[a cura e con un saggio introduttivo di Andreina Lavagetto, cronologia a cura di Massimiliano De Villa, Mondadori, Milano 2008]
Nelle pagine iniziali delle Storie di Rabbi Nachman (1906), l’opera con cui Martin Buber avviò il pubblico tedesco alla conoscenza del patrimonio religioso delle comunità ebraico-orientali, l’autore offre una definizione del chassidismo divenuta poi celebre: «il chassidismo è kabbala divenuta ethos». Con questa sentenza Buber intendeva sottolineare il valore pragmatico di esperienza concreta e collettiva che la mistica chassidica (nata nelle regioni dell’Ucraina occidentale a metà Settecento in seguito all’insegnamento di Israel ben Elieser, detto il «Baalschem ») poteva ancora offrire all’ebreo moderno e assimilato, al rappresentante di quel «tempo ebraico-occidentale» – per usare una famosa espressione di Kafka – che non conosce le tradizioni dei padri ed è immemore di una secolare esperienza comunitaria.
Dopo aver trascorso l’infanzia e la prima adolescenza in Galizia, nella casa del nonno, uno studioso di Midrasch che, come ricorderà il nipote, «non si dava pensiero dell’ebraismo, aveva l’ebraismo in sé», Buber si trasferisce a Vienna, dove a contatto con un mondo «senza presenza del divino», si allontana dalle sue radici ebraiche. È il sionismo, a cui Buber aderisce ventenne nel 1898, che restaura il legame con l’ebraismo perduto: Buber si volge ora allo studio delle tradizioni ebraiche, e in particolare di quelle ebraico-orientali, nella consapevolezza che il lavoro culturale, prima ancora di quello politico, sia indispensabile a porre un argine ai mali dell’assimilazione.
Su questa strada egli incontra, appunto, il chassidismo, un patrimonio spirituale trasmesso in un’immensa congerie di testi, tramandati in yiddish e in ebraico, composti a partire dal 1780 da autori rimasti perlopiù anonimi, in cui sono presenti aforismi e parabole, aneddoti e fiabe allegoriche, racconti agiografici ed exempla dalla vita degli zaddikim, i maestri delle comunità chassidiche. Buber non si riappropria di questi testi con l’asettica scientificità del filologo ma, memore della lezione nietzschiana, li ripropone animato da impulso creativo e consapevole di portare in sé «il sangue e lo spirito» di coloro che hanno creato quel patrimonio leggendario.
Ora Mondadori offre in un magnifico Meridiano i principali testi chassidici di Buber: oltre alle citate Storie del Rabbi Nachman, anche La leggenda del Baalschem (1908) in una nuova traduzione di Andreina Lavagetto, I racconti dei Chassidim (1949), già noti al pubblico italiano nelle edizioni Longanesi e Garzanti, e i testi memorialistico-saggistici La mia via al chassidismo (1917) ed Esposizione del chassidismo (1963) con cui Buber difende il proprio metodo dinanzi alle accuse di Gershom Scholem che lo rimproverava di aver mantenuto un eccessivo riserbo riguardo le fonti utilizzate e di aver enfatizzato il corpus narrativo e leggendario chassidico a scapito di quello teorico.
Tutti i testi sono preceduti da prefazioni, in cui la curatrice illustra con esemplare chiarezza i problemi critici e filologici dei testi ed espone lo sfondo dottrinario della mistica chassidica; il volume, peraltro introdotto da un ampio saggio che inquadra l’interesse buberiano per il chassidismo in più ampio contesto culturale di rinnovamento dell’ebraismo, è inoltre corredato di una dettagliata cronologia, di un glossario e di una tavola genealogica degli zaddiqim.
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