allegoriaonline.it

rivista semestrale

anno XXXV - terza serie

numero 88

luglio/dicembre 2023

Laurent Cantet, La classe

[Francia 2008]

Palma d’Oro come miglior film al Festival di Cannes 2008, Entre les murs affatica lo spettatore: per il tema trattato, per i codici usati, perché pone problemi enormi evitando soluzioni banali. Senza mai spostare la macchina da presa al di fuori dell’edificio scolastico, il regista ci racconta l’esperienza di un professore di lettere in una terza media del ventesimo arrondissement parigino. La classe è composta in buona parte da studenti immigrati. Attorno all’insegnamento della lingua francese il film costruisce alcune delle domande più radicali. Lo sforzo di costruire un’intesa tra individui appartenenti a etnie così diverse (cinesi, arabi, africani ecc.) a partire dal possesso di parole comuni serve infatti a svelare, senza didascalie ma con la forza dell’esperienza diretta sul campo, una delle verità più pesanti di Entre les murs.

Ovvero che il professore sempre più spesso si trova a essere, talvolta ancor prima che un intellettuale, un autentico guerriero, costretto com’è a fronteggiare, anzitutto fisicamente, forme continue di violenza da cui passano conflitti di ruolo, d’identità, di cultura. All’interno di un terreno così minato e – come ci suggerisce l’uso esclusivo del set scolastico – così lasciato solo dalla società circostante, quanto può restare tutelato lo spazio per insegnare? «Io non ho imparato nulla» dichiarerà con angoscia l’ultima ragazzina che alla fine della scuola lascia l’aula. E rispetto a quella voce il film non indica nessuna uscita di sicurezza. Entre les murs è una sorta di reportage disperato dalla battaglia, e la determinazione di luogo evocata dal titolo originale allude proprio a questo stato di tensione permanente, oltre che all’uso del punto di vista in medias res come unica strategia espressiva.

Tutto ciò sparisce nella traduzione italiana (La classe, che piuttosto fa pensare a una fiction di RAI 1); ma questo involontario spostamento di codice operato dalle manovre spericolate del doppiaggio raggiunge i suoi risultati più alti e – ironia a parte – più gravi, in uno degli snodi significativi della vicenda, quando l’insegnante, che tenta di raccogliere tutti sotto il massimo comun denominatore della conoscenza del francese, sarà tradito da quella stessa lingua. Esasperato dal comportamento strafottente di due allieve, Bégaudeau si lascia infatti scappare un epiteto (pétasse: un termine popolare peggiorativo per significare un concetto vicino a quello di ‘troietta capricciosa’) tradotto in italiano con una parola che più desueta non si potrebbe, ai limiti della comprensibilità per chi sia nato dopo il 1950 e non abbia letto Flaiano: «sgallettata»! (Che d’altra parte rende bene la distanza del senso comune – compreso quello degli addetti al doppiaggio – dagli scontri di culture che si stanno consumando tra i muri delle scuole italiane).

Entre les murs, si accennava all’inizio, usa tecniche di racconto che, in un certo senso, affaticano lo spettatore. Nell’arco di un anno di prove, il regista, per un pomeriggio alla settimana, ha chiuso tra i muri di un’aula François Bégaudeau – autore del libro (Einaudi) da cui è tratta la sceneggiatura, nonché stupefacente interprete di se stesso – e venticinque allievi veri, simulando lo svolgimento di un anno di corso. Tutto accade secondo un copione studiato a tavolino, ma tutto è evidentemente realizzato per lasciare l’illusione – e il sospetto – del documentario in presa diretta, grazie al lavoro di postproduzione e all’uso a focalizzazione multipla di telecamere che riprendono al volo, come sorprendendola, la fenomenologia del corpo, o sembrano rubare le azioni fuori campo (come gli scoppi d’ira tra studenti, le reazioni scomposte del professore, l’uso del telefonino sotto il banco), creando di continuo l’effetto dell’immagine catturata al di fuori dell’inquadratura.

Eppure lo spettatore, dopo circa un’ora, comincia a sentire la fatica, e anche questa è un’esperienza significativa di straniamento: come se il suo sensorio, abituato ai meccanismi di rappresentazione affermati dal telereality, quasi si ribellasse alla lunghezza – antitelevisiva, per l’appunto – di certe scene, o fosse disturbato da quei volti così stanchi e così poco fotogenici degli altri professori.

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