[ Mondadori, Milano 2020 ]
Il nuovo romanzo di Maria Rosa Cutrufelli, scritto nel 2019 e pubblicato all’inizio di marzo del 2020, colpisce anzitutto per la profetica attualità. La narrazione ruota intorno a una pandemia, causata da un devastante avvelenamento, che induce siccità, velenose piogge torrenziali ed esalazioni tossiche, in una terra ormai ricolma solo di rifiuti. L’effetto è la sterilità, che potrebbe portare all’estinzione del genere umano. Per atmosfere e contenuti, L’isola delle madri strizza l’occhio al noto romanzo The Handmaid’s Tale di Margaret Atwood, anche se il fil rouge del diritto/obbligo alla maternità in un contesto distopico dipende dall’inquinamento ambientale e dall’uso dei pesticidi cancerogeni.
Fra le voci di punta del femminismo italiano, Cutrufelli pone al centro del romanzo, come fa nei precedenti e nella vasta produzione saggistica, la condizione femminile, questa volta collegandola alla grande questione della maternità, rilevante nella recente psicoanalisi e nei Gender Studies. La funzione materna non è intesa solo in senso biologico e riproduttivo, ma anche in senso storico-culturale: la capacità generativa è vista anche come ricerca genealogica delle origini e delle radici. L’isola delle madri, infatti, è la Sicilia reale e allegorica con cui Cutrufelli, solo in parte siciliana, ha deciso di identificarsi, scegliendo l’identità meridionale come atto politico, come schieramento militante a favore del e dei Sud.
La trama è costruita sulla complessa giustapposizione di vicende quasi sconnesse, che in molti casi restano aperte fino alla fine. Con questa architettura ellittica, la narrazione sembra voler mimare l’irrazionalità della vita, la sua mancanza di logica e di soluzioni. In un susseguirsi di frammenti di esistenze, nel racconto si delineano i profili di quattro donne molto diverse, per provenienza, età, estrazione sociale e trascorsi di vita, ma accomunate dal bisogno/dovere di non soccombere all’inaridirsi della vita, grazie a uno slancio collaborativo e solidaristico che le vuole l’una per l’altra, l’una con l’altra, nella responsabilità di chi è depositario del futuro, perché «gli uomini hanno abdicato alla loro funzione di cura» (p. 159).
La storia è raccontata da Nina, la figlia diciottenne di tre o quattro madri, tutte protagoniste necessarie alla procreazione biotecnologica. Ci sono l’infermiera Kateryna, mamma canguro, nel cui utero viene fecondato l’ovulo; l’immigrata Mariama, detta la giardiniera, che offre l’utero in affitto; l’archeologa Livia, che avrebbe dovuto crescere il bambino, e che invece, senza anticipare i dettagli della storia, non potrà farlo, mentre sarà poi Sara, la direttrice della casa delle madri, ad allevarla ed educarla.
La casa, detta anche Il Colosseo, è un’apparente oasi di resistenza artificiale, dove si tenta di resistere alla pandemia; ma si tratta di un luogo tutt’altro che felice: simile a un ospedale, asettico e impersonale, e assediato da un contesto definito espressamente come «un inferno».
Attraverso le storie delle personagge, il racconto mostra l’irriducibilità del femminile alla logica dell’uno, e così pone al centro il valore universale della legge della madre, una legge plurima e misteriosa, segnata dai passaggi tra ombra e coscienza e dal dinamismo ciclico della vita, fatta di morti e di rinascite, come nel mito di Demetra che, insieme ad altri riferimenti classici, è fittamente evocato nel tessuto narrativo.
Per l’acume della visione distopica, L’isola delle madri costringe il lettore a un complesso lavoro ermeneutico, che si riverbera con forza sull’attualità. Nella conclusiva Piccola nota a margine, citando la biologa marina Rachel Carson, autrice del celeberrimo Silent Spring, per il quale è considerata ispiratrice dell’ambientalismo, la scrittrice sottolinea l’importanza dell’informazione e della vigilanza sulle nefaste conseguenze dello sfruttamento della natura. Il romanzo ci induce a riflettere su questo e anche sulla disumanità della noncuranza.
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