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rivista semestrale

anno XXXV - terza serie

numero 87

gennaio/giugno 2023

Giorgio Falco, Ipotesi di una sconfitta

[ Einaudi, Torino 2017 ]

Ipotesi di una sconfitta è uno dei migliori romanzi italiani contemporanei. È un’opera evidentemente autobiografica e tuttavia il suo vero protagonista è il lavoro. La cosa non sorprende: sin dai suoi esordi narrativi – a partire dal racconto La legge degli elefanti (2001) e dai frammenti narrativi di Pausa caffè (2004) – Falco si è costantemente interessato «alla letteratura incentrata sul lavoro» (p. 277), alla rappresentazione degli effetti che le trasformazioni avvenute nel mondo del lavoro nell’età globale hanno provocato sui luoghi, le abitudini di vita, la comunicazione, il linguaggio. Ipotesi di una sconfitta ruota attorno alla ricerca di un posto di lavoro da parte dell’autore-personaggio e tuttavia, per quanto faccia procedere il romanzo, questa ricerca finisce anche per congelarlo in una struttura ripetitiva e dolorosamente circolare. Quella del lavoro è difatti una ricerca incessante e annichilente: da un lato, costringe ad ammassare senza posa, l’una dietro l’altra, una serie di esperienze e occupazioni precarie, occasionali, incoerenti; dall’altro lato, appare fin dal principio un’azione sganciata da qualsiasi aura salvifica, da ogni forma d’avventura, d’enfasi o aspirazione, una ricerca destinata inesorabilmente a non compiersi mai e a fallire. Il romanzo di Falco si può dividere idealmente in tre parti: la parte iniziale, dedicata alla figura del padre, alla sua carriera di autista all’Atm, al suo ricovero ospedaliero e alla morte; la parte centrale, in cui vengono narrate le varie occupazioni intraprese dall’autore dalla metà degli anni Ottanta in avanti, dal suo primo impiego saltuario, estivo, da studente, a diciassette anni, nel capannone di una ditta che «fa tante cose […] anche spillette da appuntare agli indumenti» (p. 59), fino all’assunzione in un’azienda di telefonia, in Veneto, «Ero diventato il mio login, il mio username, la mia password. Ero diventato GFALCO» (p. 250); la terza parte, infine (le ultime ottanta pagine), in cui l’autore, dopo aver scritto La gemella H stando chiuso per un anno e mezzo in uno sgabuzzino e dopo aver trascorso un periodo di convalescenza insieme a Sa, la compagna, in un camper, si dimette, esce dal mondo del lavoro – «dopo alcuni brevi decenni terminava la mia avventura di lavoratore» (p. 327), «sapevo di essere uscito per sempre dal mondo del lavoro» (p. 329) – e si dedica alla letteratura e alle scommesse sportive on line. Ma Ipotesi di una sconfitta non traccia nessuna parabola, non allude a nessuna evoluzione né, tanto meno, a qualche forma di salvezza. La brutalità del mondo del lavoro rispecchia la brutalità del mondo, una «cosa» diventata «impossibile» (p. 43). La stessa vita lavorativa del padre, per quanto ovattata da alcuni ricordi intimi e indelebili, e per quanto diversa perché solida – a tempo indeterminato – non è che un debole contraltare rispetto al «percorso accidentato» (p. 15) dell’autore; è un modello svanito o quanto meno sfuocato e altrettanto doloroso. Anche la parte finale non segna che un’apparente discontinuità, se è vero che l’autore, pur essendo ormai uno scrittore affermato che partecipa al Tour del Campiello e sale sul palco della Fenice, resta un «burocrate pezzente» (p. 357) che scommette ossessivamente, per un guadagno misero e senza tifare nessuno, in tuta, da casa. «Non era azzardo, ma fiction, simulazione totale, come l’azienda delle finte lettere, ciò da cui ero scappato» (p. 363). Falco è bravo a rappresentare la degradazione, il grigiore, l’oppressione del mondo del lavoro subordinato, il senso di vuoto che accompagna la ricerca di un lavoro qualunque, il peso della vita quotidiana nelle periferie, nei capannoni, ai margini delle superstrade. Attraverso uno stile paratattico e riflessivo, una sintassi franta, asciutta, ricca di catene anaforiche e di un lessico familiare elevato a metafora, Falco sa ricavare dei significati decisivi da avvenimenti qualunque, banali o apparentemente banali, dai luoghi, gli oggetti, gli incontri che descrive; sa straniare il mondo per mostrarlo com’è, come gli appare, senza rinunciare ai fatti, a raccontare. 

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