allegoriaonline.it

rivista semestrale

anno XXXV - terza serie

numero 87

gennaio/giugno 2023

Stefania Parigi, Neorealismo. Il nuovo cinema del dopoguerra

[Marsilio, Venezia 2014]

Scriveva Rondolino nel 2003: «la storia del neorealismo è stata più volte raccontata […]. Si è tentato […] di individuarne i confini, di definirne i caratteri salienti, di evidenziarne gli elementi costitutivi, ovvero di tracciarne dei percorsi unitari, delle linee di tendenza omogenee […] che consentissero una definizione generale del movimento. Ammesso, e non concesso, che di movimento si trattasse». Oppure che di fenomeno eterogeneo si parlasse, come già Moneti nel ’99. Quando non addirittura di genere come azzarda Stefania Parigi in Neorealismo, richiamandosi alle tre dimensioni, «semantica», «sintattica» e «pragmatica», con cui Altman individua la rigenerificazione rappresentativa, espressiva, produttiva e comunicativa in effetti non estranea al neorealismo: quel «fantasma» e «gigante» della nostra cinematografia, dalla incerta cronologia triennale (1945-1948), decennale (1940-1952/53) o trifasica (preparatoria, eroica-evolutiva, critica-declinante), per lo più «sfuggente e controverso», se non «trasformista». Il cui coro polifonico di voci è in quei “tanti neorealismi quanti sono i neorealisti” che ne fanno parte e formano, per Parigi, una costellazione di «stelle», «pianeti» e «satelliti». Cineasti che, mutuando Farassino, dirigono «opere neorealiste», come Visconti, Rossellini e De Sica, oppure “film del neorealismo” contaminati dai generi hollywoodiani, come De Santis, Germi e Lattuada, o virati al neorealismo rosa, come Castellani, Comencini, Emmer e Risi.

Ancora, in quanto «spazio» identitario e «della memoria continuamente riattivato», il neorealismo è un “cinema di resistenza”, legato sì alla lotta partigiana italiana, ma soprattutto contrapposto alla «globalizzazione hollywoodiana» e a quel cinema classico che, come teorizza Deleuze negli anni ’80, mette in crisi nel suo statuto di causa-effetto, «azioni-reazioni», «legami sensorio-motori», per un’immagine nuova, in cui prevale l’aspetto otticopercettivo, uno stato di “veggenza” ed “erranza” dei personaggi che – se solo pensiamo al Ricci-Maggiorani di Ladri di biciclette – si muovono e vanno “a zonzo”, senza finalità e senza mutare l’iniziale condizione, ritrovandosi in un finale di paritaria, se non peggiorativa, impotenza e allucinazione. Uno status di «vuoto» e «dispersione», deriva e disorientamento che esplode, come sotto i bombardamenti, in racconti spesso caratterizzati dai «moduli dell’“ellittico” e dell”inorganizzato”».

Come l’ellisse che spezza la narrazione di Paisà, precipitando lo spettatore in una vertigine di eventi fulminei, inattesi e senza spiegazioni. O come lo schema di “attese” e «pause» che in Ladri e Umberto D. non ricerca l’evento esplosivo, ma si fa motore, grazie a Zavattini, di una «abilità diabolica» in cui tutto sembra casuale nella «progressione narrativa» spesso ricca di elementi insignificanti. Quella che Bazin, come Zavattini, non vuole mai ideologicamente predeterminata, oggetto di tesi, antitesi e sintesi, ma effetto della descrizione e del «realismo ontologico» che è sempre «estetico», figlio di un «atto artistico» e una «scelta» d’autore che differenzia il neorealismo dal naturalismo e dal verismo letterario da cui pure tutto partì.

Un “fiume carsico”, lo definì Farassino nell’89, «un personaggio tellurico che si porta dietro […] i detriti del passato e i sogni del futuro»: è questo per Parigi il neorealismo. Del quale, nella prima parte, ripercorre la genesi del neologismo, interdisciplinarmente abusato e risemantizzato da intellettuali mai sorretti però dai diretti interessati, per i quali l’«etichetta» è ristretta, per poi approdare, nella terza-ultima, al dibattito critico-teorico svoltosi dagli anni ’50 ad oggi, individuando recenti eredità in manifestazioni neoneorealiste nazionali e internazionali. Mentre è nella seconda parte, catalogo di temi, figure e iconografie (infanzia, treni, biciclette, reduci, banditi, rovine, macerie, lavoro, dialetti, attori non professionisti, riprese en plein air), che si finisce dentro a un «atlante», per intraprendere quel viaggio-studio, mai concluso, alle origini del cinema moderno.

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