[ Carocci, Roma 2012 ]
Il paradosso di Proteo, come annuncia il sottotitolo, ripercorre la lunga genealogia del mito di Proteo dall’età classica alla contemporaneità. Se un simile sguardo pancronico sembra autorizzare l’idea del perenne riuso tematico dei materiali mitici, va rilevato che il libro, sul piano metodologico, problematizza a fondo la deriva intertestuale: indicando delle cesure storiche e proponendo una teoria interpretativa dell’ibridità, di cui Proteo è emblema. Innanzitutto, il lettore si trova davanti a una forma discorsiva inclusiva ma onesta: rispettosa della storia e dei testi, percorsi e indagati con passione, scrupolo e accanimento.
Anziché assecondare il luccichio un po’ stanco della koiné culturalista, in questo libro ci si misura con le sfide dell’interpretazione: non a caso Szondi (p. 14), Blumemberg (p. 13), Benjamin (p. 52), Debenedetti (p. 260) sembrano prestare sul versante della storia delle forme più strumenti di quanto non accada per i grandi teorici degli archetipi, da Jung a Kerényi. Scuderi privilegia l’indagine delle varianti a detrimento della indiscutibile tenuta delle costanti. La figura di Proteo, divinità marina ctonia e preolimpica, a partire dal «vortice metamorfico» della Telemachia, muta in profondità in epoca medievale per effetto della sovrapposizione patristica con Satana.
Subisce un’altra profonda mutazione nell’epoca rinascimentale che, da Erasmo in poi, ne fa un’icona moderna della «morale della doppia coscienza» e una sorta di machiavellico segretario. Infine, apparentemente esiliato in epoca tecnico-scientifica, industriale e postindustriale, Proteo riaffiora, del tutto risemantizzato, nella sfera romanzesca del proteiforme (in Richardson, Balzac, Stoker, Joyce, Borges). L’acquisizione teorica più feconda ed esportabile di questo libro, insomma, sembra essere l’idea che questa figura minore della mitologia classica sia dotata di eccezionale ricchezza perché si presta ad essere icona e dispositivo di ogni oscillazione semantica: si potrebbe dire, con Matte Blanco (esplicitamente coinvolto, a p. 16 e a p. 281), figura di infinitizzazione e di simmetria.
Trattare Proteo «come un piccolo Dioniso» (p. 16), eroe del metamorfico, permette a Scuderi di rilevarne le tracce ben oltre i confini della tradizione mitologica (Circe, Tiresia) nelle zone di svolta culturale, là dove meno ci si aspetterebbe di incontrarlo. Basti per tutti, nell’ultimo capitolo, lo scenario delle metropoli europee: «Dietro la prostituta si annida il conflitto sociale; dietro la maschera metamorfica della harlot, compare – elementare negazione freudiana – il non meno metamorfico Borghese, predatore e trasformista della modernità industriale» (p. 247).
Il Proteo-Borghese si muta infine nel narratore e veggente di Balzac e di Rimbaud, di Flaubert e di Proust, campione di un nuovo travestimento o metamorfosi divinatoria: la ricerca di un’uscita letteraria da sé (p. 260). Lo stadio ultimo della «frenesia simmetrica» nell’epoca nelle ibridazioni post-human diviene in tal modo non tanto, come ci si aspetterebbe, il Cyborg, quanto Leonard Zelig (p. 276) il cui polimorfismo apparentemente schizoide non è che il codice di sopravvivenza di un conformismo radicale e liquido.
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