[ trad. it. di B. Arpaia, Guanda, Milano 2016 ]
In un’epoca di nazionalismi risorgenti, Fernando Aramburu, scrittore basco da vent’anni in Germania, Premio Strega europeo 2018, ritorna, come in Pesci dell’amarezza (2006), sul terrorismo dell’ETA, l’organizzazione indipendentista che ha lacerato per quarant’anni la Spagna e che solo nel 2011 ha posto fine alla sua attività terroristica, e lo fa con un romanzo tra i più riusciti della letteratura spagnola degli ultimi anni. Patria mette in scena l’inimicizia tra due famiglie tradizionali di diversa posizione sociale – quella dell’imprenditore Txato e di sua moglie Bittori, e quella dell’operaio Joxian e di sua moglie Miren – profondamente legate fino a quando il Txato, reo di essersi sottratto alle estorsioni con cui viene finanziato l’estremismo basco, non viene ucciso da una cellula dell’ETA in cui milita Joxe Mari, il figlio ventenne dei due amici. Il clima di rancore fomentato dal nazionalismo risucchia tutti in una spirale di odio: con Bittori che lamenta l’assassinio del marito e Miren la prigionia del figlio, condannato all’ergastolo per omicidio. Alla maniera cervantina, l’autore riduce al minimo i dettagli geografici e storici (comunque ben riconoscibili: l’attentato alla Guardia Civil di Palmanova nel 2009 porta Ainhoa a chiedersi «che colpa ne hanno quelli che vivono qui di quello che succede là?», e dinanzi al bar dove viene ucciso il deputato del Partido Popular Gregorio Ordóñez nel 1995 Eneko ammette che «per tipi come lui mio fratello è in carcere»), per tratteggiare una vicenda di respiro universale.
A partire dal microcosmo della cittadina basca di Guipúzcoa, Patria racconta il conformismo montante e soffocante di una comunità che, per sostenere le sue rivendicazioni nazionaliste, nega ogni pietà alle vittime e ai loro familiari. Per molti l’omertà e la solidarietà ai terroristi non sono altro che un modo per «vivere tranquilli nel paese dei muti». Aramburu registra i silenzi non solo degli oppressi, ma anche degli oppressori. Come Luces de bohemia di Valle-Inclán, il romanzo denuncia le umiliazioni e gli abusi del sistema giudiziario spagnolo: Miren giustifica gli attentati ai nemici «che hanno torturato l’osaba Joxe Mari e che ancora lo torturano in carcere», don Serapio spera che «lo trattino in modo umano», e Xavier, figlio medico del Txato, certifica in un referto le torture inflitte a un terrorista, confermando i sospetti di “terrorismo di Stato”. Con lo «spargimento di sangue […] non si costruisce una patria», osserva Gorka, fratello di Joxe Mari e alter ego di Aramburu; e a suggerire la via d’uscita dall’impasse delle accuse reciproche sarà Arantxa, la sorella di Joxe Mari, colpita da un ictus nel pieno della sua maturità.
Il racconto è articolato in 125 brevi capitoli che, come in un caleidoscopio, fissano i momenti di svolta nella vicenda di ciascun personaggio – a cui il narratore cede volentieri la parola attraverso l’indiretto libero – partendo dal presente, quando Bittori decide di scoprire la verità sull’assassinio del marito, e risalendo a forza di flashback alle origini dell’amicizia fra le due famiglie: il lettore ripercorre così, nella quotidianità di carnefici e vittime, i precari, impercettibili passi verso un possibile superamento del trauma. La convivenza auspicata da Aramburu prende corpo anche nella lingua, un castigliano che gioca con le caratteristiche della variante parlata nei Paesi Baschi (che mantiene, ad esempio, il condizionale al posto del congiuntivo) e incorpora termini ed espressioni dell’euskera, chiarite, nell’originale come nell’ottima traduzione, in un glossario.
Non sappiamo cosa succederà dopo l’ultima pagina. Quel che è certo è che Patria non è tanto un romanzo storico sull’ETA quanto una grande e riuscita rappresentazione romanzesca del superamento di un trauma comunitario, da cui emerge potente, a smentire ogni semplificazione ideologica, la quotidianità irriducibile ed eroica della gente comune: dalle ragioni dell’odio a quelle della vita che vuole andare avanti, ed è capace anche di perdonare.
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