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rivista semestrale

anno XXXVI - terza serie

numero 89

gennaio/giugno 2024

Joel ed Ethan Coen, Non è un paese per vecchi

[Miramax Films and Paramount Vantage, USA 2007]

In No Country for Old Men dei fratelli Coen – vincitore di quattro Oscar nel 2008 – si racconta una storia che per la maggior parte degli spettatori è eccessiva e lontana. La vicenda è ambientata in un’area desertica del West Texas, al confine tra Messico e Stati Uniti. Una mattina dell’estate del 1980 Llewelyn Moss esce a caccia nel deserto e si trova di fronte a ciò che resta dopo una sparatoria fra trafficanti di droga: dei pick-up e dei cadaveri crivellati dai proiettili, un carico di eroina e una valigetta piena di banconote. Llewelyn decide di prendere la valigetta; nelle ore, nei giorni e nelle settimane seguenti sarà impegnato a fuggire dai sicari dei trafficanti che vogliono recuperare il denaro.

Fra coloro che gli danno la caccia c’è Anton Chigur, un killer psicopatico che umilia, tortura e uccide chiunque rappresenti per lui un pericolo, un ostacolo, un fastidio o un’occasione di provare piacere e dolore. Come sceriffo della contea di Terrell, Ed Tom Bell si trova a seguire le loro tracce, anche se è ormai anziano e deluso dal suo mestiere. No Country for Old Men è costruito sul contrasto fra la solida consistenza narrativa delle singole sequenze e la rarefazione del senso del film. In lunghe sequenze dense e coerenti si descrive analiticamente ciò che i personaggi fanno per raggiungere uno scopo.

Si racconta in dettaglio come Llewelyn trova la valigia, la nasconde, la recupera, come fugge da un hotel e ferito riesce a passare la frontiera; si racconta in dettaglio come Chigur fugge da un arresto, uccide, ruba auto, indaga per trovare la valigetta, si fa un’operazione chirurgica da solo. A queste sequenze si alternano situazioni narrative incongrue, che sono spesso dei dialoghi. Insieme ridicoli e intensi, sono come dei proiettili che colpiscono lo spettatore: spesso per la miseria, la stupidità o la follia che rivelano; a volte per una profondità inaspettata, visto il tipo di personaggi. Come se fosse uno strato diseguale di ruggine, una patina di ironia intacca pezzi della struttura narrativa, senza però corroderla del tutto e farla cedere sotto il peso di uno sguardo serio.

No Country for Old Men è un film ironico che non fa mai ridere. Non sono però soltanto questi dettagli a disorientare il senso della storia. La materia narrativa e visiva di No Country for Old Men è colata dentro il cinema di genere, ma lo stampo usato è così ibrido che la forma impressa al film è indecifrabile: se la trama è quella di un poliziesco, il ritmo è a tratti quello di un film d’azione, il setting ricorda un western e l’atmosfera è quella cupa di un thriller, con qualche sfumatura macabra da horror. Nessun codice di genere riesce a circoscrivere il movimento inquieto del senso. Inoltre le storie dei tre personaggi sono attaccate l’una all’altra come delle figure ritagliate da diversi giornali e poi messe in un collage: è difficile capire cosa le tenga insieme.

Infine, i personaggi padroneggiano le loro azioni e passioni soltanto localmente, all’interno di singole situazioni narrative; ma il senso della loro storia sfugge loro. Chigur è un serial killer psicopatico: nel suo agire e patire si incarna un destino psichico che lo domina. Llewelyn è un giovane texano, reduce del Vietnam e saldatore in pensione, che vive con la moglie dentro un trailer in un campeggio; prende quel denaro spinto dal desiderio di felicità e la sua vita ne è subito distrutta.

Ed Tom è sceriffo come suo padre e suo nonno prima di lui; l’inerzia della storia familiare di cui è parte non è però riscattata dalla rivelazione del significato di ciò che fa e che gli accade. Queste storie estreme e marginali ci mostrano intensificata la forma della nostra esistenza nel mondo, o almeno del racconto che possiamo trarne. Esistere significa acconsentire a ciò che Ed Tom vorrebbe evitare: «Non voglio puntare le mie fiches e uscire ad affrontare qualcosa che non capisco. Sarebbe come rischiare la propria anima. Sarebbe come dire: “Okay, faccio parte di questo mondo”».

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