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rivista semestrale

anno XXXV - terza serie

numero 88

luglio/dicembre 2023

Valeria Cavalloro – Vasilij Grossman, Stalingrado

[ trad. it. di C. Zonghetti, Adelphi, Milano 2022 ]

«Fine del libro primo» è la frase che chiude l’imponente volume di Stalingrado di Vasilij Grossman, tradotto in italiano per Adelphi dopo settant’anni dalla sua prima pubblicazione, e arrivato finalmente a completare l’opera che per decenni, da noi, ha coinciso con il solo secondo volume: quel Vita e destino che, dopo una piratesca vicenda di censure e trafugamenti, era uscito in Occidente nel 1980 e da allora aveva incontrato una vasta, strana fortuna come romanzo autonomo.

Stalingrado è un libro con una storia editoriale a dir poco travagliata. Grossman inizia a scriverlo nel 1943, mentre si trova al fronte impegnato come corrispondente di guerra per la «Krasnaja zvezda», posizione che aveva implorato di ottenere dopo aver inutilmente cercato di arruolarsi come volontario (la vicenda è ricostruita in dettaglio nel bel volume Uno scrittore in guerra, la raccolta commentata di taccuini, articoli e lettere uscita nel 2015 sempre per Adelphi). Terminato nel 1946, il romanzo ottiene pareri entusiasti dai primi lettori, ma esce soltanto nel 1952, quando la rivista «Novyj Mir» lo accetta a patto di subire profonde revisioni e sotto il titolo modificato Za pravoe delo (“Per una giusta causa”, dal discorso di mobilitazione generale pronunciato dal ministro della guerra Molotov nel giugno 1941). Esce poi in volume nel 1954 con altre modifiche e di nuovo ancora rivisto nel 1956. Tutte versioni significativamente lontane dal testo conservato nei dattiloscritti originali, reintegrati finalmente da Robert Chandler e Jurij Bit-Junan per l’edizione del 2019 su cui è basata la traduzione italiana.

Nonostante la diversa fortuna, per Stalingrado valgono tutti gli elementi che rendono grande Vita e destino. Romanzo tolstoiano e “ottocentesco”, tra le sue pagine si trova non soltanto l’impulso conoscitivo che mescola narrazione e saggismo per estrarre riflessioni generali dalle vicende particolari, ma una sentita scommessa civile sul potere rigeneratore della letteratura. Se il respiro filosofico è meno disteso che nel secondo volume, produce comunque già qui, e fin dall’inizio, alcuni passaggi indimenticabili, come l’infervorata discussione tra Štrum e il suo vecchio professore di fisica Čepyžin sulle origini e la natura del nazismo – che non si fa fatica a leggere come un’analisi estendibile a tutti i totalitarismi, incluso quello staliniano.

Se Stalingrado è stato definito, insieme al suo seguito, il Guerra e pace del ventesimo secolo non è però soltanto per gli aspetti più strettamente formali e letterari, ma anche perché Grossman riprende da Tolstoj l’imperativo etico alla narrazione come responsabilità: «responsabilità […] di ingaggiare la battaglia contro le forze dell’oblio», come recita un suo articolo del 1945, Il lavoro dello scrittore. L’attenzione ai nomi, alle vite e ai minuscoli dettagli dei civili sfollati e di soldati e ufficiali morti durante il primo anno di guerra è più che una mera ripresa dell’alternanza tra micro e macrostoria che caratterizza il racconto di guerra almeno da Stendhal in poi. È una stilettata polemica all’ottusità di un regime che per proteggere la propria immagine aveva negato memoria e dignità a caduti, feriti e prigionieri di quelle prime fasi di guerra (alla fine del conflitto il regime dichiarò ufficialmente sette milioni di morti sovietici, ma già all’epoca era chiaro a tutta la popolazione che quel numero non poteva essere corretto; e infatti le stime odierne superano i ventisei milioni di morti). È un modo per dare forma all’enormità della guerra trasformando il freddo numero delle vittime in una vertiginosa teoria di vite pulsanti, ricche e irripetibili. Nell’addio tremendo di Petr Vavilov che riceve la cartolina di arruolamento e nell’ultima lettera spedita dalla madre di Štrum prima della fucilazione Grossman non racconta soltanto la grande storia dal punto di vista della gente comune, ma restituisce voce e presenza al trauma negato di decine di milioni di soldati e civili spazzati via dagli anni del conflitto per non tornare mai più alle loro case ealle loro famiglie.

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