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rivista semestrale

anno XXXVI - terza serie

numero 89

gennaio/giugno 2024

Martina Mengoni, Primo Levi e i tedeschi/Primo Levi and the Germans

[trad. ingl. di G. McDowell, Einaudi, Torino 2017 («Lezioni Primo Levi», 8)]

Filosofa di formazione, l’autrice dell’ottava «Lezio­ne Primo Levi» si muove tanto agilmente tra concetti ed ermeneutica quanto tra ricerche d’archi­vio e analisi testuale. La sua sensibilità storica si palesa già con la precisazione sul senso da attribu­ire al secondo membro della diade che dà titolo al libro: il sintagma “i tedeschi” non fa riferimento a un’entità astratta, forgiata dagli stereotipi sui ca­ratteri dei popoli, ma è piuttosto un termine di confronto da declinare nella cronologia della sto­ria d’Europa e in quella della biografia di Primo Le­vi. «Si potrà dire “i tedeschi” solo se si avrà la pa­zienza di collocare di volta in volta questo sogget­to nel suo punto di appartenenza rispetto alla sto­ria politica europea, a quella italiana, alla storia personale di Levi e alla sua vicenda di scrittore» (p. 57). Contro «chi crede all’esistenza di un Levi atemporale, monolitico, sempre uguale a se stes­so» (p. 11) Mengoni ribadisce l’importanza di stori­cizzarne il percorso intellettuale e artistico: un’o­perazione decisiva per comprendere, per esem­pio, i motivi che hanno spinto Levi a elaborare at­traverso la finzione letteraria un episodio biografi­co nodale, quello dell’incontro epistolare nel 1967 con Ferdinand Meyer, uno dei tecnici civili impie­gati nel laboratorio della fabbrica di Monowitz in cui lo scrittore lavorò negli ultimi mesi di prigionia. Mengoni ricostruisce l’episodio grazie alle veline conservate nell’archivio di Hety Schmitt-Maaß, una delle principali corrispondenti di Levi dalla Germania, avendo cura di tener separata la rico­struzione dello scambio epistolare dall’analisi del testo in cui poco meno di dieci anni dopo lo scrit­tore dà forma letteraria all’episodio: il racconto Va­nadio, penultimo capitolo del Sistema periodico. Dopo aver ricostruito gli eventi sulla base dei do­cumenti disponibili, evidenziandone lo scarto ri­spetto alla narrazione letteraria, e dopo aver ana­lizzato le caratteristiche testuali di Vanadio, Men­goni ragiona sui motivi che possono aver prodotto la divaricazione tra biografia e racconto autobio­grafico: da una parte, un differente contesto stori­co (negli anni Settanta Levi si mostra a più riprese preoccupato di un possibile ritorno dei fascismi in Europa), dall’altra, un maggior grado di consape­volezza da parte di Levi dei propri mezzi di scritto­re. Vanadio ne emerge come una tappa importan­te del processo di rielaborazione sia intellettuale sia letteraria dell’esperienza concentrazionaria: non solo vi si può individuare la «genesi anche nar­rativa – oltre che analitica – del concetto di “zona grigia”» (p. 139), poi sviluppato nel secondo capito­lo dei Sommersi e i salvati, ma anche il momento in cui Levi esplora «per la prima volta la possibilità di raccontare singoli episodi, legati ad Auschwitz, svincolandosi almeno in parte dal proprio ruolo di testimone e puntando piuttosto alla creazione di personaggi finzionali e funzionali nel presente» (p. 153), come farà in Lilìt e altri racconti. Quello con Meyer è sicuramente l’incontro più importante messo a fuoco nel libro, ma non meno interessan­ti sono quelli con altri intellettuali di lingua tede­sca: con gli scrittori Wolfgang Beutin e Albrecht Goes (la prima lettera del carteggio di Levi con en­trambi è pubblicata in appendice, insieme alle pri­me lettere a Ferdinand Meyer e Hety Schmitt­-Maaß); con Heinz Riedt, il primo traduttore di Se questo è un uomo; con lo storico austriaco, ex de­portato ad Auschwitz, Hermann Langbein; con l’in­tellettuale austriaco-belga Hans Meyer/Jean Amé­ry, interlocutore e protagonista del capitolo dei Sommersi e i salvati «Intellettuale ad Auschwitz»; ma anche con scrittori tedeschi letti, amati e tra­dotti da Levi, come Heine: sulla traduzione di una sua lirica si chiude il saggio di Mengoni, che indivi­dua nelle scelte traduttive dello scrittore gli indizi del suo rapporto complesso, ambivalente ma intellettualmente e letterariamente proficuo con il mondo germanico.

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