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rivista semestrale

anno XXXVI - terza serie

numero 89

gennaio/giugno 2024

Silvia Contarini, Monica Jansen, Stefania Ricciardi (a cura di), Le culture del precariato

[Ombre corte, Verona 2015]

Come suggerito nell’introduzione da Contarini, Jansen e Ricciardi, Le culture del precariato andrebbe idealmente letto insieme a Precariato. Per una critica della società della precarietà (a cura di S. Contarini e L. Marsi, Ombre corte, Verona 2015). Entrambi i volumi sono scaturiti infatti dal terzo convegno internazionale (Avere il coraggio dell’incertezza: le culture del precariato, Paris Ouest Nanterre 2012) promosso all’interno di un più ampio e ambizioso progetto sul tema della precarietà (Precarity and Postautonomia: The Global Heritage). Di fronte a un tema così dibattuto, la prospettiva d’indagine proposta è certamente originale: considerando culture del precariato «sia le forme estetiche impiegate per formulare una risposta o un’alternativa alla precarietà economica ed esistenziale […] sia le nuove forme di attivismo o di pensiero politico organizzate dentro e fuori le istituzioni», l’idea di immaginare «una possibile cultura del precariato come antidoto contro l’incertezza» è quantomeno intelligente (p. 8-9). L’aspetto più originale della proposta – immaginare la vita precaria come una possibile risorsa critica e creativa – si basa sul presupposto che il precariato lavorativo abbia prodotto una condizione esistenziale di precarietà a tal punto diffusa che i due termini (precariato e precarietà) possano ormai dirsi sinonimi. I saggi qui raccolti non si preoccupano tanto (salvo raramente, come avviene ad esempio nel bel saggio di Manuela Spinelli) di discutere il precariato come fenomeno storico legato alle recenti trasformazioni avvenute nel mondo del lavoro: al centro del discorso è piuttosto la precarietà come dimensione esistenziale e come nuova forma di «soggettivazione politica» e culturale (p. 31). La struttura tripartita del volume (Per una filosofia precaria; Forme di attivismo precario; Narrazioni del precariato) testimonia la volontà di pensare la precarietà non solo e non tanto come condizione di subalternità: essa può rappresentare una carica eversiva e una risorsa per una riflessione filosofica e un’azione politica volte a «trasformare la precarietà in alternativa reale» (p. 14). Se il volume ha dunque complessivamente il merito di prendere sul serio l’esortazione di Giorgio Vasta – avere il coraggio dell’incertezza – nel tentativo di rovesciare la condizione di debolezza e passività propria della vita precaria, resta il fatto che la gran parte delle analisi proposte (a partire dall’intervento e dalla bella testimonianza di Andrea Inglese e compresa l’intervista di Christophe Mileschi ad Ascanio Celestini) si concentra sul disagio provocato dalla precarietà e sul bisogno di mantenere acceso il conflitto sociale. In altre parole, più che formulare una risposta o un’alternativa alla precarietà, le forme estetiche e le forme di attivismo esaminate parlano piuttosto e ancora di estraneità e sofferenza, di sospensione e resistenza. La possibilità di una cultura della precarietà (ne parla attentamente Monica Jansen esaminando il caso del Teatro Valle Occupato, richiamandosi ad alcune riflessioni di Laurent Berlant) sembra concretizzarsi soltanto là dove riesca ad assumere connotati pubblici e a farsi “bene comune”, attraverso forme molto ampie di legittimazione e solidarietà. Le culture del precariato è un libro utile: traccia una proposta originale, offre numerosi spunti ed è ricco di riferimenti critici. Nonostante la qualità e il valore di molti interventi, tuttavia, la loro eterogeneità appare problematica. Una tale varietà, che riguarda tanto i soggetti e le situazioni giuridiche implicate quanto i fenomeni e i contesti storici analizzati, comporta infatti due rischi: da un lato, quello di impedire il pieno controllo e lo sviluppo dell’ipotesi di partenza, vale a dire la definizione di una cultura del precariato da opporre all’incertezza che ne deriva; dall’altro lato, ed è forse il pericolo maggiore, essa finisce per giustapporre gli uni agli altri, in nome del conflitto, del disagio o della disuguaglianza, esperienze e fenomeni molto diversi tra loro.

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