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rivista semestrale

anno XXXV - terza serie

numero 87

gennaio/giugno 2023

Maurizio Ferraris, Manifesto del nuovo realismo

[Laterza, Roma-Bari 2012]

Maurizio Ferraris è il filosofo italiano più impegnato nella liquidazione del postmoderno. L’accusa più grave che gli muove è di irresponsabilità: la filosofia postmoderna, che ha le sue radici non solo in Heidegger e Nietzsche, ma nel primato che Kant attribuirebbe al mondo interno sul mondo esterno, rinuncia al dialogo con la doxa, cancella la realtà, diviene una caricatura di se stessa. La decostruzione, l’ironia, il parassitismo condannano il pensiero a smarrire la capacità emancipativa cui pure aspirerebbe: così, se da un lato il postmoderno continua la modernità, dall’altro è la bancarotta dell’illuminismo. La teoria postmoderna non è tuttavia entrata in crisi perché la storia l’abbia smentita, ma perché ha trovato una piena realizzazione nel populismo di massa e nei media: è per effetto di questi, e non per il trionfo dei nuovi filosofi, che abbiamo rischiato di vedere il mondo ridotto a favola, la verità sparire, il discorso occupare tutto lo spazio del vivibile.

A questa deriva, Ferraris oppone un realismo fondato sulla nozione di resistenza: reale è ciò che non è emendabile ed entra in un rapporto problematico con i nostri schemi concettuali; ma reale è anche ciò che va rispettato nella sua alterità, anzi, ciò senza cui l’etica non sarebbe pensabile, poiché non avrebbe un campo in cui esercitarsi. Perciò, Ferraris smonta le tre fallacie che hanno condizionato il postmoderno: quella dell’essere-sapere, quella dell’accertare-accettare, quella del sapere-potere. La filosofia acquista così un suo spazio proprio, che non è né arroganza ultimativa, né sudditanza davanti alle scienze o screditamento dell’esperienza, e rivendica ancora una volta una volontà illuministica di liberazione.

Anche chi condivida l’esigenza di uscire dalle secche degli scorsi decenni, creda nella riabilitazione non ingenua dei concetti di realtà e verità e veda nello stile aperto e democratico di Ferraris un segno di salute del pensiero, resta un po’ insoddisfatto. Il Manifesto del nuovo realismo prende alla lettera le figure della theory postmoderna e le trascina di fronte al tribunale del buon senso: è l’atto più irriverente e allegramente antiaccademico che si possa compiere; e però anche una semplificazione in cui Kant e soprattutto Nietzsche e Heidegger rischiano di far la figura dei visionari, cui solo professori claustrofili e stralunati hanno potuto dare tanto credito. Ferraris è così affezionato alla realtà, da disconoscere il contenuto di verità di Zarathustra o Essere e tempo – libri che, comunque, parlano di noi. Che non esistano fatti, ma solo interpretazioni non è solo uno slogan calamitoso o un’istigazione a delinquere, ma una chiave buona come poche per aprire il presente. Eppure, con la filosofia postmoderna, e a dispetto dell’estraneità per i maestri di quella, Ferraris ha contratto debiti decisivi: incluso nel Pensiero debole, prossimo all’ermeneutica, vicino a Derrida, egli oscilla tra l’apostasia e la necessità di correggere il passato. Così, l’ontologia sociale di Documentalità (Laterza 2009), secondo cui «nulla di sociale esiste fuori del testo», è l’urbanizzazione del principio derrideano per cui «nulla esiste fuori del testo»: anche se, mentre rende il pensiero accettabile e sensato, gli toglie, con il furore, l’eroismo. È proprio vero, come titola il penultimo libro di Ferraris, che occorre Ricostruire la decostruzione: anche per questo, tra le pagine più belle del Manifesto c’è l’indagine finale che riscopre una tensione illuministica nelle fasi ultime di Lyotard, Derrida e Foucault, restituendoci un’immagine del postmoderno più plastica e ombreggiata. Certo, il primo compito della filosofia può essere impugnare il rasoio di Ockham e seguire Wittgenstein per spazzare via i falsi problemi. Ma poi? Sta in questo il pericolo corso da Ferraris: e se il suo realismo fosse anche la punizione che la filosofia si infligge per aver osato troppo, confinandosi nei terreni disagevoli e sicuri, assolati e piatti, della prosa del mondo? se il matrimonio con la doxa fosse proprio come si deve, ma senza le gioie e i tormenti dell’amore?

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