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rivista semestrale

anno XXXV - terza serie

numero 87

gennaio/giugno 2023

Glenn Adamson, Jane Pavitt (a cura di), Postmodernism. Style and Subversion, 1970-1990

[ Victoria & Albert Museum, Londra 24 settembre 2011-15 gennaio 2012; catalogo a cura di G. Adamson e J. Pavitt, V&A, London 2011 ]

Divisa in tre sezioni, fondamentalmente cronologiche, dedicate all’architettura (gli anni ’70), al design (gli anni ’80) e alle icone pop (gli anni ’90), la mostra disegna la parabola del postmodernismo, che, nato sulle ceneri delle utopie moderniste come esperienza antagonista, si sarebbe infine congiunto con la cultura di massa e i suoi processi di omologazione, fino a imporci la domanda, con Jameson, sul perché il fine politico dell’arte si sia perduto.

Impostazione elitista, quindi, quella della mostra, che celebra, romanticamente, la sovversione rispetto allo stile, ma col merito di esplorare le pratiche (il postmodernismo) anziché le loro condizioni di esistenza (il postmoderno).

Due “morti” aprono la mostra: la Morte del Monumentino da casa di Alessandro Mendini (1974) e la demolizione del Pruitt-Igoe housing project a Saint- Louis (1972), che segna – a giudizio di Charles Jencks – la fine dell’architettura moderna.

Se il modernismo era morto, perché non goderne i resti? Il passaggio dall’oggetto al relitto e dal fatto alla memoria caratterizza tutta la prima fase, in cui il postmodernismo non riesce a liberarsi del modernismo, esaltandosi soprattutto nella sua epigonalità, nel riuso delle rovine e nella mortificazione della memoria, come nell’autocannibalismo messo in atto da Tadanori Yokoo.

Di fronte alle promesse di felicità del modernismo, con le sue architetture funzionali e le sue automobili a misura d’uomo, all’arte postmoderna toccava recuperare l’antitesi, rivolgendosi da un lato al classicismo e dall’altro alla cultura popolare, riproposti in simbiosi anziché in alternativa. Ciò che col modernismo era perduto – la natura – tornava alla ribalta, come nei collage di Nils-Ole Lund, dove gli edifici-simbolo del modernismo appaiono divorati da una natura che ne reclama gli spazi.

Dopo l’architettura, il design, con i gruppi Studio Alchymia e Memphis e le riviste «Casabella» e «Domus ». Le sedie di Pesce, Love e Landes mirano non solo al riuso di materiali poveri, al bricolage e alla rovina, ma soprattutto al senso di discomfort, precarietà e disagio che gli oggetti suggeriscono. L’uomo non domina più il mondo, ma deve costantemente sfidarlo per trovare la propria posizione. Allo stesso tempo la sovversione si trasformava in moda, provocando quel processo di iconizzazione di oggetti e persone che fa perdere il senso a favore del simbolo, fino alla distruzione dell’identità e della soggettività: in Blade Runner la replicante Zhora, inseguita dal bounty hunter Deckard, sbatte contro lastre e lastre di vetro fino a venirne uccisa, ormai uguale ai manichini che la circondano.

L’esplorazione delle zone di confine (tra realtà e replica, passato e presente, oggetto di consumo e oggetto d’arte, design industriale e giocattolo, maschile e femminile) diventa centrale in un’esperienza fatta, dice Kate Linker, di «luccicanti apparenze sintetiche che ostentano le loro origini artificiali». Di qui lo stupendo catalogo dei nuovi protagonisti della scena culturale dagli anni ’80, tutti a loro modo mutanti, all’insegna del pastiche, della decostruzione e del riassemblaggio: «dancers and choreographers, art directors, performance artists, drag queens, pop stars, partygoers, poseurs and nightclubbers».

Campeggiano Boy George, Laurie Anderson e Grace Jones. Ridotti a oggetti di prestigio, gli artisti s’identificano con la loro stessa produzione, come denuncia il simbolo del dollaro su fondo fucsia in una tela di Andy Warhol (1981).

Al centro due classicissimi busti, di Giulio Paolini (L’altra figura, 1984), identici, uno di fronte all’altro, che guardano a terra i frammenti di un terzo: malinconia verso il perduto, ma anche consapevolezza che la copia e l’appropriazione offrono nuove possibilità. Una riflessione sulla tradizione, infine: esistiamo solo in ciò che abbiamo subito o anche in ciò che sappiamo costruire, come suggeriva Jencks col suo culto dell’«ad-hoc-ismo», improvvisazione, reazione alla situazione e ricerca degli obiettivi?

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