allegoriaonline.it

rivista semestrale

anno XXXVI - terza serie

numero 89

gennaio/giugno 2024

Sufjan Stevens, The Age of Adz

[Asthmatick Kitty Records, WY USA, 2010]

Abbandonato il progetto epico di comporre un album su ciascuno dei cinquanta stati degli US, Sufjan Stevens, il songwriter che ha trasformato il folk americano, pubblica alla fine del 2010 The Age of Adz, opera che segna un cambio di rotta radicale. La postura narrativa alla base di Illinoise o del precedente Greetings from Michigan, così come il lavoro sugli arrangiamenti di dimensioni orchestrali, capaci di trasformare il più classico pezzo folk in una suite satura di fiati e cori, lasciano spazio a un’impostazione nuova: scompaiono le storie, i personaggi e le memorie civiche collettive; i suoni acustici si zittiscono quasi del tutto, soppiantati da un tessuto sonoro elettronico e sintetico; la voce, in passato usata in maniera cristallina, si sottopone alle distorsioni deliberate dell’Auto-Tune.

Già nel precedente All Delighted People si erano visti i segni del cambiamento: pochi brani acustici spogli, incorniciati da un esperimento di progressive rock (Djhoraiah) e dalle due versioni di un lungo pezzo di respiro oratoriale (All Delighted People) che, pur citando un vecchio classico come The Sound of Silence, sembra in realtà una risposta all’apocalittica A Day in the Life dei Beatles. Adz, parola che campeggia nel titolo dell’ultimo lavoro di Stevens, significa ‘ascia’ ma suona, alla pronuncia, come odds, che vale sia come ‘probabilità’ sia come ‘contrasto’, e per di più corrisponde al plurale sostantivato dell’aggettivo odd, ‘strano, eccentrico’. Di quale epoca si parla nel disco? Di quali conflitti? E di quali stranezze? The Age of Adz è anzitutto un album che parla di scissioni.

Gli undici pezzi che lo compongono delineano i tratti di un universo apocalittico – evocato con potenza nella canzone che dà il titolo al disco – nel quale si muove una voce umana, intrisa di una soggettività inquieta e ferita. Le sonorità elettroniche, a tratti stridenti, a tratti ironiche, contrastano con la dizione puramente confessional: è questo che pone l’album, apparentemente così eccessivo, sgraziato e ostico, in un equilibrio raro e toccante tra l’aspirazione massimalista – parlare della nostra epoca – e il viaggio nelle profondità della psiche – parlare del sé più intimo. Quella di Stevens si rivela una mossa rischiosa, minacciata dalla solitudine di un io narcisista che elegge se stesso a filtro del mondo. Eppure, niente è più esemplare per descrivere il carattere monadico delle nostre esistenze e il difficile rapporto con le strutture spersonalizzanti della vita associata.

In questa chiave si possono leggere i continui riferimenti all’isolamento («To think that I would die this time / Isolated in the room where the bed rises»), all’impossibilità di comunicare («Words are futile devices»), all’esasperazione narcisistica («I wouldn’t feel so / Consumed by selfish thoughts»). Nell’impasto elettronico riemergono tracce di melodie, fiati, archi e cori che contrappuntano la solitudine di un io alla ricerca di un equilibrio tra la necessità di distinzione e il bisogno di rientrare in un flusso di relazioni umane non più asfissiante. La scissione tra la vocazione elettronica, oltranzista e straniante, e la nostalgia di un senso comune che affonda tanto nel folk quanto nel pop, emana dalla scissione, così fondante nella nostra forma di vita, tra l’aspirazione a un’esistenza straordinaria e il conforto di sentirsi ordinari.

«Photographic ordinary people are everywhere » canta in falsetto Stevens: le «extraordinary histories» stanno accanto alle «ordinary histories », quasi le une si rovesciassero nelle altre. Così, nei venticinque minuti del pezzo finale, Impossible soul, vera e propria enciclopedia degli stili pop e rock, a un dialogo allegorico con una voce femminile seguono un monologo deformato, un energico intermezzo corale, un epilogo affidato alla sola chitarra e alla voce, che sussurra il fallimento di ogni tentativo di risanare le scissioni. L’album finisce così come era iniziato con la sospesa Futile devices: due minuti di puro understatement compositivo da cui osservare attoniti il caos irrisolto alle proprie spalle – «we did such a mess together» è l’ultimo verso.

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