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rivista semestrale

anno XXXV - terza serie

numero 88

luglio/dicembre 2023

Francesca Dosi, Trajectoires balzaciennes dans le cinéma de Jacques Rivette

[ LettMotif, La Madeleine 2013 ]

In Balzac cinéaste (1990) Anne Marie Baron cercava di mettere in evidenza la componente icastica della Comédie humaine, insistendo, da un lato, su qualsiasi sua caratteristica formale suscettibile di cogliere – anche solo per metonimia – una realtà tanto eterogenea quanto fluttuante, dall’altro, sul rapporto inversamente proporzionale che si instaura, nel maggior numero delle opere che ne fanno parte, fra l’angolo di campo descritto e l’intervallo che lo separa dal punto di vista dell’istanza enunciatrice, spesso assimilabile ad una sorta di “voce off”, evocativa, ma avvertita dal lettore come eterea, se non addirittura “disincarnata”. L’attenzione rivolta in questo libro alle variazioni del punto di vista, all’impiego del montaggio discorsivo quale principio di organizzazione del dettato, così come alla “tecnica dello scorcio” – particolarmente adatta a combinare serie di sequenze distinte, non di rado simultanee –, era funzionale sia ad uno studio diacronico delle strategie compositive adottate da Balzac nelle sue prose di più ampio respiro, sia ad un’analisi dettagliata dei dispositivi adoperati dall’autore, nel tentativo di fornire una rappresentazione caleidoscopica del mondo, analoga a quella a cui la fotografia ed il cinema ci avrebbero abituati, a cavallo fra Otto e Novecento.

Senza passare in rassegna tutti i testi dove Balzac si diverte a giocare con una percezione dell’universo circostante che a posteriori sarebbe stata definita “filmica”, Anne Marie Baron si concentrava su un corpus ristretto di esempi emblematici. Non stupisce che alcuni di essi siano stati ripresi in seguito, in interventi tesi ad argomentare come mai la produzione balzachiana abbia costituito da sempre una fonte d’ispirazione privilegiata per registi e sceneggiatori desiderosi di portare sullo schermo trame che, enigmaticamente, paiono concepite nell’ottica di prefigurare – in qualche modo favorire – ogni eventuale attraversamento di codice. Infatti, se l’approccio critico-genetico era bastato a chiarire la quasi totalità delle scelte di natura estetica, quello intertestuale – talora “transmediale” – si è gradualmente rivelato il solo capace di rendere conto del carattere storicamente determinato di una letteratura la cui complessità risiede, oltre che nell’indagine di tipo sociologico dalla quale prende le mosse, anche negli svariati impulsi che, allusivamente o meno a seconda dei casi, sembrano esserne all’origine e determinarne gli orientamenti di fondo.

Francesista di formazione, cinefila per vocazione, Francesca Dosi ne è consapevole, e in un lavoro tratto dalla sua tesi dottorale perviene a fare di questo assunto un postulato. Articolato in tre tempi, il suo discorso si concentra intorno ad un nucleo tematico preponderante, l’Histoire des Treize, ed alle letture che ne sono state proposte in ambito artistico, più che accademico. Il partito preso è esplicito sin dalle primissime pagine: valutare la portata simbolica di una scrittura con la quale si sono confrontati in molti, sovente al fine di svelarne i meccanismi, talora con l’obiettivo di appropriarsene e “superarla”. A ben guardare, se lo spazio dedicato a Jacques Rivette prende il sopravvento su riflessioni che potrebbero estendersi ad altri processi creativi, è per meglio delimitare un’indagine in fieri, che lascia presagire sviluppi meno monografici e più manifestamente trasversali. Tassello preliminare di un progetto vasto e ambizioso, il contributo della Dosi ha il doppio pregio di dialogare apertamente con i modelli che rivendica (Anne Marie Baron, certo, ma anche Jean-Louis Leutrat e Chantal Massol) e di fare ricorso ad un vocabolario accessibile, benché tecnico ed avveduto. In aggiunta alle numerosissime interpretazioni inedite di cui si fa tramite, esso vanta il merito di problematizzare un ventaglio considerevole di nozioni entrate a far parte dell’uso comune, dunque bisognose di essere riconsiderate, alla luce dei dibattiti più recenti. Fra queste, si ricordi almeno la citazione, intesa qui in maniera polisemica, quale prestito, debito o vero e proprio “contagio”.

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