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rivista semestrale

anno XXXVI - terza serie

numero 89

gennaio/giugno 2024

Damiano Frasca – Andrea Cortellessa, Zanzotto. Il canto nella terra

[ Laterza, Roma-Bari 2021 ]

«Non è stato l’ultimo poeta, non è quello che conclude. Resterà il primo: quello che comincia, sempre» (p. 68). Forse si può partire dalla perentorietà di questo passaggio per inquadrare il recente volume di Andrea Cortellessa, Zanzotto. Il canto nella terra. Se Giulio Ferroni aveva (malinconicamente) intitolato il suo saggio su Giudici e Zanzotto proprio Gli ultimi poeti, Cortellessa ribalta il piano enfatizzando un movimento che si alimenta in quel «sempre» e che è tutto proiettato in avanti.

D’altra parte, il sottotitolo Il canto nella terra rievoca Celan («l’autore che meglio ha incarnato, nel Novecento, il “principio geologico” della poesia moderna», p. 33), ma anche – con uno slittamento della preposizione – Il canto della terra, ovvero il congedo di Mahler che, come scriveva Ernst Bloch nel suo Il principio speranza, «va in uno smisurato “eterno, eterno”» (e proprio uno dei punti più belli del saggio di Cortellessa lega la poetica zanzottiana a Bloch, per la concezione della temporalità).

In Zanzotto. Il canto nella terra tornano i nomi di Dante, Leopardi, Montale, Celan, Hölderlin, oltre a Lacan, Heidegger e al già citato Bloch; eppure, se la costellazione può apparire nota, lo sguardo della critica si scopre mutato. «Con Petrarca in una mano, Dante nell’altra», aveva dichiarato Zanzotto in un’intervista cronologicamente vicina al Galateo in Bosco, e Cortellessa adesso insiste: «Dante ePetrarca: non Dante controPetrarca», nella coesistenza di frammentazione e costruzione (p. 55). E Leopardi, che secondo Zanzotto «parla già in termini di geologia, e non di storia» (in La verità e la poesia, pubblicato nel 1982), nel saggio di Cortellessa, inevitabilmente, si fa incontro al poeta che dal cuore del Novecento rimprovera i suoi contemporanei per la ristrettezza di orizzonti («ci soffermiamo troppo poco sulla megastoria, ragioniamo per così dire tolemaicamente, in termini di microstoria antropocentrica», p. 29). D’altronde Heidegger e Lacan, letti e usati da Zanzotto «per la loro lingua

non meno che per il loro pensiero» (p. 7), possono persino – con un avvicendamento di ruoli – essere anticipati dal poeta del Galateo. Proprio come il Kafka di Borges, anche Zanzotto «inventa i suoi precursori» (p. 7).

Con la sua monografia, Andrea Cortellessa si prefigge di leggere l’autore in estensione, oltre che in profondità. Solo indagando fino all’ultima parte della produzione zanzottiana, con le raccolte Meteo, Sovrimpressioni, Conglomerati (una “seconda trilogia” all’insegna dello stile tardo, dopo la «pseudo-trilogia» chiusa da Idioma nel 1986), si può ricomporre l’insieme: «Senza il conforto della sua ultima parola davvero i segni delle sue poesie più grandi, e necessarie, rischierebbero di restare senza significato» (p. 15). Da un lato, dunque, l’intenzione è di sottrarre Zanzotto allo sminuzzamento critico degli studi recenti, focalizzati su singole raccolte e aspetti eccessivamente circoscritti; dall’altro lato di mostrare come non ci si possa più accontentare del mito del «Signore dei Significanti» (un mito però, mi sembra, irrigiditosi più nella vulgata successiva, che non tra le mani del suo coniatore). L’oscurità zanzottiana, si ripete più volte nel saggio con parole del poeta stesso, è da sovraccarico, «da eccesso, non da difetto» (di significati). Così in Crode del Pedrè, un testo di Conglomerati (2009),torna ancora una volta in Zanzotto la «scena primaria che lo accompagna da sempre» (p. 34), un affresco del padre pittore in una casa a Cal Santa di Pieve, ma anche una chiave interpretativa che, come dimostra Cortellessa, permette di decriptare, tra gli altri, testi come Al mondo nella Beltà (1968) o Collassare e pomerio in Fosfeni (1983), e di intravedere la duplicità del paesaggio, rifugio e insieme trappola.

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