentimentale – genitori perennemente affetti dalle nevrosi della coppia borghese, una zia confidente ex-militante dell’autonomia operaia, un maestro di teatro, le amiche con cui divide l’appartamento, e infine Pietro, probabile alter-ego dello stesso Cognetti.

Dalla precarietà esistenziale Sofia ricava uno spiccato “senso della fine” («Non affezionarti a niente. Piuttosto che rimetterci la pelle, è molto meglio prendere le tue idee, il tuo amore e i tuoi quattro stracci e portare tutto quanto altrove», p. 125), in palese contraddizione con la consapevolezza che solo il tempo misura il valore che diamo alle cose («L’importante […] è abituarsi a una faccia: non la bellezza ma l’abitudine. La bellezza in fondo cos’è, una stupida questione geometrica…», p. 187). Sofia deve quindi sottrarsi a due specie di alienazione: smarrirsi completamente nel mondo, addestrandosi all’indifferenza e all’anaffettività, oppure perdersi dentro se stessa.

Decide così di valorizzare pienamente la propria esperienza vissuta: «Sei la maestra e l’allieva della tua vita. Impari dalla te stessa del passato, insegni alla te stessa del futuro: le persone normali si smarriscono lì dentro, tu ti ci muovi danzando» (p. 126). Nessun rimpianto per comunità immaginarie estinte né miraggi di un “altrove” in cui collocare il vero significato dell’esistenza: il soggetto narrato costruisce in autonomia il proprio orizzonte di senso in maniera quasi autarchica. Ne consegue tuttavia la dis-appropriazione del soggetto testimone-narratore (e quindi anche del lettore), dalla quale Cognetti – lontano dalle “scritture dell’estremo” – deriva una poetica all’insegna dell’understatement: anziché venire colta con precisione e in profondità, la figura di Sofia rimane sospesa sulla vicenda di chi può testimoniarne l’allontanamento, la distanza o l’assenza, piuttosto che la pienezza di un incontro.

L’intensificazione delle funzioni della voce narrante è uno dei maggiori punti di forza dello stile di Cognetti, e tuttavia alla fine ci chiediamo perché non sia Sofia a scrivere la propria storia, e lasci ogni volta il compito a un personaggio-narratore che, come nel Falsetto di Montale, sembra dire «Ti guardiamo noi, della razza | di chi rimane a terra». Del soggetto resta solo la sua fulgente inesplicabilità, della sua storia la serie di passi di una danza evolutiva: la scrittura che ne rileva le tracce abbraccia il proprio oggetto senza incorporarlo, mantenendone l’estraneità al di qua di ogni autentica empatia. Da un lato essere se stessi e affrontare la realtà per quel che è implica la solitudine e la rinuncia a fissare il proprio posto nel mondo, dall’altro la rappresentazione dell’esperienza come tale non ci lascia che il simulacro screziato di un sé irriducibile.

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