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rivista semestrale

anno XXXVI - terza serie

numero 89

gennaio/giugno 2024

Michael Löwy, Kafka sognatore ribelle

[ trad. it. di G. Lagomarsino, elèuthera, Milano 2014 ]

 

È possibile dire qualcosa di nuovo su Kafka, l’«everyone’s darling» che ha ispirato una mole di saggi prossima ormai alle dimensioni di una torre di Babele? Michael Löwy, autore del Kafka sognatore ribelle appena ristampato da elèuthera (dopo una prima edizione, presto esaurita, del 2007) esordisce con questa domanda, a cui provocatoriamente risponde di sì: c’è una dimensione ancora da indagare, quella della sua «passione antiautoritaria», e da questa angolazione prova a ripensarne l’opera. Löwy passa in rassegna le testimonianze che riferiscono della simpatia di Kafka per il socialismo libertario, disseminate nelle lettere e nei ricordi degli amici (soprattutto Max Brod e Gustav Janouch), i quali ricordano il suo interesse per Kropotkin e la sua partecipazione, per quanto defilata, alle riunioni dei circoli anarchici praghesi, normalmente frequentati da scrittori come Jaroslav Hašek o Frá a Šrámek. Controargomentando una per una le tesi di quanti hanno squalificato come «leggendari» questi elementi della biografia di Kafka (Harmut Binder e Ritchie Robertson fra i più autorevoli), Löwy è comunque attento a non calare sull’opera letteraria uno schema interpretativo preso dall’esterno: non è il pensiero anarchico a «influenzare» gli scritti di Kafka, precisa, ma «è lui che ha scelto, sulla base delle sue esperienze e della sua sensibilità antiautoritaria» (p. 37). Convincente o no che risulti la ricostruzione biografica, guardata dal punto di vista che suggerisce Löwy l’opera di Kafka mostra in effetti una coerenza straordinaria. Il filo rosso dell’antiautoritarismo connette in modo nuovo le lettere (quelle a Milena, e ovviamente la Lettera al padre), i racconti (Nella colonia penale, La condanna, Davanti alla legge) e i romanzi, Il Processo e soprattutto Il Castello, a cui Löwy dedica le pagine più belle del libro, col titolo Dispotismo burocratico e servitù volontaria. La domanda ossessiva posta da Kafka, al di là della riflessione sul potere, sulle sue origini e sui meccanismi di colpevolizzazione che lo mantengono in vita, sarebbe piuttosto quella intorno alla volontaria sottomissione delle sue vittime. «Il rispetto dell’autorità è innato in voi, per tutta la vita vi viene infuso di continuo nei modi più vari e da tutte le parti, e voi stessi vi aiutate come potete», si legge nel Castello, e Löwy fa seguire la citazione da un ricordo di Max Brod, al quale Kafka avrebbe dichiarato «la sua sorpresa per il fatto che i lavoratori alle prese con le manovre dell’ufficio delle assicurazioni sociali non prendessero d’assalto la compagnia saccheggiando ogni cosa» (p. 134). Il Kafka insoumis di Löwy è insomma lo scrittore che descrive sì le coercizioni assurde del mondo moderno, ma che soprattutto si chiede perché nessuno si ribella. Nella parte finale del saggio – messa apparentemente in second’ordine dal titolo Digressione aneddotica – Löwy scopre il suo bersaglio, ovvero le letture critiche che hanno fatto di Kafka un “fatalista” che invita alla rassegnazione; e ne identifica uno dei principali responsabili in Lukács e in «uno dei suoi libri peggiori, Il significato attuale del realismo critico» (p. 143). Muovendo da presupposti molto vicini a quelli del critico ungherese («Nel caso in cui qualcuno sospetti che io stia proiettando le mie simpatie politiche attribuendole a Kafka, tengo a precisare che io ho più affinità con le idee di Karl Marx che con quelle di Pëtr Kropotkin», afferma Löwy in una nota a p. 44), l’autore del saggio arriva così a dare un’interpretazione dello scrittore diametralmente opposta a quella lukácsiana. Ed è un’interpretazione che in effetti riesce a sgretolare nel lettore ogni residua, scolastica impressione di un Kafka “incomprensibile”, profetico ma passivo testimone del non-senso.

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