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rivista semestrale

anno XXXV - terza serie

numero 87

gennaio/giugno 2023

Eugenio De Signoribus, Poesie (1976-2007)

[Garzanti, Milano 2008]

La poesia di Eugenio De Signoribus, come dimostrano le cinque raccolte sin qui pubblicate (Case perdute, 1989; Altre educazioni, 1991; Istmi e chiuse, 1996; Principio del giorno, 2000; Ronda dei conversi, 2005), si caratterizza per un’estrema coesione e una compattezza ottenute attraverso una riflessione che in questi trent’anni si è concentrata su pochi ma essenziali elementi. Secondo un’efficace definizione di Agamben, De Signoribus è «il più grande poeta civile della sua generazione ». Un’affermazione, questa, che non si fa fatica a sottoscrivere se si tengono presenti i tre pilastri su cui poggia l’intera produzione ora riproposta da Garzanti. In primo luogo, a livello tematico-contenutistico, quella di De Signoribus è una poesia che si pone come atto di resistenza in difesa di un soggetto e di una comunità, sempre più annientati dall’opulenza offerta/imposta dalla società contemporanea.

Per questo motivo al falso benessere del capitalismo vengono opposti una «severa povertà» (sono parole di Enrico Testa), scene di vita quotidiana, concrete esperienze del vivere che permettano di restituire al lettore un essenziale e insostituibile «abecedario dell’esistenza». Non c’è tuttavia la ricerca del sublime nel quotidiano, secondo una ormai inattuabile lezione pascoliano-crepuscolare. Semmai la «casa» (metafora ricorrente sin dalla prima raccolta) diventa luogo della socialità, dell’incontro con l’altro, dell’ultima possibilità di creare una comunità, capace a sua volta di contrastare l’inasprimento del mondo esterno: «questa casa… ricordate bene / è lontana dal centro, in un giardino / al di qua dell’astuzia dei mercanti / brulicanti come mosche intorno / a magri animali appesi vivi» ((discorso del padre), p. 55).

E man mano che si procede nella lettura delle cinque raccolte, così come la casa diventa sempre meno metaforica e sempre più concreta (legata ad esempio al tema dell’immigrazione), allo stesso modo gli oppressori assumono forme meno sfumate: «duci», «uno stato-mercato di piattole e di pulci», «i crociati, i macchinosi sbandieratori / acciaiosi», «moneta verità rivelata», «civile fortezza occidentale, «odierno imperio». Ma l’urgenza maggiore di De Signoribus, ed è il secondo punto della sua riflessione poetica, è quella di difendersi da un progressivo e sempre più minaccioso imbarbarimento sociale, che colpisce innanzitutto il linguaggio, elemento indispensabile, come è ovvio, alla creazione della comunità e della casa di cui si è appena detto: «ma chi li guarda i trascurati quando è diverso / il peso dei vivi e dei morti? Quando la lingua s’infalsa / fino a truccare pubblicamente i tabulati?… / Nell’odierno imperio è stabilito che alla violazione / di un corpo di serie A subito si risponda con una vendetta / moltiplicata… » (p. 491).

E tuttavia, lo notava già Zublena, poiché «ogni ora da vivere è buona per parlare», e dunque di un codice c’è bisogno, De Signoribus procede, contro i «linguaggi ambigui», ad attuare una vera e propria risemantizzazione, attraverso neologismi («appenanati», «snatura» ecc.), accostamenti arditi di sostantivi e aggettivi («puntuti sguardi», «luminìo campale», ecc.), verbi derivati da sostantivi («s’acciurma», «scasermando», ecc.). Solo così le parole, ricollocate e rinnovate, recuperano un loro rapporto di frizione, di attrito, e allo stesso tempo di aderenza con il mondo che intendono descrivere e costruire.

E proprio questo, che poi è il terzo e ultimo punto, è il ruolo del poeta: uno «scriba» che domina un codice ad altri precluso, e che, «goffo di rimorso, privo di certezza, / […] / solo annodando ragioni non stracciate» (p. 361), tenta di portare avanti una civiltà al declino. La lunga battaglia conosce senz’altro sconfitte: «[…] una vita ho passato / a nominare libri, a dire… Tutto è stato / disatteso, i semi buoni dispersi». Ma tutto ciò non impedisce, alla fine del percorso, nei versi scritti tra il 2005 e il 2007 e, sotto il titolo di Soste ai margini, accodati alle cinque raccolte, di confermare il proprio compito di resistenza e di opposizione: «pietà se non sono un attore / della certezza…, perdona / se mi fermo o divergo, / se m’innervo in difesa…» (p. 610).

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