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rivista semestrale

anno XXXV - terza serie

numero 88

luglio/dicembre 2023

Pierre Bourdieu, Homo academicus

[trad. it. di A. De Feo, prefazione di M. Giannini, postfazione di L. Wacquant, Dedalo, Bari 2013]

Un «trattato delle passioni accademiche», così Bourdieu, con l’ironia fredda che si impara lentamente ad apprezzare nelle sue pagine, definisce questo importantissimo lavoro uscito nel 1984; un trattato che, attraverso una «prosopografia dei professori universitari», arrivi a tracciare le coordinate del campo accademico, istituendo una rigorosa logica classificatoria che si tiene distinta, già col metterla in chiaro, dalla logica classificatoria vigente all’interno del campo stesso.

L’accademia infatti – e questo è uno dei motivi che rendono più interessante, e difficile, lo studio di Bourdieu – produce per conto suo un complicato sistema cerimoniale di accreditazione simbolica, e un elaborato apparato di valutazione che deve stabilire i confini, e gerarchizzare le zone, dello spazio universitario, lavorando alla sua perpetuazione, e selezionando i soggetti degni di entrare a farne parte.

Con la sottigliezza concettuale e definitoria di un tomista, mai disgiunta – secondo un programma spesso ribadito – da una grande mole di lavoro sul campo (censimenti, interviste, raccolta di dati, tutto strettamente necessario per correggere quella tendenza a credersi incondizionato che minaccia ogni pensiero), il sociologo francese rivolge la sua strumentazione sul campo di cui fa parte, nel tentativo (ripetuto in tutte le sue ricerche, dedicate ogni volta a una zona cruciale dello spazio e dell’immaginario sociale) di «oggettivare l’oggettivazione»: il che in questo caso vuol dire sia valutare criticamente, illuministicamente, i procedimenti di valutazione accademica, sia tener conto del proprio coinvolgimento di ricercatore nel campo studiato.

Nelle splendide Meditazioni pascaliane Bourdieu ha scritto di aver chiesto agli strumenti di conoscenza «più brutalmente oggettivizzanti » di essere anche strumenti di conoscenza di sé, e «prima di tutto come soggetto conoscente ». Una delle poste in gioco più alte è quella, metodologica, di «superare l’alternativa tra visione oggettivista e soggettivista dell’oggettivazione », articolando i tre livelli delle relazioni oggettive tra posizioni, degli habitus degli occupanti, e dei punti di vista su quelle posizioni e relazioni.

Allo scienziato sociale spetta in questa impresa una posizione per definire la quale potrebbe tornare utile addirittura, ironia della sorte, il concetto deleuzoguattariano di sintesi disgiuntiva. Se questo libro, dunque, ridescrive tutte quelle pratiche ordinarie dell’accademia che valgono, per i coinvolti, come «sistemi di difesa» o di anestesia, e perciò non può non indurre alla desolazione, d’altra parte, alzando il velo sull’illusio, sull’investimento epistemico oltre che emotivo che regge il gioco, senza pretendere di distruggerlo, può anche risvegliare al desiderio di conoscenza qualche mente che abbia voglia di sgranchirsi un po’.

Il capitolo sulle condizioni che portarono alla contestazione del maggio ’68, letto da Bourdieu con attitudine radicalmente antiromantica, è da questo rispetto esemplare, oltre ad essere lo sforzo più consistente che si trova in questo libro per pensare l’evento e il cambiamento nel quadro di una teoria dei sistemi sociali per forza di cose tendenzialmente statica.

Secondo Bourdieu il campo universitario nel suo insieme presenta una struttura omologa al campo del potere, attivato com’è dalla polarità tra dominanti e dominati e costruito su una specie di chiasmo per cui, ai due estremi, i soggetti (le facoltà) scientificamente dominanti sono socialmente dominate, e viceversa; e la facoltà di Lettere (a cui lo studio è in gran parte dedicato) è un luogo privilegiato per osservare la lotta tra i due tipi di potere accademico, quello conferito dalla notorietà intellettuale e quello endogeno, derivante dal far parte dei meccanismi di legittimazione e trasmissione dell’accademia. Il noto scontro tra Roland Barthes e Raymond Picard viene così letto, al di là delle posizioni teoriche dei due soggetti, come attrito pratico, dovuto al tentativo di accumulare capitale simbolico, tra due gruppi.

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