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rivista semestrale

anno XXXVI - terza serie

numero 89

gennaio/giugno 2024

Franco Fortini, I poeti del Novecento

[ a cura di D. Santarone, Donzelli, Roma 2017 ]

La riedizione di un classico della critica risalente a oltre quarant’anni fa, quale I poeti del Novecento di Franco Fortini (apparso nel 1977 entro La letteratura italiana diretta da Carlo Muscetta per Laterza per una fruizione prevalentemente universitaria), pone due ordini di questioni, strettamente intrecciate. La prima riguarda proprio il senso e la validità di tale operazione editoriale; la seconda l’opera in sé. Cominciamo, per comodità discorsiva, dalla seconda.

A suo tempo lo studio di Fortini, nei limiti cronologici ed entro le direttrici complessive dell’opera, costituì senza dubbio una delle ricostruzioni più innovative dell’esperienza poetica del Novecento, che qui prende le mosse dall’età espressionista. Assieme – e in parte in conflitto – alle antologie di Contini del 1968 e soprattutto di Sanguineti dell’anno successivo, pur molto diverse fra loro, quella di Fortini ha ridisegnato in maniera radicale l’immagine del Novecento poetico, o meglio del corposo spezzone che egli prende in esame. Il disegno che Fortini offre ai lettori dell’ultimo quarto di secolo scompone la pigra ricezione di molti decenni, ancora segnati dal crocianesimo e dall’egemonia della poesia “pura” e si tiene lontano dalle posizioni riferibili all’avanguardia. Tre soli esempi: la categoria di espressionismo, che Fortini usa in maniera ben diversa da Contini, legandola non alla sperimentazione linguistica ma alla collocazione sociale del poeta; il diverso e a suo modo provocatorio “montaggio” delle esperienze centrali della poesia novecentesca, entro la categoria di «esistenzialismo storico», che vede in sequenza, ad esempio, Montale, Luzi (scorporato dalla linea che va da Ungaretti agli ermetici) e Sereni; lo spazio e il rilievo conferiti all’esperienza della poesia in dialetto (con Tessa, Noventa e Pasolini in evidenza).

Per quanto riguarda il primo punto, credo che non si tratti del puro gusto, fra l’erudizione e la pietas, di additare un classico della critica. Mi pare che l’operazione obbedisca a una utile e stimolante opzione “politica”: negli anni del grande disincanto, della critica come tecnica o addirittura come governance dei saperi umanistici, della cultura come “saper fare”, riproporre le pagine di Fortini (che appaiono oggi ancor più dure e secche) appare una coraggiosa scelta. Ne va dato merito all’editore e al curatore, Donatello Santarone, che ha chiuso la pubblicazione con una densa ricostruzione del lavorio interno che porta al saggio, e che ripropone la necessità di una sua rilettura condotta con gli occhi dei nostri giorni. Entro questa rilettura va posto anche il saggio introduttivo di Pier Vincenzo Mengaldo, a suo tempo una lunga recensione, del 1979, che già individuava le proiezioni successive della ricostruzione di Fortini, rileggendola con indiscutibile acume ma anche, com’è giusto, secondo proprie categorie (segnaliamo solo la sottolineatura della figura del poeta come «testimone e martire», che comporterebbe la svalutazione delle scuole e delle tendenze).

Non è semplice dire se il libro possa avere ancor oggi una destinazione didattica. Certo, Fortini scrive quando diverse parabole poetiche sono ancora tutt’altro che concluse: quelle, ad esempio, di suoi sodali come Sereni, Luzi e Zanzotto, queste ultime destinate a svilupparsi ancora per diversi decenni, con raccolte di grande significatività; ma anche quella di Sanguineti, e perfino di Montale; e alcune valutazioni possono essere “datate” e vanno rivedute. Tuttavia l’acume del giudizio, l’impianto costruttivo, la profondità saggistica sono ancora così marcati e vivi da renderla un contributo critico, non solo un monumento-documento, ancor oggi proponibile anche come “guida” didattica e come strumento di pedagogia culturale. 

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