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rivista semestrale

anno XXXV - terza serie

numero 88

luglio/dicembre 2023

Chiara Fenoglio – Antonio Franchini, Il vecchio lottatore e altri racconti postemingueiani

[ NN editore, Milano 2020 ]

Che cosa significa – oggi – scrivere dei racconti, e farlo nella tradizione segnata da Hemingway? Se accettiamo la scommessa di Antonio Franchini, dovremo ammettere con lui che non conta tanto riproporre temi e situazioni che a Hemingway si richiamano (la lotta, la corrida, la guerra o la caccia, qui declinata nella variante ittica), né lavorare a uno stile fatto di ellissi e di estrema tensione, quanto piuttosto ragionare su quanto da quelle esperienze o da quella maniera ci distingue. È il post ciò che conta, come ci avvisa il titolo della raccolta, è la vecchiaia del lottatore a dirci qualcosa su un certo modo di vivere e di leggere la grande tradizione novecentesca del racconto. In effetti, quando Hemingway compare sulla scena come personaggio, è un uomo vecchio, stanco, privo di sogni, quasi postumo a sé stesso, è un uomo sconfitto che non ha dimenticato la sua afición e che, tuttavia, con la sua stessa tradizione non riesce a riconnettersi. Così Francesco Esente, alter ego del narratore già comparso nei racconti Acqua, sudore, ghiaccio (1998), è fin dal nome colui che si trae fuori, che assiste senza partecipare, ma è anche colui che tiene lo sguardo rivolto al passato, che si accorge «di fare un passo avanti e due indietro», cosciente della sua inadeguatezza di fronte al tempo che passa e che per buona parte del libro dialoga con i morti (i due italiani a Caporetto, gli amici Sergio Altieri, detto Sergione, e Roberto Bonelli, Fernanda Pivano protagonista del malinconico e straziante Non ho scopato con Hemingway, i due lottatori dell’ultimo racconto, tutti sono morti). E dopotutto, questo sguardo rivolto indietro è ciò che trattiene il narratore impegnato a discendere in canoa l’Isonzo dal commettere qualche imprudenza in corrispondenza di alcuni pericolosi sifoni: «non ho mai fatto quella sezione del fiume, non per paura, ma per un altro genere di inquietudine, perché la barca va sempre nella direzione dello sguardo e non sono mai stato del tutto sicuro che, dovendo scegliere tra la via della salvezza e quella della fine, l’istinto conduca a scegliere la prima». La letteratura per Franchini sta esattamente su quel confine labile tra trattenimento ed energia, tra impulso al gesto eroico, muscolare, e controllo dello stile: per questo la parola chiave di questi racconti giunge un po’ inaspettata solo a pagina 145, nel racconto più apertamente autobiografico e sofferto, Grande fiume dai due cuori. È Roberto Bonelli la figura più luminosa di questi racconti, che con la sua «eterna sprezzatura» diviene l’emblema di chi insegue «il gesto perfetto sulle difficoltà estreme» non tanto per ascendere verso un traguardo ma per una sorta di gioco in prossimità del limite estremo. Pagaiando lungo le rapide del fiume Sesia, Francesco Esente scende realmente e simbolicamente il fiume dove «s’incrociavano i fili della sua vita», scende verso il prato degli anni felici (più dantesca Valletta dei principi che Eden), scende e ad ogni rapida cerca il giusto equilibrio di energia rabbiosa e controllo, fatica e quiete, istinto e tradizione, di esperienza vissuta ed esperienza riflessa. Solo così sarà forse possibile «resistere alla forza del Dio dell’Abisso» e nello stesso tempo perseguire l’ideale insieme omerico e infantile della «morte bella», della caduta virtuosistica ed elegante che mantiene, nell’istante della sconfitta, l’evanescente bellezza di una afición: che sia il torero Manolete o l’ignoto soldato caduto durante la Grande guerra, o ancora il padre che nel primo racconto rifiuta di correre la campestre per paura di mostrare alla figlia la sua stanchezza. I lottatori, i viaggiatori, gli sconfitti che Franchini (da L’abusivo al Signore delle lacrime) ci ha svelato, si riflettono e ritrovano nel narratore che raggiunge Varadero per una battuta di pesca al marvin e, tornato deluso, si accontenta di fotografarne uno imbalsamato in un bar: «gli parve di averlo appeso nell’armadio dei suoi sogni irrealizzati e di essere uscito per sempre dalla vita che davvero avrebbe voluto per sé, chiudendo un’anta e sbattendo la porta».

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