[ Carocci, Roma 2013 ]
Gli stereotipi pietistici e confusamente allarmanti che ancora strutturano molti discorsi sulla migrazione hanno cominciato a sedimentarsi nel discorso pubblico italiano all’incirca alla fine degli anni Ottanta per una serie di ragioni storiche e culturali, tra cui l’aumento dei flussi e le modificazioni radicali del contesto politico e dei media. Proprio mentre il fenomeno acquisiva complessità e spessore, il modo di parlarne si è assestato sulla semplificazione di formule ed etichettature che hanno iniziato subito a funzionare, soprattutto in televisione.
Come spesso accade, il tentativo di reagire alla standardizzazione è passato anche attraverso la scrittura. Lo studio di Chiara Mengozzi offre uno sguardo lucido sulla produzione testuale che ne è derivata e si interroga, altrettanto lucidamente, sulla possibilità e l’efficacia di contro-narrazioni che provano a combattere l’effetto-media. Narrazioni contese, di conseguenza, non è una semplice rassegna di testi che appartengono a uno stesso campo, ma piuttosto un’analisi dei criteri che permettono al campo di esistere e, in modo solo apparentemente paradossale, determinare il proprio oggetto costitutivo. Non si tratta né di uniformità di contenuti né di parentele stilistiche o di appartenenza a uno stesso genere – avverte l’autrice fin dall’introduzione – ma di un’ingiunzione sottesa alle modalità del racconto: i migranti che scrivono in italiano, anche se non aderiscono al genere autobiografico in senso stretto, assumono sistematicamente il modello confessionale, sono sollecitati a riferire le loro esperienze per acquisire un’identità riconoscibile e spinti a raccontare se stessi in quanto marginali. La loro voce narrativa guadagna perciò una specificità che dipende dall’essere costretti all’autorappresentazione e alla testimonianza, ma proprio per questo finisce per riproporre di continuo gli stessi schemi. Mano a mano che questi si ripetono, perdono forza agente e acquistano riconoscibilità e quote di mercato, divenendo familiari ai lettori in cerca di rassicurazioni e conferme.
La postura a cui questo particolare tipo di autore è quasi obbligato, quindi, riflette pesanti esigenze esterne: editoriali, sociali, critiche. Ed è proprio una grande narrazione critica ciò che pare unificare i fenomeni letterari raccolti in questa «sorta di macro-categoria testuale conosciuta con il nome ormai ampiamente criticato di “letteratura italiana della migrazione”» (p. 7). Lo studio di Chiara Mengozzi disarticola e smaschera il sistema di produzione e ricezione di questi testi, mostrando riuscite e fallimenti del meccanismo di selezione e dei modi di ordinamento discorsivo. Ottiene, così, un duplice risultato: da una parte fa ordine tra i documenti e propone un percorso antologico ragionato, dall’altra costruisce un ritratto della cultura d’arrivo, ottenuto attraverso l’analisi delle forme in cui è disposta ad accettare e promuovere la rappresentazione delle culture di partenza.
Ma il lavoro non sarebbe completo se non indicasse, in un’area di intersezione tra ingiunzione e risposta, il luogo di una resistenza in atto. Tra i vari modi con cui opporsi al rischio di normalizzazioni tanto più opprimenti quanto più sottili e adatte a soddisfare il bisogno di sentirsi virtuosi della società di accoglienza, il più efficace viene rintracciato, per queste narrazioni, «nel momento in cui alcune di esse, in maniera sintomatica o consapevole, mettono in scena, e quindi parodiano, le norme entro cui la narrazione di sé può avere luogo» (p. 9).
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