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rivista semestrale

anno XXXVI - terza serie

numero 89

gennaio/giugno 2024

Paul Griffiths, La musica del Novecento

[trad. it. di F. De Colle e M. Morini, Einaudi, Torino 2014]

La musica del Novecento di Paul Griffiths, uscita nell’ottobre del 2014 per Einaudi, si colloca in una prospettiva di continuità. Mentre nella Breve storia della musica occidentale l’autore opera una catalogazione storica dei fatti musicali secondo categorie di tempo intrise di percezione filosofica e dal respiro epocale, nel nuovo testo sembrano essere le forze centrifughe ad avere il sopravvento. Ampliando retrospettivamente le indagini avviate in Modern Music and After (Oxford, 20103), Griffiths si assume il compito, invero ingrato, di delineare le tracce della musica colta occidentale di più di un secolo, dal Debussy di Estampes (1903) alla recente composizione di Francesca Verunelli, Unfolding (2012). Un arco immenso della cultura moderna, dalle avanguardie e ricerche del primo Novecento agli ultimissimi esiti sperimentali, viene affrontato con rara competenza e sensibilità. La difficoltà del lavoro ricostruttivo è segnalata da un’assenza di periodizzazione, essendo tutto il materiale suddiviso in due sole parti, 1900-1950 e 1950 fino ai giorni nostri. Un forte spartiacque è costituito dall’avvento della musica elettronica e dai corsi di Darmstadt, ma – in realtà – sembra agire per via sotterranea ancora la scansione della Breve storia, in cui il periodo 1908-1975 era segnalato come «Tempo aggrovigliato» e il successivo, dal 1975 in avanti, come «Tempo perduto». Nella Musica del Novecento questa doppia articolazione finisce per restringersi, secondo Griffiths, in un’unica grande epoca che potrebbe intitolarsi «l’età del labirinto». Il groviglio di strade e di generi, già polimorfo e instabile durante il periodo tra le due guerre mondiali, non fa che aprirsi a una molteplicità inafferrabile e caotica, a un pulviscolo di correnti, scuole, indirizzi, tendenze, gruppi, dai confini sempre più incerti e dalle poetiche sin troppo evanescenti. La grande bolla del modernismo, in relazione al quale si era sviluppata – pro o contro – gran parte della ricerca novecentesca, lascia ormai il posto alla dispersione molecolare, a galassie residuali di un’esplosione di forme e strutture. La composizione contemporanea è costretta a valicare le aporie del silenzio di Cage, le sperimentazioni microtonali, il minimalismo (più o meno mistico), il rapporto acustico e fonologico con la parola, l’indagine sui materiali sonori. Ne deriva un silenzioso smarrimento, una contraddizione in termini fra l’arte dei suoni e l’incapacità di comunicazione, il raggiungimento di una gigantesca afasia priva di riscatto. Griffiths si impegna in un serrato corpo a corpo con tutta la produzione musicale, cercando di intravedere uno spiraglio di senso, una tecnica di esecuzione che sia in grado di portare avanti spazi originali, ristrutturazioni delle forme quali tracce ultime di un estremo testamento umano. Neppure il canone delle cento composizioni (cui l’autore dedica la seconda parte del libro) sembra, tuttavia, poter stabilire punti di riferimento. La sensazione è piuttosto quella di un caleidoscopio impazzito, orientato sul vuoto siderale di costellazioni labirintiche, sfuggenti a ogni possibilità di classificazione. Serialismo e serialismo integrale non costituiscono più, e pour cause, la via maestra del “progresso” in musica, né esiste una critica di fiancheggiamento. Le categorie estetico-storiografiche tendono a mescolarsi («il modernismo è sopravvissuto, ma è diventato anch’esso postmoderno»), e l’ultima composizione in grado di coagulare il senso di un’epoca rimane, secondo Griffiths, Sinfonia di Berio (1968-69). Dopo, non rimane che una babele linguistica che stenta a trovare i collanti interni e investe tutte le proprie energie nell’implosione di sé, nella suprema saturazione di ogni codice nell’indistinto sonoro. A un passo dal silenzio.

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