allegoriaonline.it

rivista semestrale

anno XXXVI - terza serie

numero 89

gennaio/giugno 2024

Paul Thomas Anderson, Il filo nascosto

[ USA, 2017 ]

Per Paul Thomas Anderson, uno dei pochi autori del nostro tempo, l’Arte non può fare a meno della Vita. Allegoria e racconto di un amore, Phantom Thread rinnova la storia del rapporto tra l’artista e la musa aggirando gli stereotipi dell’amour fou e affidando a una figura femminile di grande originalità la messa in atto di una concezione romantica e insieme radicalmente onesta dell’amore: l’amore come bisogno intuito, come patto stretto tra due individui che capiscono di essere fatti l’uno per l’altra. Lo stilista Reynolds Woodcock (Daniel Day-Lewis) è l’individuo contro il mondo, l’artista nonostante la vita: lo scapolo impenitente e il creatore che crede di non aver bisogno degli altri. Alma, cameriera in un ristorante e poi collaboratrice e moglie di Reynolds (Vicky Krieps, straordinaria), è la musa-artista che è tale nel mondo e attraverso la vita: straniera e socialmente inferiore, è altra e aperta all’alterità. Non meno testarda e geniale dell’artista e più ferma di lui nella propria volontà di azione, la musa-artista è però disposta a trovare compromessi vitali. La parola che pronuncia più spesso è un «sì» sorridente, che non è il «sì» del dominato, ma l’assenso attivo e paritario di colei che riconosce ciò che le corrisponde intimamente e non esita a perseguirlo.

La prima sequenza in cui incontriamo Reynolds è una scena di meticolosa rasatura e vestizione, rituale di controllo in un’esistenza fatta di spazi e tempi regolati in modo da annichilire la possibilità stessa dell’imprevisto e della variazione, nel tentativo di dominare completamente la vita, annullando perfino il rumore degli altri. All’estremo opposto, la prima cosa che accade ad Alma è di inciampare: la sua goffaggine è quella di chi non ha paura di incespicare nelle cose, cioè di riconoscere l’esistenza di ostacoli materiali all’agire guidato dalla volontà. Consapevole della sua imperfezione, Alma capisce con altrettanta chiarezza ciò che la rende perfetta, cioè l’arte che scopre insieme a Reynolds, la complicità creativa e amorosa che stabilisce con lui. La musa smaschera fin dal primo incontro la presunta forza dell’artista e rifiuta di farsi migliorare da lui; ma non è una dark lady – non c’è traccia della misoginia di Hitchcock, pur citatissimo dal punto di vista visivo – né tanto meno una martire alla Lars Von Trier: sapiente e coraggiosa, Alma è colei che somministra il veleno a piccole dosi, in forma di cibo e di conoscenza, per liberare Reynolds dalla sua alienazione e insieme per realizzare se stessa con lui. La musa-artista capisce come nessun altro il talento dello stilista, condivide la sua devozione per l’arte, non teme la fatica e la ricerca della perfezione, ma diversamente da lui conosce e accetta il bisogno vitale di nutrirsi di qualcosa che non siamo noi, di qualcosa che è al di fuori dei confini del nostro corpo e del nostro controllo. Per affermare se stessa e questa verità, Alma deve violare una serie di convenzioni, che riguardano prima la sfera economico-sociale e poi l’ambito privato: durante la festa di Barbara Rose, è lei a ricordare a Reynolds che il denaro non può comprare la sua arte; nel corso della visita della principessa belga, è lei a dimostrare che, se la nobildonna può commissionare un abito da sposa, il rango non le dà titoli per meritare l’arte e l’amore di Reynolds; infine, è la cena a sorpresa che organizza per lui che infrange gli schemi del bisogno regolato: Reynolds rifiuta con rabbia il cibo che Alma gli offre autonomamente, un rifiuto cui lei risponde avvelenandolo, perché la debolezza è la condizione della sua apertura.

L’omaggio a Ophüls, evidente in molte inquadrature e nella forma del racconto, fiabesco e interamente condotto dal punto di vista di Alma (che descrive la propria vita con Reynolds al dottore che è venuto a visitarlo), fa risaltare, per contrasto, il finale, che impedisce di leggere la vicenda come una mistificazione: le parole in cui Alma immagina la vita futura sono rivolte a Reynolds, che è uscito dall’ossessione solipsistica, usa il plurale e riconosce i propri bisogni vitali: «Ma adesso siamo qui e io comincio ad avere fame».

 

 

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