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rivista semestrale

anno XXXVI - terza serie

numero 89

gennaio/giugno 2024

Mariano Bàino, In (nessuna) Patagonia

[ Ad est dell’equatore, Napoli 2014 ]

L’ultimo libro di Mariano Bàino si inserisce in maniera atipica nel genere delle narrazioni di viaggio. Attraverso un raffinato intreccio tra stile saggistico-narrativo e frammentarietà diaristica, l’autore racconta un’esperienza in praesentia, la visita alla Patagonia, e contemporaneamente una in absentia, nell’Italia (o «italia», come preferisce chiamarla) dalla quale si è autoesiliato, e che viene delineata in negativo e per contrasto. Due paesi, un solo viaggio, tanti avventurieri: Bàino descrive la Patagonia e la storia della sua esplorazione attraverso le vicende di donne e uomini che, venendo da lontano – perlopiù dall’Europa –, spesso per sfuggire alla povertà, o in cerca di fortuna, hanno contribuito a colonizzare, o, se si vuole, «ad occidentalizzare»», le terre selvagge divise tra l’Argentina e il Cile. L’autore attinge da biografie, taccuini di viaggio e resoconti ufficiali, citando precisamente e documentando con tanto di note a piè di pagina; l’impressione, alla fine, è che il timore di cedere alla «campagna scrittoria», all’«asindeto intellettuale» (p. 50) porti Bàino a far parlare altri, coloro che l’esilio lo hanno vissuto interamente e intensamente, perché ancora sensibili a un ideale di patria. Tale ideale in Italia è sparito, è stato distrutto fino al punto da rendere inutile il concetto stesso di esilio (p. 137). Appare allora necessario cercare un nuovo senso di appartenenza, o anche solo fuggire da «un paese che è vita che vuole se stessa, incurante di se stessa, mai sazia, mai stanca. Mai di se stessa disgustata» (p. 12). Eppure, quanti italiani si incontrano in questa fuga dal Bel Paese! Il contatto con la Patagonia avviene tramite l’opera di esploratori – come Alberto Maria De Agostini, una figura tutta pregna d’entusiasmo conoscitivo – o attraverso il duro lavoro, come quello degli operai italiani nella costruzione delle ferrovie patagoniche (p. 178), arrivando infine a tracce importanti come quella lasciata dal veneto Francesco Pietrobelli, fondatore di un’intera città, Comodoro Rivadavia. Le vite si compenetrano, la storia di un paese si lega inevitabilmente a quella dell’altro, e l’intreccio di volontà e intenti del passato finisce con l’esprimere una distanza, non tanto nel tempo e nello spazio, quanto piuttosto nella stessa capacità d’agire. In un panorama che diventa via via meno estraneo e sempre più comprensibile, la Patagonia si svela come un’impresa insieme umana e naturale, un’esperienza del limite che riavvicina lo straniero a se stesso e alla propria identità; è così che si ricorre spontaneamente agli intellettuali e agli scrittori italiani, che Bàino rievoca spesso. E tuttavia Campana, Caproni, Dante, Zavattini, Pasolini sembrano riferimenti tanto importanti quanto lontani, capaci forse di indicare oltre la «fine di tutto, e di qualsivoglia stupore» (p. 14) una via, che, però, non si ha la forza di percorrere (pp. 200-201). La sola speranza è affidata ai giovani, che potranno forse dare «forma a qualcosa che sarà almeno il non-male» (p. 202), in Italia. Lo stile paratattico sembra mimare i paesaggi della Patagonia, procedendo in modo insieme pacato e fluido, eppure concedendosi spesso il gusto del neologismo e della deriva lessicale, in una ricerca terminologica che allude forse a un tentativo di appropriazione e riappropriazione della realtà per tramite del linguaggio. Bàino deforma la parola, risistema i nomi, affiancando all’esplorazione geografica un’intensa e colta rivisitazione linguistica. Se si eviti, così, la «campagna scrittoria» di cui sopra, è difficile dire. In (nessuna) Patagonia è un testo che sembra proporsi come duplice fuga, dal postmoderno e dall’Italia, attraverso un viaggio al Finis terrae che è al tempo stesso esperienza del limite e impossibilità di staccarsi dal centro. Vi si cerca la possibilità e, soprattutto, il senso di un esilio; sebbene si sappia che in nessuna Patagonia si potrà mai «ridare all’italia l’istituzione dell’esilio» (p. 202), né sfuggire al proprio, pur deluso e forse addirittura tragico, senso di appartenenza.

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